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Il racconto si apre a Place Clichy, Montmartre. In un café siedono Bardamu e l’amico Arthur Ganate, “un étudiant, un carabin lui aussi, un camarade”24. Insieme discutono della Francia, della sua presunta razza, dell’ardore patriottico, del Presidente Poincaré reduce dall’inaugurazione di una mostra di cagnetti, di Dio e, più di tutto, della miseria che li affligge. Il primo quadro di vita parigina vista attraverso i vetri di un café è pretesto per parlare della gente di Parigi, categoria spesso ignorata da una letteratura intenta a celebrare se stessa guadagnandosi l’appoggio della tradizione, concentrandosi sui beaux quartiers e sugli hauts lieux littéraires. Nel Voyage è il popolo a fare da protagonista, quel popolo raccontato da Eugène Dabit come dimensione positiva25, quelle folle anonime centrali in tutta l’opera di Jules Romains, quella moltitudine che sotto la penna disincantata di uno di loro, lo scrittore Céline alias il dottor Destouches, diventa un “grand ramassis de miteux (…) chassieux, puceux, transis, qui ont échoué ici poursuivis par la faim, la peste, les tumeurs et le froid venus vaincus des quatre coins du monde”26. Céline attraverso il suo alter ego Bardamu parla una lingua popolare, perché, come dichiarò

Madelon lo insegue(…) lo assale. Lui, per uscirne e uscire da se stesso, vorrebbe essere eroico nel suo genere. Ma non sa come. Alla fine, nel taxi, capisce come. Dice a Madelon che non è lei che lo disgusta, ma l’universo intero. Lo dice come può e ne muore” (Bromberger, M., Le prix Théophraste

Renaudot. Le docteur X…, alias M. Céline. Une interview dans une clinique, «L’intransigeant», 8

dicembre, 1932 pp. 1-2, in Dauphin, J-P. e Godard, H., a cura di, op. cit. (1973), p. 21). Si segnala brevemente che l’utilizzo del termine storia non inficia l’ipotesi, avvallata dallo stesso autore, relativa alla sostanziale mancanza di storia di un testo definibile come romanzo. La stessa spiegazione della “storia” data qua da Céline è piuttosto una conferma dell’assoluta preminenza del piano del discorso e della sua ideologia in quanto la parabola di Robinson assomiglia più che a una storia raccontata a una vicenda quasi archetipica e universale riferibile a un tipo di un’umanità dal destino segnato e anche a una urgenza di demistificazione dell’uomo, scoperto da ultimo come immondo sotto-uomo.

24 Céline, L.-F., op. cit. (1932), p. 7.

25 “Chez Eugène Dabit l’attention portée aux quartiers populaires n’est pas liée au cadre parisien, à la

ville que Dabit trouve «laide», «bruyante», «presque monstrueuse». Dabit s'intéresse au peuple, à la foule à laquelle il accorde une «attention spirituelle»: il souhaite la «tirer de l'oubli». (…) Hôtel du

Nord [romanzo di Dabit apparso nel 1927 in una prima versione e nel 1929 in quella definitiva] se

situe dans le 10 arrondissement près du canal Saint- Martin. A travers la vie de l' Hôtel du Nord, Dabit présente la monotonie de la vie des locataires de l'hôtel, la pauvreté des filles que leur amant abandonne, la tuberculose très proche et associée à la misère. (…) Dabit a voulu dire la vie qu’il a vécue aux côtés de ces hommes anonymes du peuple de Paris, dans un récit à caractère autobiographique, Atmosphère de Paris (1931)” (Cohen, E., op. cit., p. 264). Si può dire che “chez Eugène Dabit, que les critiques de l’époque rapprochaient fréquemment de Céline, et qui a, d’ailleurs, joué un rôle dans l'élaboration du Voyage au bout de la nuit, le peuple de Paris prend une dimension positive (Ibidem, p. 284). Céline invece restituisce “les ombres mauvaises du petit peuple de Paris (…): veille mère dont on complote de se débarrasser, fillette battue pour exciter la lubricité de ses parents, avortements, dispensaires louches, crimes médités, crime réussis, crimes ratés, rien n’y manque. Et tout cela dans une atmosphère d'haleines fétides, d'odeurs fécales de suintements d'urine moisie, à décourager le plus enthousiaste des naturalistes… ” (Ramon Fernandez nel giornale gauchiste Marianne, 16 novembre 1932, cit. da Cohen, E., op. cit.).

163 in una delle poche interviste rilasciate, “questa lingua è il mio strumento” e “non si può impedire a un grande musicista di suonare la cornetta”27.

Il controverso autore di Voyage è “uno del popolo sul serio”, uno che rifugge la letteratura perché sa che “conta poco di fronte alla miseria che ci soffoca”, uno che suona le corde della vita più che della scrittura, che ascolta la voce interiore della “banlieue” che gli risuona dentro esaltandolo e spingendolo al racconto, uno, infine, che parla di ciò che ha imparato a conoscere, ici, in rue Lepic a Clichy e in tutti i sobborghi fetidi che ha abitato. La presenza del deittico “qui”, già segnalata a proposito dell’incipit di Tropic of Cancer, localizza la parola in un punto preciso e fa della Francia, dei Francesi e ancor più di quella indiscussa e sedicente capitale letteraria che è Parigi, il rovescio dei velleitari sogni anni ’20, lo specchio sinistro e centrifugo che attira a sé tutta l’eterogenea accozzaglia di miserabili venuti da tutti gli angoli del mondo perché “ils ne pouvaient pas aller puis loin à cause de la mer”28. Bardamu ci proverà ad andare più lontano ma alla fine, dopo aver attraversato almeno due angoli del mondo, ritornerà da dove è partito in mezzo alla sua gente maleodorante e pulciosa. “C'est ça la France et puis c'est ça les Français”29, sentenzia il narratore ma alla luce dello sviluppo futuro si potrebbe dire che questo è il mondo, questa la vita, e questo sono gli uomini tutti.

Il primo dialogo del testo, innescato da una breve descrizione che si analizzerà tra breve, suona come una risoluta dichiarazione sull’ideologia del testo e anche come riflessione metaletteraria (o sarebbe meglio dire, oltre-letteraria?) del primo autore che ha messo apertamente in scena la demistificazione della letteratura, che ha calpestato l’aureola già deposta e gli allori della poesia, rifugiandosi dietro lo schermo di un narratore che fa scandalo, non solo per le sue affermazioni oscene, ma, soprattutto, per il coraggio di presentarsi come un nudo e misero sottouomo, pronto innanzitutto a una lucida autodissacrazione. D’altronde, Bardamu non lascia dubbi ai lettori sul suo statuto di narratore e di personaggio della storia che ci racconta. Appartiene alla race di poveracci e parla con parole tese al massimo, questo antieroe che diverrà dottore come il suo autore e come i fratelli d’oltreoceano Dick Diver a Mattew O’Connor, questo fuggitivo che come Ulisse attraversa l’oceano solo per verificare ciò che già sa e che si fa narratore di storie immaginarie e verosimili che coincidono con la vita stessa. Come dichiara al suo amico, la nuova “lost” generazione è uguale a quella dei suoi antenati “haineux et dociles, violés, volés, étripés et couillons toujours”30. Non c’è, a differenza che in Fitzgerald, nessun mito dell’età dell’oro, né, diversamente che in Miller, nessuna utopia di palingenesi, né alcun progetto di rifondazione linguistica come in Djuna Barnes. “On est nés

27 Launay, P.-J., op. cit., in Dauphin, J-P. e Godard, H., a cura di, op. cit. (1973), pp. 13- 14. 28 Céline, L.-F., op. cit. (1932), p. 8.

29 Ibidem. 30 Ibidem.

164 fidèles, - dichiara Bardamu - on en crève nous autres ! Soldats gratuits, héros pour tout le monde et singes parlants, mots qui souffrent, on est nous les mignons du Roi Misère”31. La nuova parole è fatta di queste parole sofferte, strappate alla morsa delle dita perfide del Re Miseria che non permette trasgressioni, differenze o deviazioni, ma solo parti uguali recitate da tante scimmie, pronte a diventare eroi o soldati a seconda della convenienza e a farsi, sempre e comunque, mercenari al soldo del nuovo tiranno. In questo scenario non c’è spazio neanche per l’amore, “l’infini mis à la portée des caniches”32, quella degenerazione dell’agapé e della compassione provocata dal degrado etico del nuovo Dio che passa il tempo a contare “les minutes et les sous, un Dieu désespéré, sensuel et grognon comme un cochon”, un Dio porco e crapulone “avec des ailes en or qui retombe partout, le ventre en fair, prêt aux caresses”33. Da questo Dio padrone, che delega il suo potere alle mani stringenti e impietose del Re Miseria, non ci si può aspettare niente come forse niente ci si può aspettare da questo narratore per niente eroico o da questi personaggi sudici, mercenari e cisposi.

Sembra che Céline chiami in causa il suo lettore, non per tentarlo con lusinghe o promettergli illusioni a basso prezzo, quanto piuttosto per avvertirlo della lunga notte che sta per iniziare, per decostruire da subito ogni pretesa di consolazione, di compassione e di pudore. D’altronde, la Francia è in guerra, la gente muore ancora più di fame a causa dei nobili ideali sbandierati con tanta fierezza, di quelle parole, patria e “race”, che per chi conosce solo “mots qui souffrent” non hanno alcun significato. Céline -Bardamu e tutti gli altri (anti)eroi del testo parleranno con queste erranti parole insanguinate. Ritorna alla mente la rinuncia all’Arte alla Bellezza alla Tradizione e allo stesso statico ruolo dell’artista sbandierata dall’Io narrante di Tropic of Cancer34, quell’osceno esule americano che sceglie come parole quelle gravide di sperma, che ruba gli ansanti orgasmi delle tele di Matisse, che segue le tracce di sangue della follia di Strindberg, che compone una partitura musicale usando sempre la sua “cornetta”, a volte stonata e persino fastidiosa, altre poetica come il ricordo di un ultimo sorriso di Mona, altre ancora infernale come tutti i viaggi nella capitale. La stessa vita che vibra nelle pagine di Miller, l’abitante-

31

Ibidem.

32 Ibidem. 33 Ibidem, p. 9.

34 “I have no money, no resources, no hopes. Iam the happiest man alive. A year ago, six months ago,

I thought that I was an artist. I no longer think about it, I am. Everything that was literature has fallen from me. There are no more books to be written, thank God. This then? This is not a book. This is libel, slander, defamation of character. This is not a book, in the ordinary sense of the word. No, this is a prolonged insult, a gob of spit in the face of Art, a kick in the pants to God, Man, Destiny, Time, Love, Beauty… what you will. I am going to sing for you, a little off key perhaps, but I will sing, I will sing while you croak, I will dance over your dirty corpse… (…) It is not necessary to have an accordion, or a guitar, The essential thing is to want to sing. This then is a song. I am singing” (Miller, H, op. cit. (1934), pp. 1-2).

165 scrittore di Clichy, si ritrova in quelle di Céline, il dottore-scrittore di Clichy35, grondanti di una sincerità ancora superiore che trasforma il “mozzo della ruota”, il bord tra la vita e la morte, il giorno e la notte, tra reale e immaginario, nella più plateale denuncia della fine, del bout. La differenza maggiore sta proprio qui: nella consapevolezza che dalla banlieue, per chi ci è nato e vissuto, non si può mai fuggire, neanche passando attraverso il “womb” della memoria ancestrale, neanche scrivendo di questo “womb”. In Céline oltre alla miseria, c’è quello, terribile, che la miseria si porta con sé: quell’assenza si solidarietà tra gli ultimi e quella incapacità di compassione che ha ucciso il corpo di Simon Weil durante la sua volontaria esperienza in fabbrica36. Ci sono anche l’indifferenza e il qualunquismo della gente, il cordone sanitario con il quale i quartieri scintillanti si difendono, nel caso la Senna livida non fosse sufficiente, dai “ratti di Montfaucon”. Bardamu è una creatura grottesca, senza apparente coscienza politica, un essere sfibrato dalla miseria, un fantasma alla Gautier incapace, però, di dar fuoco alla “nouvelle Babylonie”. L’unica cosa che il lettore si può aspettare da questo anti- sotto- uomo, che ben più di Miller sa di essere “disumano”, è la fedeltà di ciò che vede e descrive, e non deve sentirsi turbato dalla lucidità prossima al cinismo con la quale il suo sguardo si muove, perché almeno di una cosa si può essere sicuri a proposito di Bardamu: forse scimmia per necessità quando vive da personaggio, non è di certo una scimmia quando narra.

35 La letteratura critica si è a lungo interrogata sui possibili legami genetici tra Tropic of Cancer

(1934 ) e Voyage au bout de la nuit, apparso nel 1932 e coronato, nel dicembre dello stesso anno, dal premio Théophraste Renadout dopo aver mancato per un soffio il premio Goncourt. Benché ci siano indubbie affinità tra i due testi, chi crede di vedere in Tropic l’influenza diretta di Céline si sbaglia perché, sottolinea Caracalla, “à ce jour, Miller n’a pas encore lu le Voyage” (Caracalla, J- P., op. cit. p. 258). Ciò che lega i due testi è ben espresso da una dichiarazione di Céline sul romanzo dell’americano così riportata da Caracalla nel suo studio: “ce n’est pas de la littérature mais la vie telle qu’elle se présente” (Ibidem). Come si vedrà in occasione dell’analisi delle pagine dedicate all’esperienza newyorkese, Bardamu considera l’esilio una condizione unica per mostrare l’esitenza “telle qu'elle est vraiment”. Miller, dal canto suo, proclamerà di aver scritto il suo libro intingendo la penna direttamente nella vita.

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Simon Weil lasciò l’insegnamento di filosofia per andare a lavorare in una fabbrica della Renault. Di questa esperienza ci è rimasta una sofferente testimonianza, pubblicata postuma nel 1951 col titolo

La Condition ouvrière, (Gallimard, Paris, 1951; trad. it. Franco Fortini, La condizione operaia, SE,

Milano, 1994). Oltre alla celebre definizione della fabbrica come “penitenziario” (ibidem, p. 65), alla denuncia dell’assoluta mancanza di solidarietà intersoggettiva tra gli operai perché si è sempre “soli col proprio lavoro” (ibidem, p. 36) e alle pagine dedicate all’abbruttimento di un corpo che non può non ribellarsi all’automatismo logorante della macchina, si vuole qui richiamare una descrizione in particolare, perché alcuni dei motivi tematizzati saranno presenti nelle istantanee scattate da Bardamu a Detroit: “quel medesimo dolore sordo e continuo che impedisce al pensiero di viaggiare nel tempo gli impedisce anche di viaggiare attraverso la fabbrica e lo inchioda in un punto dello spazio, come all’attimo presente” (ibidem, p. 269). Per la filosofa, d’altronde, una voLta caduti nel mondo “dobbiamo realmente attraversare il tempo, penosamente, un minuto dopo l’altro” (ibidem, p. 276).

166 La prima descrizione, più volte annunciata e forse troppo a lungo rimandata dall’inizio del presente paragrafo, è una sintetica immagine del deserto estivo parigino e un esempio di come la descrizione funzioni da “déclencheur” del racconto. Si legge:

Alors, on remarque encore qu'il n'y avait personne dans les rues, à cause de la chaleur; pas de voitures, rien. Quand il fait très froid, non plus, il n'y a personne dans les rues; c'est lui, même que le m'en souviens, qui m'avait dit à ce propos: « Les gens de Paris ont l'air toujours d'être occupés, mais en fait, ils se promènent du matin au soir; la preuve, c'est que lorsqu'il ne fait pas bon à se promener, trop froid ou trop chaud, on ne les voit plus; ils sont tous dedans à prendre des cafés crème et des bocks. C'est ainsi! Siècle de vitesse! qu'ils disent. Où ça? Grands changements! qu'ils racontent. Comment ça? Rien n'est changé en vérité. Ils continuent à s'admirer et c'est tout. Et ça n'est pas nouveau non plus. Des mots, et encore pas beaucoup, même parmi les mots, qui sont changés! Deux ou trois par-ci, par-là, des petits... » Bien fiers alors d'avoir fait sonner ces vérités utiles, on est demeurés là assis, ravis, à regarder les dames du café37.

Ben diverso dal deserto infuocato della Parigi estiva di Tender is the night, specchio del prossimo erompere impetuoso del desiderio di Dick, nonché superficie ormai irreparabilmente macchiata dal sangue incandescente del recente omicidio, il deserto di questa immagine va dritto nel cuore della riflessione sul “secolo” breve, l’epoca della velocità e dei presunti “grandi cambiamenti”. In realtà, nonostante il progresso e la furia della Storia, la vita quotidiana continua a scorrere come sempre, con qualche parola in più, forse, “di quelle piccole” peraltro, ma per il resto inesorabilmente uguale a se stessa. L’atmosfera stagnante evocata, in toni diversi, da Jean Rhys e da Arthur Miller, non è qui espediente per mettere in luce l’isolamento dell’esule nella città straniera, la sua chiusura esistenziale (Goodmorning, midnight) né per predisporre il rovesciamento vitale nell’immaginario (Tropic of Cancer), quanto piuttosto istantanea del qualunquismo parigino. Evidenziata da Charles Wales in Babylon revisited38, questa apparente imperturbabilità dei Francesi rispetto agli eventi storici è in Voyage au bout de la nuit il primo, ancora impercettibile, graffio che il narratore-descrittore incide sulla retorica ufficiale.

Ci si trova di fronte a un doppio livello comunicativo: il primo, dal basso, quello di Bardamu e della sua race, quello che parla la lingua del popolo e che vive per riuscire a mangiare, e il secondo, dall’alto, quello del presidente Poincaré, dei

37 Céline, L-F., op. cit. (1932), p. 7.

38 Charlie vedendo un gruppo di “strident queens” pensa tra sé e sé “nothing affects them (…). Stocks

167 generali, dei colonnelli, degli uomini della patria, che possono permettersi il lusso di parlare il linguaggio della storia, di quella presunta e nobile razionalità che tiene gli ultimi sempre al margine. Una tale interpretazione sembra trovare conferma dalla chiusura di questo primo e fulminante capitolo. Bardamu attirato da un colonnello dall’aria “simpatica e dannatamente in gamba” raggiunge un reggimento che sfila davanti al café nel quale è seduto in compagnia dell’amico. Si arruola per vedere “se è così”, se le invettive che ha appena lanciato sono vere, se è vero che "enfin on est tous casca sur une grande galère, on rame tous à tour de bras”39, se è vero che l’unico destino dei “nous autres” è fatto “des coups de trique seulement, des misères, des bobards et puis des vacheries encore”40.

Bardamu snocciola quindi una vera e propria teoria del potere, dai toni parodici e graffianti, ricorrendo alla metafora della nave: nella stiva stanno i “nous autres”, Bardamu e tutti i poveracci come lui, “a sputare l’anima, puzzolenti, con le palle che sudano”, mentre “in alto sul ponte, al fresco ci sono i padroni e mica se la prendono, con belle femmine rosa tutte gonfie di profumo sulle ginocchia”. Sul ponte i servi salgono solo per ascoltare i discorsi dei rappresentanti della “patria n° 1”, che li incitano, in alta uniforme, contro gli “sporcaccioni che stanno sulla patria n° 2”, e urlano di gridare forte per avere la medaglia all’onore e il confetto di Gesù, benedizione in cielo e in terra, mentre rassicurano quelli “che non vogliono crepare in mare, [che] potranno crepare in terra, dove si fa ancora più in fretta di qui!”. La parola di Bardamu è qui quella obliqua del teatro, o, meglio, della farsa, dai toni certamente diversi rispetto alla rappresentazione elisabettiana allestita dalla Barnes o rispetto alla “slapstick comedy” dei “six relicts” di Tender is the night. Quello che va di scena qui è semplicemente la vita, vissuta e insieme osservata dallo schermo della finzione immaginaria. Il protagonista si ritrova improvvisamente sulla nave della morte, un po’ per gioco un po’ per fatale distrazione. Per un attimo lo vediamo sul ponte a raccogliere gli incoraggiamenti dei civili, ma è solo un attimo spazzato via dalle prime gocce di pioggia.

Alors on a marché longtemps. Y en avait plus qu'il y en avait encore des rues, et puis dedans des civils et leurs femmes qui nous poussaient des encouragements, et qui lançaient des fleurs, des terrasses, devant les gares, des pleines églises. Il y en avait des patriotes! Et puis il s'est mis à y en avoir moins des patriotes... La pluie est tombée, et puis encore de moins en moins et puis plus du tout d'encouragements, plus un seul, sur la route.41

Inizia il viaggio e l’invito del narratore a seguirlo, non certo dei più allettanti, appare antitetico rispetto all’Invitation di Baudelaire, che prometteva alla sua