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La «predicación idealista» di Cartas de Europa

I VIAGGI IN EUROPA DI RICARDO ROJAS

5. La «predicación idealista» di Cartas de Europa

Si era fatto riferimento, nell’introduzione al viaggio in Europa del 1907-08 e alla storia delle sue singolari diramazioni testuali in Cartas de Europa e Retablo

español, al sospettoso discorso di “despedida” con cui Eduardo Talero aveva

salutato il collega alla vigilia della traversata transoceanica. Se Talero aveva avuto modo di leggere i reportages puntualmente inviati a “La Nación” dalle terre del vecchio mondo, aveva potuto dissipare assai presto le sue

preoccupazioni circa il pericolo di sviamento di un talento tanto addentrato nella realtà «raizal» come Rojas: quegli articoli recavano la testimonianza inequivocabile di una passione per le questioni della patria, la patria argentina, la più grande patria americana, che difficilmente poteva soccombere alle seduzioni cosmopolite di Parigi e delle altre grandi capitali della cultura del vecchio mondo.

Proprio a Talero, ricordando il discorso che aveva lusingato e acceso lo spirito americanistico degli amici riunitisi nella «sonora fiesta fraternal» del banchetto del 1907, Rojas intesterà le avvertenze preliminari delle sue Cartas de Europa. Le sue “lettere” dall’Europa, raccolte ora in volume, costituiscono una testimonianza inequivocabile che il suo sguardo si è mantenuto vigile e spassionato dinnanzi a «las elegancias» del vecchio mondo, e che il suo fiuto di poeta tellurico non aveva smarrito il ricordo degli aromi rustici, delle «resinas olorosas de sus selvas patrias», della natura americana324.

Cartas de Europa, rivendica l’autore, sono state scritte con l’intenzione di offrire

ai «lectores del Plata» un «evangelio de belleza», un «libro de evangelización idealista», emerso dalle esigenze di un fervido americanismo, mai indebolito da atteggiamenti di devozione indiscriminata nei confronti della supposta cultura superiore, di genuflessione servile nei confronti dei «pontíficos» letterari del momento.

«Nadie que disponga de alma propia necesita de la ajena», aveva sentenziato Talero, augurandosi che fosse ormai già vicino il momento in cui il rito prestigioso del viaggio in Europa, espressione vistosa dell’«indipendencia a medias» dei popoli ispanoamericani, perdesse il suo «prestigio sacramental», riconsegnando intellettuali e artisti all’espressione autonoma del proprio mondo autoctono:

Ni los europeos necesitan de nuestros cantos, ni nosotros necesitamos de sus paisajes, ni la obra de efecto universal nos obliga a abandonar nuestros solares, ni nadie que disponga de alma propia necesita de la ajena, como no sea para desteñir el matiz originario325 .

D’accordo con Talero circa la necessità di proteggere la virgineità identitaria del «matiz originario» del proprio mondo, Rojas tuttavia non poteva del tutto condividere il “manicheismo” culturale con cui il collega riscaldava la sua arringa americanistica, prospettando cammini paralleli e incociliabili delle storie future di Europa e di America. Rojas avvertirà implicitamente che se l’America possiede un’«alma propia» , deve saperne dichiarare i vizi che ne macchiano la vita “spirituale”, riconoscere l’acerbità delle sue istituzioni e accettare per la sua crescita civile e culturale la “scuola” di “idealismo” offertale dalle terre storiche del vecchio mondo. Se l’Europa disdegna con l’indifferenza e l’ignoranza l’«excelencia cerebral» delle culture dell’altra parte dell’oceano, si profila allora il compito di perforare quella sordità intellettuale

324 E. Talero, op. cit., p. 70. 325 Ivi, p. 67.

con una divulgazione delle «esperanzas» politiche e culturali dei popoli nuovi. A questo ambizioso compito è votato tutto il senso del suo viaggio al vecchio mondo:

Yo dije á los públicos del viejo mundo las esperanzas del nuevo […] Yo admiré de Europa la razón secular de su cultura, e inspirándome en ella, prediqué a mis lectores del Plata un evangelio de belleza, y el objeto constante de estas Cartas fué encarecer la devoción al ideal como contrapeso de los esplendores materiales. Ahí reside para mi la diferencia entre las viejas y las nuevas civilizaciones, y al admirar de estas sociedades la tradición civil de su cultura, no lo hice en detrimento de las cosas nativas: antes bien procuré dar nueva vida á ese culto europeo del ideal con la pasión americana de mi alma que enardeció la ausencia326.

Al discorso rigidamente antinomico di Talero, alla sua sospettosa logica introspettiva, Rojas oppone una visione “estroversiva”, orientata dall’esigenza del dialogo e dello scambio culturale, e della “compensazione”, volta cioè, con chiaro spirito patriottico, all’armonizzazione degli «esplendores materiales» dell’opulenta civiltà argentina con il «culto europeo del ideal» ad essa sconosciuto. Tanto sedimentato e spontaneo nelle terre, sature di manifestazioni storiche, dell’Europa, quel culto presuppone paziente studio nel pellegrino che vi viaggia con l’occhio sempre pronto a tornare, arricchito, indottrinato, alle terre giovani dell’America, con la speranza – approfondita dalla lontananza – di vedere presto fiorire «en concreción de arte la savia espiritual de nuestra estirpe»327. Quando a Querlen-en-Roscanvel, in Bretagna,

«antes los cantiles de basalto y el desierto del mar», un pescatore del luogo con cui ha avviato una timida conversazione gli chiede se risiede a Parigi per ragioni di studio, è priva di «engaño» - spiega Rojas - la sua risposta affermativa, «pues tal ha sido siempre mi verdadera profesión ante la esfinge del mundo»328.

Il tono reverenziale della dichiarazione del giovane argentino, se poteva irritare la suscettabilità di detrattori americani del culto europeistico come Talero, quantomeno non lasciava dubbi sul fatto che la “professione studentesca” rivendicata da Rojas non aveva nulla a che vedere con gli ambienti scapigliati e bohèmiennes dello “studente” del Quartiere Latino, figura ormai consolidata di una vasta sociologia artistica fin de siècle. Si ricorderà intanto che uno scopo effettivamente “professionale” conduceva Rojas al cospetto della «esfinge del mundo».

Come due suoi illustri progenitori argentini, Alberdi e Sarmiento, Rojas giungeva in Europa con la missione ufficiale, come si è visto nelle pagine anteriori, di redigere un’inchiesta sullo studio delle discipline storiche nelle scuole europee. La Restauración Nacionalista, risultato di quell’indagine, in effetti reduplica nell’esperienza e secondo alcuni – come si è visto – per certi versi

326 R. Rojas, Prólogo, in Cartas de Europa, Barcelona, Editorial Sopena, 1908, p. 8. 327 Ibid.

anche nei risultati teorici (per ciò che concerne la sua parte meramente informativa), l’Educación popular con cui Sarmiento aveva pubblicato nel 1849 gli esiti di un analogo sondaggio effettuato su metodi dell’insegnamento nelle scuole primarie di Europa. L’esilio durante la dittatura rosista e in seguito una prolungata missione diplomatica erano stati invece i motivi che avevano sostentato a più riprese l’incontro con il vecchio mondo di Alberdi, in un’esperienza che Viñas, nella sua già richiamata ricognizione storiografica della pratica del viaggio nella cultura rioplatense tra Otto e Novecento, ha tipizzato nella categoria del «viaje utilitario».

L’Europa, spazio indiscusso della «civilización», si materializza agli occhi dello statista argentino come un repertorio illimitato di norme e saperi da “saccheggiare”, assimilare e mettere a disposizione del processo di emancipazione e crescita economica della nazione argentina. Questa esperienza di viaggio, che si rivolge all’Europa come ad una «mina» di saperi tecnici, invertendo così, «aunque a otro nivel» «la antigua relación colonial» tra periferia e centro, è così del tutto consumata attraverso la «mediación de lo económico»329.

È anche troppo facile osservare la distanza, il divario che si è spalancato tra la postura pragmatica di Alberdi e quella ostentatamente spiritualistica di Rojas, tra l’“economizzazione” del discorso messa in piedi dallo statista liberale e l’“evangelizzazione” idealistica predicata nelle Cartas de Europa di Rojas. La “sfinge”, con cui il giovane “studente” metaforizza il mostro sacro della cultura europea, è una figura che resiste con la pesantezza monumentale della sua enigmaticità alla cattura predatoria di Alberdi.

Per certi versi Alberdi invertiva il percorso, lo proiettava cioè dall’America verso l’Europa, tracciato dal vasto repertorio sui generis di letteratura di viaggio di intellettuali europei in America che - come hanno analizzato studi di Franco, di Jitrik330 e più recentemente di Pratt - si propagava con le spedizioni

delle nuove «vanguardias capitalistas» verso i territori, ricchi di possedimenti minerari, delle giovani repubbliche del Cono Sur, meta perciò privilegiata della nuova traiettoria neocoloniale. Espressione dell’ottica imprenditoriale delle nuove elites economiche, tale letteratura, ha analizzato Pratt, rimane totalmente estranea alla tensione naturalistica che aveva caratterizzato l’approccio humboldtiano – modello fondamentale per la timida risurrezione americanistica nelle colonie neoemancipate - per imporre una visione il più possibile obiettiva della società ispanoamericana. «Estos viajeros-escritores solían adoptar en sus escritos una postura conscientemente antiesteticista, introduciendo una retórica pragmática y economicista que no compartía ni el esteticismo ni la tolerancia de Humboldt y sus seguidores más refinados»331.

329 D. Viñas, op. cit., p. 19.

330 Cfr. J. Franco, Un viaje poco romantico: viajeros británicos hacia Sudamerica, 1818-28, in

“Escritura”, N. 7, 1979, Caracas, pp. 129-142; N. Jitrik, Los viajeros, Buenos Aires, Editorial Jorge Álvarez, 1969.

Similmente, si può osservare, nei percorsi del viaggio di Alberdi, ciò che eccede dal livello di interesse meramente politico ed economico viene percepito come una tentazione edonistica da evitare o quanto meno da volgere il più possibile in un repertorio di insegnamenti didascalici improntati alla cifra dell’utilità332.

L’oscillazione, presente nel diario di Alberdi, tra il rendiconto diaristico della funzione ufficiale del viaggio e la partecipazione estetistica dei percorsi monumentali e mondani della città europea si estremizzerà quindi in una vera e propria spaccatura nella scrittura odeporica in Sarmiento, dalla quale emergeranno «dos libros diversos, uno que específicamente apunte a lo útil y otro donde se deje ganar por la Europa que caracterizará el periodo siguiente del viaje: Europa como museo, prostíbulo y bulevar»333. Del primo aspetto,

quello della missione ufficiale, parlerà come si è già visto l’Educación popular del 1849. L’altro libro, quello liberamente ispirato dalla trama del viaggio, sarà concepito nella forma di una scrittura epistolare rivolta ad amici intimi. La spaccatura, la diramazione testuale dell’esperienza di viaggio, così simile a quella prospettata dal caso di Rojas, ovviamente non è così rigida. I Viajes di Sarmiento sono segnati allo stesso tempo dal vigile confronto comparatistico con la civiltà americana, con i problemi della costruzione della nazione argentina, e, soprattutto nella tappa francese, dalla scoperta iniziatica della «vida moderna» della metropoli parigina e della sua complessa simbologia spaziale, spazio che il viaggiatore vedrà in ultimo definito da un «encuentro», non privo di conflitti, «entre la industria y la estética»334. L’osservazione

“scientifica” della realtà europea non impedisce, come ha sottolineato Pera, al viaggiatore di abbandonarsi ad una precoce iniziazione al rito metropolitano

332 Più che in Veinte días en Genova - suggerisce la Grillo nel suo già citato saggio panoramico

sulle mete italiane di viaggiatori rioplatensi otto-novecenteschi - dove il viaggiatore riferisce soprattutto di un’attenta investigazione sui «modelos vivos de civilización y organización estatal», è ne El Eden, scritto da Alberdi durante la traversata in mare e messo in rima da Gutiérrez, che si dovranno cercare le testimonianze della pure assai viva suggestione che l’impatto con le testimonianze artistiche del vecchio mondo, in particolare di quelle dell’antichità classica, ha prodotto nel viaggiatore. Cfr. R. M. Grillo, Viajeros rioplatenses en la

Italia clásica, op. cit., p. 218.

333 D. Viñas, op. cit., p. 25. Lo studioso prova a sintetizzare l’esperienza sarmientina nella

formula di «viaje balzaciano», con riferimento alla dimensione di forte proiezione egotistica, di vorace affermazione personale con cui il viaggiatore si dispone al confronto con la supposta cultura superiore: un viaggio che si consuma attraverso una volontà dirompente di rovesciamento di una condizione di subalternità, di ascesa e affermazione nell’opulenta classe borghese parigina presso cui aspira ad ottenere il suo riconoscimento intellettuale. Da ciò anche la violenza verbale – sintomatica di questo spirito di affermazione egocentrica del soggetto intellettuale - dello stile, quasi rude, diretto, interattivo: «sus palabras se abren paso, avanzando sobre nosotros desgarrando la zona de lo vedado y su viaje inaugura una real comunicación en tanto supone un cuerpo a cuerpo y un esfuerzo por reconquistarse a través de una versión de Europa que no se corresponda con las visiones elaboradas. Por eso si nos atenemos a esa tensión y a su creciente impudor Sarmiento es el primer escritor de nuestra literatura» (ivi, p. 32).

della flânerie, filosofia dell’andare senza meta che radica nella nuova realtà sociale della città industriale e delle sue solitudini baudelairiane, tra le “mercanzie” esposte nei suoi passages, nuovo elemento urbano che incrocia dialetticamente il luogo dell’interno e dell’esterno, come avrebbe riflettuto Benjamin, asilo privilegiato, appunto, del flâneur.

Ma torniamo alle Cartas de Europa di Rojas, avvertendo subito che esse non costituiscono – rispetto alla correlativa scrittura della Restauración - la parte evasiva, la cronaca spensierata dell’argentino per la prima volta entrato in contatto con la cultura europea e in particolare con Parigi, l’avanguardia delle novità letterarie, la capitale artistica del modernismo ispanoamericano, residenza principale, allora, di Rubén Darío. Forse anche attraverso un severo processo di autocensura, il cronista delle Cartas de Europa cancellerà ogni testimonianza di abbandono edonistico alla città che ha ammaliato e “perduto” i tanti conterranei argentini e americani, cultori dell’estetica modernista, succubi alla stregua del loro vate poetico, del «complejo de París», come lo avrebbe definito Salinas in un importante saggio sul nomade nicaraguense335.

Frugando nella corrispondenza tenuta in quel periodo da Rojas con Darío in Bretagna e Chiappori in Argentina veniamo a sapere che la città lo aveva invaghito con le sue «bellezas de mármol y de carne», e che queste ultime in particolare si erano materializzate nella figura di una fanciulla parigina che aveva proiettato una piacevole cornice sentimentale sui suoi vagabondaggi giovanili. Ma di ciò non potevano certo recare tracce articoli, come quelli delle

Cartas de Europa, dettati dall’esigenza imperiosa di fornire di un «evangelio de

idealismo» i suoi lettori del Plata. A questi ritornano puntualmente i messaggi “decriptati” dallo “studio” della «esfinge» della cultura europea.

Tra le polarità geografiche e culturali di Europa e America Rojas proietterà uno sguardo pendolare, “comparatistico” («y como voy visitando Europa con la obsesión de mi país, procurando á cada paso definirlo por comparación»)336,

volto ad integrare nelle sfere del «viejo mundo las esperanzas del nuevo», e a diffondere nel nuovo «la razón secular» della cultura europea.

Qui, nella sua letteratura odeporica, la comparazione supporta la dimensione dialogica dello scambio interculturale che ha affidato alla sua missione cronachistica (e in effetti alla sua totale missione intellettuale), ma d’altra parte ratifica l’esigenza di demarcare e definire i confini tra civiltà e civiltà, tra stato e stato. È una posizione che sottende evidentemente una presa di distanza dall’identificazione cosmopolita, “transnazionalistica”, del movimento modernista attorno alla «República mundial de las Letras», per dirlo con il titolo del già richiamato libro della Casanova.

La studiosa individua una tendenza propria dell’universo letterario a configurarsi secondo aggregazioni spaziali e dinamiche di forza irriducibili alle spartizioni delle «fronteras nacionales que produce la creencia política» (e

335 P. Salinas, La poesía de Rubén Darío, Buenos Aires, Losada, 1968. 336 R. Rojas, La tradición de Armórica, op. cit., p. 116.

per certi versi sottratte alle stesse gerarchie delle tendenze geopolitiche che differenziano aree culturali di eccellenza storica da quelle di nuova o recente formazione). Questo autonomo regno cosmopolita della letteratura tende ad affermarsi attorno alle città che detengono altissimi “capitali” letterari. Parigi, che Ramuz aveva definito «“el banco universal de los cambios y de los intercambios” literarios» e Goethe il «mercado mundial de los bienes intelectuales»337, è divenuta grazie al concorso di una estesissima letteratura

tanto francese quanto internazionale la capitale per eccellenza della “repubblica mondiale della letteratura”: «república sin fronteras ni límites, patria universal exenta de todo patriotismo, el reino de la literatura que se constituye contra las leyes comunes de todos los Estados, lugar transnacional cuyos únicos imperativos son los del arte y la literatura». «En arte no hay extranjeros»338, e se Parigi è per eccellenza la città dell’arte essa è il luogo della

dissoluzione di tutte le identità, spazio di rimozione catartica di ogni origine nazionale e di contestazione di ogni compromesso nazionalistico.

Si tratta ovviamente di una sospensione delle identità fittizie, che occulta in verità i meccanismi di forza agonistici, violenti, espressione di una geopolitica delle “diversità” culturali, fra l’egemonia di un «mundo literario legítimo» e l’inferiorità ferita de «sus arrabales» (termine che l’autrice prende a prestito da una pungente testimonianza di Paz), dietro l’immagine «ecuménica y apaciguada» di «una internacionalidad reconciliada, la del acceso libre e igualitario de todos a la literatura y al reconocimiento, la de un universo “encantado”», estraneo alle dinamiche della storia, che la comunità letteraria tende sempre a dare di se stessa. «La idea pura de una literatura pura que domine el mundo literario favorece la disolución de toda huella de la violencia invisible que reina en ella, la negación de las relaciones de fuerza especifícas y de las batallas literarias»339.

Rojas, certamente, non partecipò mai a quel nomade sogno di redenzione della patria ispanoamericana negli spazi transnazionali di una letteratura pura. Innanzitutto perché le sue vocazioni letterarie si espressero solo transitoriamente, e con risultati che non si può evitare di definire estremamente infelici, attraverso il mezzo poetico. Le precoci prove poetiche rojoniane evidenziavano d’altronde – su ciò concordano tutti gli studiosi - una scarsa assimilazione dell’estetica modernista, La Victoria del Hombre rivelando piuttosto gli ingenui disegni progressisti e utopici di «un epígono del Romanticismo, un discípulo más, a lo Andrade, de Victor Hugo», come ha scritto Castillo340.

In ciò in effetti Rojas non faceva eccezione all’orizzonte di gusto e interessi – è troppo dire di poetica - entro cui si andavano profilando le vocazioni intellettuali dei giovani del “Centenario”, che con i vicini compagni della generazione del “Novecientos” (Lugones, Ingenieros, Ugarte, Estrada) – ha

337 P. Casanova, op. cit., p. 172. 338 Ivi, pp. 40, 172, 47.

339 Ivi, pp. 64-65.

commentato la Quijada – condividevono solo parzialmente l’interesse per il movimento modernista, di cui si apprezzava e riconosceva la rivoluzione formale apportata al seguito della lezione rubendariana, ma rispetto alla quale si proclamava l’urgenza espressiva di più profonde «inquietudes sociales y políticas», improntate in quegli anni a una fondamentale «trilogía conceptual: espíritu, tradición, raíces hispánicas»341.

Salutata con elogi da alcuni ambienti del mondo letterario bonaerense, l’opera poetica del giovane argentino attirava i commenti negativi di due indiscutibili autorità letterarie, nell’orbita della critica modernista il capo in persona della «tribu» Rubén Darío, e, in un fronte certamente lontano, se non avverso, al primo, Unamuno, che con la spietatezza convenzionale delle tante recensioni riservate – in Contra esto y aquello - a debutti poco promettenti delle lettere ispanoamericane, raccomandava al giovane poeta dalla scrittura grandiloquente di imparare «a manejar la podadera».

Nell’uno e nell’altro caso le censure misero in crisi il corso di amicizie che si sarebbero rivelate durature e intense. La relazione tra Rojas e il poeta nicaraguense, che, reduce dalla III Conferencia Panamericana di Rio de Janeiro, era sbarcato nel 1906 a Buenos Aires, virerà al ritmo di alterni omaggi poetici342 - e troverà significativi momenti di approfondimento proprio

durante il soggiorno francese di Rojas. Da Parigi, infatti, l scrittore argentino viaggerà verso il nord bretone, per raccogliere l’affettuoso invito dell’amico a raggiungerlo presso la suggestiva dimora del Conte de Croze, dove si stava curando da una delle sue classiche “nevrosi” per gli eccessi parigini343.

341 M. Quijada, Manuel Gálvez: 60 años de pensamiento nacionalista, Buenos Aires, Centro Editor

de América Latina, 1985, pp. 17, 18.

342 Con un Toast a Rubén Darío l’argentino diede il benvenuto a Darío nel banchetto

offertogli da “La Nación” nel ristorante Luzzio (lo stesso che aveva fatto da cornice al discorso di addio di Talero per l’imminente viaggio del collega argentino); gli faranno da controcanto versi dariani poi raccolti nei Cantos de vida y esperanza.