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Disarmonie e armonie de La isla de diamante y de hierro

I VIAGGI IN EUROPA DI RICARDO ROJAS

8. Disarmonie e armonie de La isla de diamante y de hierro

Il contrasto tra “latinos” e “anglosajones”, il repertorio di topoi che attorno a quel dualismo “razziale” aveva alimentato la fitta produzione saggistica del tempo, guida, come si è cominciato a vedere, la lettura rojoniana dei rapporti delle nazioni nell’equilibrio politico e culturale europeo e mondiale, ed emerge, con un estremismo ideologico inconsueto in Rojas, nel giudizio dell’Inghilterra presentato nelle pagine iniziali de La isla de diamante y de hierro. Pagine che peraltro, a sentire le dichiarazioni dell’autore, non riportano le reazioni a caldo del viaggiatore, tanto negative e irruente che il «juicioso corresponsal» si era astenuto dal consegnarle alla redazione de “La Nación”, nella cui testata sarebbero spiccate come «un panfleto apasionado y violento»375.

Eppure, osservata una tregua giornalistica di quaranta giorni, Rojas non si adopera in Sensación de Ultramancha in un grande sforzo di diplomazia. Lo farà

373 Ibid.

374 Id., Oda Latina. Texto original en hexametros romanceados, seguidos de una traducción en latín y de

otras versiones en lenguas modernas, Buenos Aires, Guillermo Kraft Ltda., 1953, p. 7. Il testo,

composto nel 1910, appariva già nella sezione “Los lises del Blasón” de La Victoria del

Hombre y otros cantos, op. cit., pp. 210-214. Tornerò ad occuparmi di questo componimento

più avanti.

sul finire del percorso quando, riconoscendosi vittima di pregiudizi consolidati nel suo paese, ritirerà i caustici giudizi, rovesciando la condanna inesorabile emessa al calore di sensazioni superficialmente idiosincrasiche in un verdetto ampiamente elogiativo dell’insospettato “idealismo” che alimenta la civiltà britannica.

In Sensación de Ultramancha, intanto, il gioco delle argomentazioni retoriche è delle più convenzionali. Si tratta di opporre alle innegabili capacità politiche, economiche del «fabuloso país de Ultramancha, ante cuya grandeza se prosterna hoy el snobismo latino», alle sue doti belliche, che ne fanno «la nación más temida sobre los mares»376, i risultati infelici, deboli, modesti della

sua civiltà architettonica e artistica. La ricognizione di questi si attesta sulle polarità consuete della «falta de claridad» - qualità consacrata da Menéndez Pelayo come una virtù latina per eccellenza -, della “disarmonia”, del «caótico», quindi di una «fealdad» che rasenta le connotazioni estreme del «grotesco», del «monstruoso» e del «bárbaro».

«Ciudad enorme y fea, fea y enorme como un monstruo» gli appare Londra, una città – egli dice – ben distinta da quella «que suelen describiros los demulenes que andan por el mundo»377, annota l’autore con una interessante

categorizzazione dei seguaci della pessimistica sociologia di Demolins, interprete di spicco – come si è visto - con il suo À quoi tient la supériorité des

Anglo-Saxons? (1897), del diffuso motivo della decadenza dei latini sotto

l’egemonia della superiore razza anglosassone. Non manca il riferimento classico alle teorie di specie deterministica dell’influenza delle condizioni geografiche e climatiche sui caratteri dei popoli e delle loro espressioni artistiche: l’«opacidad del ambiente», ragiona Rojas, ha impedito «el florecimiento de un arte como el de los países solares»378.

Il gioco retorico delle contrapposizioni tra «mal gusto británico» e profondo senso artistico dei latini si scopre completamente, lasciando emrgere il suo meccanismo semplicistico, quasi infantile, quando l’autore, abbandonandosi ad un elogio delle tre incontestabili «maravillas» architettoniche di Westminster, di Saint Paul e del British Museum, si premurerà un attimo dopo di precisare che quelle testimonianze non costituiscono un «argumento en favor de la superioridad de los anglosajones, pues ninguna armonía visible liga sus grandezas – griega, romana, gótica, - al resto utilitario de la ciudad»379.

Si potrebbe proseguire a lungo nella ricognizione di Rojas380. Conviene

piuttosto esaminare gli argomenti con cui, in particolare nella prosa

376 Ivi, pp. 139-140. 377 Ivi, pp. 143, 144. 378 Ivi, p. 146. 379 Ivi, p. 147.

380 Sul piano dei costumi morali e religiosi, le riflessioni di Rojas evidenziano la

preoccupazione di demistificare la tanto «decantada moralidad sajona», espressione artificiosa di un rispetto esteriore e ipocrita delle regole puritane del vivere pubblico e di un’indiscussa sovranità della morale soggettiva nelle questioni private del cittadino. È insomma la morale «de la calle honesta y el hogar inviolable», che Rojas vede ben riassunta

emblematicamente intitolata El idealismo británico, con la stessa vena appassionata con cui si è applicato precedentemente ad argomentare la sua stroncatura, Rojas si impegna a smontare la diffusa lettura “calibanesca” della civiltà anglosassone.

Ma in ciò, in verità, Rojas era stato preceduto proprio da uno dei più vementi agitatori del teorema del «calibanismo», Rubén Darío. Bisognerà al proposito tornare sui testi, richiamati sopra, delle Peregrinaciones, pagine importantissime della letteratura odeporica, e in generale una ricchissima testimonianza dell’evento spettacolare con cui il mondo salutò nella capitale francese l’avvento del nuovo secolo. In un certo senso l’esposizione universale incarnava agli occhi stupefatti del reporter nicaraguense il trionfo assoluto del sogno eclettistico ed ecumenico rincorso dall’estetica modernista. Come avrebbe riflettuto Salinas, Rubén Darío aveva fatto di Parigi la “Cosmópolis”, la capitale babilonica del regno esotista di un’arte che poteva raggruppare in uno stesso intangibile spazio immaginativo la figura di Renan alla Sorbona, i cigni estatici dei laghi di Versailles con «las raras pagodas, los templos llenos de dragones» di Oriente.

Ora, con l’esposizione universale, la già mitizzata “Cosmópolis” ospitava il prodigio architettonico di una «Babel» transitoria, di un’«inaudita Basora»381,

dove si materializzavano, con la «la más victoriosa prueba de lo que pueden la idea y el trabajo de los pueblos»382, «la agrupación de todas las arquitecturas, la

profusión de todos los estilos, de la habitación y el movimiento humano»383.

«Los pabellones, las banderas, están juntos, como los espíritus»384, annotava il

cronista ammirato dell’incredibile convivio di razze e popoli radunato nelle strade parigine. Ma Darío non tralasciava di individuare che dietro l’atmosfera festosa con cui si erano dati «cita fraterna» «los pueblos todos»385 si

consumavano le complesse dinamiche delle rivalità imperialistiche delle nazioni in gioco, in “mostra”, nelle varie sezioni espositive.

In La casa de Italia riferiva delle critiche ingiuste che sull’onda degli «efectos de la Tríplice» erano piovute sulla «sección italiana», e si affidava alla guida super

partes di Hugues Rebell, cultore appassionato della civiltà italiana e di «todos

in una massima delle Cartas de Inglaterra di Eça de Queiroz: «la felicidad de un pueblo consiste en la “pose” de una fuerte moral cristiana aliada á un uso moderado de liberalidad». E così «con esa moral de aparencias y su sentido industrial y político, han conseguido agrupar varias colonias en un imperio poderoso, varias islas en una fuerte metrópoli y varios pueblos en una sola ciudad». Epperò, Rojas non può fare a meno di evidenziare come l’abile capacità politica ed economica della razza, sprovvista totalmente di «sentido estético», si materializzi nella realtà urbana di Londra nella dimensione opprimente e raggelante di una «grandeza deforme y difusa», di un paesaggio che trascende la stessa definizione comune di «ciudad»; non più umano in definitiva, esso evoca atmosfere «siderales», visioni apocalittiche «de los últimos Froment»…

381 R. Darío, En París, op. cit., pp. 12, 14. 382 Ivi, p. 9.

383 Ivi, p. 8. 384 Ivi, pp. 9-10. 385 Ivi, p. 9.

los países latinos», di cui registrava un’appassionata «omilía» in difesa dell’Italia «durmiente», «agotada por tantos divinos partos», ma di certo non «muerta»386.

In Los anglosajones, ammetteva la fondatezza delle proteste dell’impero britannico, che non si era visto riconosciuto «en la Exposición un espacio relativo al área que cubre sobre la tierra», ma per sottolineare subito dopo che «la exposición puede ser mirada, en un sentido, como un gigantesco anuncio del hecho – que el mundo a veces olvida – de que Francia es una de las más grandes potencias coloniales»387.

Tuttavia, poco più in là, doveva constatare che nel «mapa imponente del sonoro libro de Demoulins», «el color correspondiente a los anglosajones ocupa casi toda la tierra»388. Con l’intenzione manifesta di appurare con i suoi

occhi «en que consiste la superioridad de los anglosajones», questione che, come si è visto, aveva dato il titolo all’allora assai diffuso libro di Demolins, il cronista si introduceva nello spazio espositivo occupato dalla potenza statunitense.

Le risposte immediate sembrano provenire tutte dall’orizzonte del poderoso impero monetario degli USA. Un accompagnatore nordamericano lo informava con compiacimento che il suo paese aveva sborsato per l’allestimento «un crédito de 7.500.000 francos» ed ecco che all’orizzonte si materializzava la struttura della «cúpula presuntuosa», sulla quale «el águila yanqui abría sus vastas alas, dorada como una moneda de veinte dólares, protectora como una compañía de seguros»389. Ma nel corso della trattazione

Darío avrebbe riconosciuto che nella civiltà anglosassone non tutto si produceva e consumava nel culto del «glorioso pájaro de rapiña», che, «donde la mayoría se dedica al culto del dólar, se desarrolla, ante el imperio plutocrático, una minoría intelectual de innegable excelencia»: «entre esos millones de Calibanes nacen los más maravillosos Arieles», scriveva il poeta. E così pure, ricordando le figure insigni di Gladstone, Ruskin, Mill o Morris, annoverava gli inglesi tra i più «fervientes y sinceros seguidores y levitas» della «belleza» e registrava nello spazio espositivo occupato dalla Gran Bretagna un’equilibrata distribuzione della sua «ciencia» e della sua «arte», delle sue «máquinas pacíficas y sus poderosas máquinas militares»390 .

Le cronache del 1900 costituivano d’altronde una tenue anticipazione dell’improvvisa apertura “panamericanistica” prodottasi in Darío a ridosso della sua partecipazione come rappresentante della delegazione nicaraguense alla terza Conferencia Panamericana, che si celebrò a Rio de Janeiro nel 1906. La Salutación al Águila, il prologo di El canto errante, i versi di Dilucidaciones sollevarono un vero «escándalo político», un moto di indignazione, per quella che apparve una diserzione inspiegabile e oltraggiosa da parte di chi si era fatto, a partire dai Cantos de vida y esperanza, uno dei più strenui difensori, in

386 Id., La casa de Italia, in Peregrinaciones, op. cit., pp. 38, 40. 387 Id, Los anglosajones, in Peregrinaciones, op. cit., p. 50. 388 Ivi, p. 51.

389 Ivi, p. 55. 390 Ivi, p. 53.

verso e in prosa, della «causa» dell’americanismo ispanico. Nei cieli della poesia dariana volavano - in una solidarietà blasfema per gli assertori dell’arielismo latino – l’aquila statunitense, all’improvviso spogliata degli attributi della “rapacità rapinosa”, e il condor latinoamericano: «Águila, existe el Cóndor. Es tu hermano en las grandes alturas./Los Andes le conocen y saben, que, cual tú, mira al sol», predicava il nicaraguense in Salutación al

Águila391. «En su constante anhelo de armonía fraterna y de entendimiento

continental», ha scritto Martín, Darío ratificava «con mayor amplitud y ahínco su fe, insobornable, en una América futura»392.

Seguendo forse l’esempio della “rettificazione” di Darío, Rojas invertiva così sul finire del suo viaggio anglosassone le prime acri, intemperate visioni della «isla de diamante y de hierro». In che consiste l’idealismo britannico celebrato in queste pagine riconciliatorie? In effetti di un modello civico sano e avanzato, fondato sul’architettura eccellente del suo sistema educativo e un ammirevole concorso delle strutture private e di quelle statali alla perpetuazione e l’intensificazione del bene pubblico e del suo patrimonio culturale. Con «la obra de su educación, el milagro de su voluntad, la potencia deliberada y fecunda de su idealismo», con il suo diffuso e nobile amore per l’arte, l’Inghilterra sopperisce così ai limiti del suo infecondo spirito creativo. Meno disposto di Darío a riconoscere al paese una tradizione di autentici geni creatori, Rojas vede però risarcirsi la mancanza di «individualidades potentes» con «el esfuerzo individual», generoso e gratuito, del cittadino alla vita delle istituzioni, che cresce e si perfeziona al di là della «burocrática y fría acción del Estado»393. Questo d’altronde interviene con una politica culturale puntuale e

vigorosa che gratifica, rafforza e compendia l’iniziativa privata dei singoli, come dimostra l’esempio vivido del monumento offerto alla memoria di Shakespeare con la creazione della casa-museo di Stratford-on-Avon, monumento che condensa il più duraturo, perché meno materiale, bene della nazione, come aveva dimostrato di comprendere Carlyle nel riflettere attorno ad un dilemma ipotetico: «si la nación tuviese que optar entre la pérdida de su poeta ó la pérdida de sus dominios de la India, preferiría perder los opulentos dominios de la India»394.

È una questione, svolta attraverso diverse circostanze riflessive durante l’intero percorso di viaggio rojoniano, che rinvia evidentemente all’interesse focale dell’imminente autore de La Restauración Nacionalista per il problema della creazione di una cultura nazionale argentina. A tal fine la proposta programmatica del libro del 1909 prevedeva un processo di istituzionalizzazione del patrimonio tradizonale del paese, attraverso iniziative mirate alla “museificazione” e alla “monumentalizzazione” dei suoi simboli storico-artistici. Una tale politica culturale doveva rafforzare la tradizionale

391 Id., Salutación al águila, in Poesías completas, op. cit., p. 709.

392 Cfr. C. Martín, América en Rubén Darío. Aproximación al concepto de la literatura

hispanoamericana, Madrid, Gredos, 1972, p. 167.

393 R. Rojas, El idealismo británico, in Cartas de Europa, op. cit., pp. 203, 205. 394 Id., Shakespeare’s country, in Cartas de Europa, op. cit., p. 179.

azione pedagogica affidata alle istituzioni scolastiche, che si sarebbero così potute giovare, ai fini dell’indottrinamento patrottico dei cittadini argentini, della forza di suggestione plastica esercitata dai luoghi deputati a rievocare e glorificare la memoria storica del paese.

La lezione storica, e l’insegnamento patriottico da questa avviata, doveva trascendere lo spazio angusto dell’aula e dei libri scolastici, per addensarsi in uno scenario cittadino in grado di rievocare «el ambiente histórico», cioè la trama sensibile dei simboli civici e artistici, delle istituzioni intellettuali della nazione: «la enseñanza de la Hstoria no depende sólo de aquello que se aprende en la lección del maestro. La historia de un país está en las bibliotecas, los archivos, los monumentos, los nombres geográficos tradicionales, la prédica de la prensa, las sugestiones de la literatura y el arte, los ejemplos de la política, la decoración de las ciudades, el espectáculo diario de la vida: cuanto constituye el ambiente histórico de una nación»395.

L’autore della Restauración protestava così contro l’incuria se non già lo scempio materiale a cui l’indifferenza delle classi governative consegnavano il panorama cittadino della capitale, sfigurato dalla «hibricante liturgía de las banderas ajenas», dalla prolificazione dei monumenti ad eroi di nazioni straniere, sventrato nelle sue stesse viscere storiche da una politica urbana che aveva predisposto – come ha efficacemente raccontato La ciudad letrada di Angel Rama – la brutale rimozione dell’antico nucleo coloniale. E così, storpiata «la nomenclatura tradicional de los lugares», con introduzioni toponomastiche che cancellano i segni battesimali dei progenitori indigeni o spagnoli, minacciata la stessa sacra istituzione della lingua nazionale dalla profusione di barbarismi linguistici e da insegne battute in idiomi stranieri, sacrificati i più importanti “piedistalli” del territorio urbano alla celebrazione di eroi di nazioni europee, si abbandona Buenos Aires all’abbrutimento culturale e civico di una «vida no histórica»396.

Dalla “vita storica” dell’Inghilterra, dalla salda «moral política» che impronta la vita culturale del cittadino britannico, cresciuto nell’atmosfera sapiente dei suoi «venerables colegios» nel rispetto quasi fanatico delle sue risorse umanistiche, hanno tutto da imparare i presuntuosi “arielisti” della materialista Buenos Aires. Dall’Europa, in generale, l’Argentina deve trarre esempio nell’istituzione di una politica culturale atta a configurare «el sentido histórico» - come insistitamente Rojas predica dalle pagine della Restauración – dello spazio spirituale e materiale della patria: «el sentido histórico […] se forma en el espectáctulo de la vida diaria, en la nomenclatura tradicional de los lugares, en los sitios que se asocian a recuerdos heroicos, en los restos de los museos y hasta en los monumentos conmemorativos, cuya influencia sobre la imaginación he denominado la pedagogía de las estatuas»397.

395 Id. La Restauración Nacionalista…, cit., p. 217. 396 Ivi, p. 217.

Così con la casa-museo di Hugo – allo stesso modo che con quella di Shakespeare in Inghilterra – «se ha querido restaurar la vida de un varón cuyo espíritu antes esparcido en su pensamiento y ahora casi concreto en forma, se cierne sobre la casa y la ciudad»398. Attestano dunque quei monumenti i

traguardi eccellenti raggiunti dalle istituzioni europee, con i quali devono urgentemente misurarsi le classi intellettuali e politiche argentine, nella risoluzione di quello che appare al giovane nazionalista «uno de nuestros más graves problemas espirituales»:

renovar nuestra historia, cultivar la leyenda, vivificar la tradición, no únicamente como estímulo de inspiraciones artísticas, sino como eficaz fuerza pólitica, pues de esa conciencia de su pasado sacan los pueblos una ansia más efectiva de perpetuidad399.

«La poesía de nuestro pasado», denuncia in El día de la República, costituisce «el bien más efectivo de un pueblo, su más seguro aliento de inmortalidad», ed è questo un bene dissipato da una politica inerte e indifferente alla conservazione dei tesori pubblici, che ha svenduto per l’adulazione dello straniero gli stessi preziosi inalienabili simboli della coscienza nazionale:

Nosotros hemos mutilado una estrofa del himno, para no rozar ilógicas susceptibilidades de los españoles. Nosotros hemos cedido á un italiano el mejor sitio estatuario de la ciudad, para halagar á los italianos. Nosotros, para no molestar á los ingleses, no osamos celebrar dignamente la Reconquista que engrandeció la Colonia400.

Rojas accenna qui a questioni vive del dibattito culturale e politico dell’Argentina del tempo, molte delle quali troveranno ampio spazio nelle riflessioni della Restauración Nacionalista. Si ricorderà che l’espulsione dall’inno nazionale della strofa che inneggiava alla sconfitta della metropoli spagnola aveva costituito un avvenimento di alta risonanza simbolica nella storia delle relazioni culturali tra Argentina e Spagna del primo ‘900. La consacrazione della Plaza de Italia, fino al 1904 intitolata de los Portones, alla memoria di Garibaldi, con l’erezione di una statua bronzea dell’eroe nazionale italiano, pagata all’artista Maccagnini, impegna un lungo passaggio polemico della trattazione dedicata nella Restauración alla questione della «pedagogía de las estatuas», evidentemente deviata dal suo principale compito di educare lo spirito civico se, come nel caso del sito monumentale concesso alla colonia italiana, egli argomenta, rafforza «la prolongación de nacionalidades extranjeras» nel territorio materiale e simbolico della capitale argentina401.

398 Id., La casa de Victor Hugo, op. cit., p. 55. 399 Ibid.

400 Id., El día de la República, op. cit., p. 36. 401 Id, La Restauración Nacionalista…, cit., p. 222.

Si devono sacrificare momenti discorsivi ulteriori utili ad illustrare la dimensione di omogeneità teorica e di tensioni speculative che unisce il momento delle Cartas de Europa con quella della Restauración Nacionalista.

L’«evangelio de idealismo» annunciato nelle dichiarazioni programmatiche delle Cartas, ben oltre la dimensione astrattamente spiritualistica che sembra rievocare, si riferisce alla concreta campagna nazionalistica che sta preparando, nei termini di una politica culturale atta a legittimare il patrimonio culturale del paese, nell’osservatorio teorico della Restauración. Quell’«idealismo» - che deve elevare secondo il suo programma il senso morale dell’Argentina assediata dal materialismo - non è solo l’astratta virtù emanata dalle architetture secolari dei paesi del vecchio mondo... Quando in Guerras de religión scrive che «la guerra por la religión de la belleza es la gran guerra de religión que por ahora necesitamos»402, Rojas non si riferisce qui evidentemente alla “religione

dell’arte” professata dagli adepti del modernismo – di cui, come si vedrà poi, nelle pagine del viaggio in Bretagna si dirà sostenitore -, ma alla battagliera difesa della «belleza» del passato, delle forze tradizionali della nazione. È per questa compenetrazione tra passato e futuro, per la compensazione che questa permette tra le forze meramente materiali di una società e il patrimonio delle sue istituzioni umanistiche, che Rojas vede assicurato lo splendore della