• Non ci sono risultati.

Follia della storia e follia dell’uomo Istantanee dal margine.

La pazzia di Bardamu si costituisce come l’inverso speculare dell’immensa e farsesca follia storica simboleggiata dall’immagine della galère: se la seconda è una condanna a morte collettiva, la prima diventa il modo per sfuggire a tale condanna, perché “quando è arrivato il momento del mondo alla rovescia, e sei pazzo perché domandi perché ti ammazzano, diventa evidente che passi per matto con poca spesa”. Bardamu, uno dei “blessés troubles”, finisce in un liceo di Issy-les Moulineaux, “organizzato per accogliere e spingere i soldati con le buone o con le cattive a confessare (….) soldati (…) il cui ideale patriottico era semplicemente compromesso o del tutto malato”. Il liceo – ospedale è non solo un luogo concreto e fisico e uno scenario della storia in atto, ma anche un’ennesima traduzione dell’insidiosa ambiguità ideologica del sistema che vive, grazie alla propaganda retorica, su un colpevole equivoco, su quella disequazione tra realtà e racconto ed evento e parola che porta alla radicale negazione della verità o, meglio, della possibilità stessa di una verità.

Céline, l’anti-letterario provocatore che non rinuncia a dar scandalo, denuncia un corto-circuito che è prima di tutto linguistico: la rivendicazione di una lingua popolare non è una mera scelta estetica né populista, ma il mezzo per far emergere fino in fondo la contraddizione del sistema sfidandolo sul terreno della parole, articolando una dialettica discorsiva tra alto e basso, nella forma metaforica del ponte e della stiva. Ai discorsi degli ufficiali in alta uniforme, che si sollazzano con carni fresche e rosee, della ricca Lola, preoccupata soprattutto di non ingrassare, dei giornali e dei pamphlet di propaganda, Bardamu risponde con la sua parole folle e veritiera; alla lingua deplorevole del verosimile il protagonista oppone la sua lingua cruda bagnata nelle acque della morte e della miseria. Questa dicotomia irriducibile non rimane a livello linguistico ma si traduce nella polarità antinomica dei segni spaziali, nella costruzione di uno spazio che rassomiglia all’immagine del villaggio notturno circondato dalla luce della guerra: il tranquillo centro parigino, sede, non solo fisica, ma anche discorsiva del potere, è una sorta di fortezza oltre le cui mura si stende un territorio infiammato, prima durante e dopo la guerra, dal sole esecrabile della miseria, una zona paradossale che è in sé “nuit” ma che è squarciata di continuo da flammes lugubri. La descrizione del liceo - ospedale insiste su tale dicotomia e lo fa in modo da sottolineare la fondamentale ambiguità del luogo che si potrebbe definire un’immagine dialettica dell’opposizione tra ponte e stiva, in quanto diventa il setting ideale per mettere in scena l’antinomia discorsiva tra il potere “dall’alto” e l’impotenza “dal basso”. Ai discorsi dei medici che mirano a rivitalizzare il compromesso patriottismo dei feriti di guerra e a instillare loro la perversa e innaturale volontà di morire, si alternano quelli di Bardamu a Lola e di un suo commilitone, il colto professore Princhard (probabilmente finito al muro), che

192 rivendicano invece il diritto supremo alla vita e a non “devenir un fantôme”93. Il liceo è un luogo di internamento per uomini che, per guarire, devono perdere la loro umanità e farsi radicalmente disumani, è lo spazio dove la storia vera degli umili cerca un ultima disperata difesa contro la Storia ufficiale e dove alla fine soccombe perché, come constata amaramente Bardamu “ tout ce qui est intéressant se passe dans l'ombre, décidément” e “on ne sait rien de la véritable histoire des hommes”94. L’ospedale rappresenta insieme la periferia che, nei piani della retorica ufficiale, per sopravvivere deve guardare la gloriosa Parigi e, paradossalmente, il margine che per vivere deve girare lo sguardo altrove.

Due brevi descrizioni del liceo appaiono a tal riguardo particolarmente interessanti: la prima si trova una pagina oltre l’incipit mentre la seconda chiude il capitolo e segue la “deportazione” di Princhard, la cui sorte rimane ignota al narratore e quindi al lettore, benché facilmente intuibile. Entrambe insistono su ciò che si vede dall’ospedale, Parigi nel primo caso, la notte vasta e disseminata nel secondo, riecheggiando la già citata poesia di Mallarmé, Les fenêtres, nella quale “las du triste hôpital, et de l’encens fétide/ (…) Le moribond sournois y redresse un vieux dos // Se traîne et va, moins pour chauffer sa pourriture/ Que pour voir du soleil, coller/ Les poils blancs et les os de la maigre figure / Aux fenêtres qu’un beau rayon clair veut hâler/ (…)”.95

La figura rievocata dal poeta ha la bocca “fiévreuse et d’azur bleu vorace” e spingendo l’occhio, dimentico dell’orrenda unzione, “à l’horizon de lumière gorgé” vede “galères d’or (…) sur un fleuve de pourpre et de parfums dormir (…) dans un grand nonchaloir chargé de souvenirs”. Così il poeta, nauseato dall’uomo incallito, s’abbranca a “tutte le chiuse vetrate, donde alla vita si voltan le spalle” e là vede rinascere il sogno della Bellezza, per ricadere però inesorabilmente nel Quaggiù che spadroneggia spietato e tiene in scacco l’Io. La tensione tra l’Ici-bas e l’oltre, annunciato da un riflesso sulla finestra, lascia aperta la speranza di “sfondare il cristallo contaminato dal mostro” e in questo spazio di confine, esistenziale e fisico, nasce la scrittura, ritornano i suoni “come un diadema al cielo anteriore”, si ricrea un (non) luogo libero nei territori sacri dell’immaginario.

Bardamu invece, il cauto folle, vede solo galere per niente dorate, i riflessi sono meri presagi di morte, la memoria puzzolente della stiva è affondata e i vetri, piccoli come oblò, si aprono sulla notte indistinta o sulla finzione scintillante di una Parigi irraggiungibile. Tutto questo ce lo dice l’ospedale, langue bifronte dove i segni dell’impuissance du monde vivono solo per essere cancellati da un dispotico Significante supremo, dove la prospettiva, lungi dal dischiudere lo spazio libero dell’immaginario, è visione amara dell’esclusione e della marginalità di un intero cosmo. Tornando direttamente al testo, si legge:

93 Ibidem, p. 62.

94 Ibidem, p. 64.

95 Mallarmé, S., Les fenêtres, «Le Parnasse Contemporain», 1866, in Mallarmé, S., Poesie, edizione

193 Les bâtiments du lycée s'ouvraient sur une très ample terrasse, dorée

l'été, au milieu des arbres, et d'où se découvrait magnifiquement Paris, en sorte de glorieuse perspective. C'était là que le jeudi nos visiteurs nous attendaient et Lola parmi eux, venant m'apporter ponctuellement gâteaux, conseils et cigarettes.96

Ces maisons du faubourg qui limitaient notre parc se détachaient encore une fois, bien nettes, comme font toutes les choses avant que le soir les prenne. Les arbres grandissaient dans l'ombre et montaient au ciel rejoindre la nuit97.

I due passi sembrano indissolubilmente legati perché il secondo rappresenta la demistificazione dei segni euforici che attraversano il primo. L’ampia terrazza, “dorata d’estate”, è una sorta di confine nel confine: una zona neutra che, voltando le spalle alla vita vera, la vita di Quaggiù, rivolge lo sguardo verso Parigi, lasciando penetrare attraverso gli alberi, frammenti di una “gloriosa prospettiva”. In questo spazio si svolgono gli incontri tra i malati e i loro visitatori, qui entrano “dolci, consigli e sigarette” che provengono direttamente, se a portarli è la piccola mano di Lola, da quel luogo dove, come già ci ha avvertito Bardamu, tutto ciò che si ingoia o si legge o si ammira non è “altro che fantasmi pieni d’odio, falsificazioni e mascherate”.

Nella terrazza che separa la reclusione dalla libertà, la verità dalla falsità, si consuma il distacco definitivo tra il protagonista e la donna che accusa Bardamu di essere un vigliacco e “ripugnante come un topo”, perché solo i pazzi o i vigliacchi “rifiutano la guerra quando la loro Patria è in pericolo”. Bardamu, dopo aver rivendicato la propria ragione perché - dice - “seraient-ils neuf cent quatre-vingt-quinze millions et moi tout seul, c'est eux qui ont tort, Lola, et c'est moi qui ai raison, parce que je suis le seul à savoir ce que je veux: je ne veux plus mourir”98, si lancia in una delle sue invettive ribadendo, ancora, l’insensatezza di questa come di ogni guerra e insistendo sul colpevole oblio che condanna tutti i morti per la patria, nella Guerra dei Cent’anni come nella Grande Guerra, a diventare “anonymes, indifférents et plus inconnus que le dernier atome de ce presse-papier devant nous, que votre crotte du matin... ”99. Conclude affermando di non credere all’avvenire, portando così fino in fondo quella assoluta fissazione temporale che già si era annunciata di fronte allo Stand delle Nazioni. Bardamu, oltre le finestre, non può vedere niente perché la sua chiusura spaziale coincide con una brusca interruzione della trama temporale che

96 Céline, L. F., op. cit. (1932), p. 62. 97 Ibidem, p. 71.

98 Ibidem, p. 65. 99 Ibidem.

194 gira intorno a quell’attimo lugubre nel quale, ieri oggi e domani, gli sparano addosso, a quell’istante che è già “bout de la nuit”.

La chiusura del capitolo non poteva essere più emblematica: la descrizione è ripresa e demistificata e gli alberi, che solo qualche pagina prima filtravano la gloriosa immagine parigina, ora conservano nelle loro fronde la memoria fuggevole di chi vi è passato, come Princhard, per andare incontro alla morte. Salgono fino al cielo, quegli alberi, per ricongiungersi con la Notte indistinta di un cielo spietato mentre tutto intorno le case dei sobborghi assumono contorni sempre più netti isolando gli abitanti del margine dal Giorno glorioso che Parigi annuncia nell’estate dorata.

195

VI) Le notti dolci di Billancourt: fantasmagoria degli abissi. La dialettica tra centro e margine sotto la forma di alto e basso.

Così si chiude un capitolo e se ne apre un altro, già anticipato nel paragrafo precedente per dar conto dell’ideologia del testo. In questa parte del romanzo Bardamu dedica alcune pagine alla descrizione del negozio di Mme Hérote, sempre nell’ottica ossessiva e stringente dell’invalicabile frontiera che lo separa dai luoghi dei ricchi, attraverso il racconto-descrizione della sua breve e furtiva incursione nel mondo proibito, in quel “côté de chez les riches” speculare all’“autre côté de la vie” dal quale il protagonista proviene. La differenza tra le due sponde è percepibile, più che dall’aspetto del quartiere, che rispetto alle altre aeree ha in più “que les rues y sont un peu plus propres et c'est tout”, dall’intérieur même de ces gens, de ces choses” e per accedervi “il faut se fier au hasard ou à l'intimité”100. Il negozio di lingérie costituisce un vestibolo ideale per transitare da un lato all’altro di questo mondo diviso, per spingersi “un po’ innanzi in quella riserva per via degli argentini che scendevano dai quartieri privilegiati a rifornirsi da lei di mutande e camicie e stuzzicare il suo bel mazzo di amiche ambiziose, teatranti e musiciste”. Bardamu si lega “ a una di queste”, Musyne, così la chiamavano in giro, ma da offrirle ha solo la sua giovinezza e commette l’errore, come confessa, di attaccarsi un po’ troppo. Alla giovane, che si guadagna da vivere suonando il violino, Bardamu dedica tutto il suo tempo, quel tempo ridotto all’intervallo tra l’uscita dall’ospedale e l’uscita di Musyne dal teatro, finché, ottenuta dalle autorità militari una convalescenza di due mesi, va a vivere insieme alla donna a Billancourt, banlieue parigina dalla folta presenza russa nota per gli stabilimenti Renault e, sul versante letterario, per le Chroniques de Billancourt scritte da un’immigrata russa degli anni’ 20, Nina Berberova101.

Bardamu si ritrova in realtà quasi sempre solo perché Musyne adduce continui pretesti per trattenersi a Parigi nel côté de chez les riches mentre il protagonista rimane escluso da quel mondo, dal “bon gateau”, confinato in quella dilagante zona che egli chiama “tout le reste” dove tutto è “fatica e letame”. Billancourt rappresenta la definitiva presa di coscienza del narratore, una sorta di luogo gnoseologico per

100 Ibidem, p. 75.

101 “Les Chroniques de Billancourt écrites entre 1928 et 1940 par Nina Berberova et publiées dans le

quotidien liberal russe de Milioukov, les Dernières Nouvelles sont l'illustration de cette perception de Paris depuis la banlieue et en particulier depuis les usines Renault devenues depuis la révolution russe un des hauts lieux de l'émigration russe à Paris. Plusieurs chroniques mentionnent Billancourt en précisant qu’il se situe à proximité d’une capitale de rang mondiale, « près » de la capitale. Si Paris est du côté du plaisir, des arts, du monde féminin, Billancourt, peuplé d’émigrés russes bénéficie de sa proximité tout en étant marqué par le travail de l’usine, le chômage en tant de crise. Billancourt est un monde d' hommes de la métallurgie alors que Paris est une ville des femmes, faite pour les femmes. (…) Selon elle [Berberova], la banlieue s’identifie entièrement avec Billancourt” (Cohen, E., op. cit., p. 269).

196 Bardamu che confessa amaramente: “Je n'avais pas encore appris qu'il existe deux humanités très différentes, celle des riches et celle des pauvres. Il m'a fallu, comme à tant d'autres, vingt années et la guerre, pour apprendre à me tenir dans ma catégorie, à demander le prix des choses et des êtres avant d'y toucher, et surtout avant d'y tenir”102. Musyne rappresenta una sorta di mediazione tra queste due umanità ma, anche quando Bardamu la raggiunge nei luoghi privilegiati dove ella si esibisce, rimane confinato nelle sale dei domestici: gli “dei argentini” “en haut avec Musyne” e lui “en dessous, avec rien”. D’altronde, Musyne pensa seriamente al suo avvenire e ovviamente preferisce farlo “avec un Dieu”, non con chi riesce a figurarsi il futuro solo in una “sorta di delirio” come farneticante terra di mezzo tra la morte in guerra del giorno prima e quella per fame dell’indomani. Così, mentre la donna trova i suoi dei argentini nella “fetta buona della città”, dalle parti di Ternes e ai confini del Bois “en petits hôtels particuliers, bien clos, brillants, où par ces temps d'hiver il régnait une chaleur si agréable”103, Bardamu rimane nella stiva, a scaldarsi inutilmente con i domestici o nella sua casa a Billancourt, dove sicuramente il divino non si fa vedere, dove “la poesia eroica” che tanto commuove ai piani alti smette di avere senso, dove “sopra la (…) testa” non ballano gli dei ma gli aerei carichi di morte.

Le immagini che Bardamu lascia della banlieue di Billancourt sono tutte notturne e l’incipit della prima descrizione riecheggia in modo sinistro le cronache dal fronte, contribuendo a rafforzare il legame identitario, e quasi tautologico, tra le tre dimensioni temporali: l’istante si apre su ieri e domani rivelando un unico e onnicomprensivo orizzonte di morte che, come il cerchio che stringe sempre più i villaggi minacciati dalla guerra, prefigura l’eterno ritorno pronto a invadere tutti i margini del mondo, condannandoli a un destino di ripetizione. Poco importa se si muoia per mare o per terra, ammazzati in guerra o uccisi dalla miseria, si muore sempre e comunque: questo sembra il messaggio che Bardamu ci consegna dal suo viaggio au bout de la nuit. Guardando da vicino il testo per ascoltare la voce disincantata del descrittore, si legge:

Les nuits de Billancourt étaient douces, animées parfois par ces puériles alarmes d'avions et de zeppelins, grâce auxquelles les citadins trouvaient moyen d'éprouver des frissons justificatifs. En attendant mon amante, j'allais me promener, nuit tombée, jusqu'au pont de Grenelle, là où l'ombre monte du fleuve jusqu'au tablier du métro, avec ses lampadaires en chapelets, tendu en plein noir, avec sa ferraille énorme aussi qui va foncer en tonnerre en plein flanc des gros immeubles du quai de Passy. Il existe certains coins comme ça dans les villes, si stupidement laids qu'on y est presque toujours seul104.

102 Ibidem, 81.

103 Ibidem. 104 Ibidem, p. 79.