• Non ci sono risultati.

L’Europa e le sue periferie La exposición de Vincennes e il soggiorno bretone

I VIAGGI IN EUROPA DI RICARDO ROJAS

9. L’Europa e le sue periferie La exposición de Vincennes e il soggiorno bretone

Con la fede “spiritualistica” e gli astratti disegni sociali dei suoi venticinque anni Rojas preconizzava così il vicino «derrumbamiento» dell’impero coloniale inglese sotto il «triunfo del socialismo». È con l’orgoglio, però, di vedere onorate le sorti della stirpe latina, nella cui conduzione è venuto a mancare il ruolo imperiale dell’abbattuta nazione spagnola, che Rojas guarda all’attuale “missione” civilizzatrice della Francia nei paesi extraeuropei. Le pagine di La

402 Id., Guerras de religión, in Cartas de Europa, op. cit., p. 90. 403 Id., El idealismo británico, op. cit., p. 207.

exposición de Vincennes esibiscono ulteriori interessanti testimonianze del punto

di vista dell’intellettuale sulle nuove dinamiche coloniali dell’Europa primonovecentesca. A sollecitarle qui è la visione spettacolare dell’“esposizione etnica” allestita nel 1907 nei suburbi parigini di Vincennes. Può stupire che l’autore che nel País de la selva aveva denunciato la brutalità delle politiche di annientamento e sfruttamento delle ultime esigue sopravvivenze della «raza vencida» degli indios argentini, si addentri qui senza alcun moto di indignazione nella «vida pintoresca de las colonias», passeggiando tra «indochinos y árabes y zulués de carne y hueso», decorazione viva di quello che anni dopo sarebbe stata definita l’esposizione offensiva di uno “zoo umano”. C’è anzi ammirazione ed elogio per la Francia che, perdute le colonie del Canada e dell’India, ricostruisce un nuovo impero, «donde sembrara el germen de su éspiritu, completando en el mundo la obra latina que Epaña realizara en ambas Américas»404. Ed è per Rojas con un

ammirevole dispiegamento di risorse intellettuali e scientifiche che ha realizzato ora tra i boschi di Vincennes la “ricostruzione” della vita delle remote propaggini imperiali, dai cui «cuadros pintorescos y exóticos» il cittadino francese può apprendere, meglio che dalle grigie sintesi dei documenti storici, «cosas graves y concretas sobre el poder colonial» della sua nazione. L’intellettuale plaude quindi all’efficace politica comunicativa che ha informato lo spirito dell’esposizione, che ha raggiunto il suo scopo didattico con la fruttuosa stategia didascalica della «síntesis imaginativa», piuttosto che con la fredda documentazione delle rassegne statistiche. Ne viene per Rojas un’ulteriore testimonianza della vocazione “idealistica” della cultura francese, la cui spontanea inclinazione estetistica non va qui a detrimento della funzione dell’«utilidad», alla quale rimangono invece completamente soggiogate - con il sacrificio totale dell’ideale della «belleza» - le più grezze espressioni della civiltà anglosassone: «viniendo así este idealismo, por la belleza y la alegría, á ser tan práctico como el insoportable practicismo de los sajonizantes»405.

Sono pagine che attestano ancora una volta, a parte l’uso estremizzato della retorica discorsiva “latinos-anglosajones”, che si pacificherà parzialmente, come si è visto, nelle pagine del viaggio in Inghilterra, l’accentramento dell’interesse dell’intellettuale per i sofisticati strumenti politici, culturali e sociali su cui si sostengono le offensive nazionalistiche ed imperialistiche delle potenze europee del primo ‘900. Qui lo sguardo del viaggiatore argentino ratifica in particolare i traguardi raggiunti dalle scienze europee nell’acquisizione dei saperi filologici, storici e filosofici sulle culture delle regioni disperse e remote delle periferie occidentali:

Aquí está un Ensayo de Georges Tocque sobre el pueblo y el idioma banda, y un tratado de Durand Taffanel sobre la Lengua Hova, y un estudio de Gardier sobre la Fonética Anamita, y una Gramática de Arístides Marré sobre el habla Malgacha. Si habéis oído hablar de esos libros, nada sabéis sin duda de otros

404 Id., La exposición de Vincennes, in Cartas de Europa, op. cit., p. 49. 405 Ivi, pp. 44-45.

sobre léxico y textos tamulés ó de un diccionario franco-malanqué ó de un método práctico de M. Dirr, para estudiar la lengua «Haussa», que es el idioma comercial del Sudán406.

Quel sapere, frutto della grande “offensiva espansionistica” – per dirlo alla maniera di Said – degli studi orientalisti, condotti durante il Sette e Ottocento dal mastodontico «laboratorio filologico» di de Sacy, Lale, Renan, e degli altri grandi linguisti e storici della stagione407, si “museifica” - sotto la barriera

protettiva di una «vidriera» - in un «fabuloso monumento de filosofía y sociología acerca de vagos países asiáticos y africanos». Ciò gli conferma che la Francia, con il suo imponente lavoro di interpretazione e divulgazione delle culture delle civiltà extraeuropee, ha dato così il cambio alla Spagna nell’«obra de documentación y construcción espiritual» realizzatasi, attraverso le missioni religiose di Lozano, Guevara, Valdez, «en el interior de la América, desde el siglo XVI al XVIII, bajo al acicate de una esperanza celeste y con la fuerza singular del alma castellana, potente de misticismo combativo»408.

Lo attraggono meno le tele della galleria di pittori orientalisti francesi, le cui figurazioni, qui «una melancólica tarde de Benarés», lì «una danza nocturna en el Cairo», per quanto virtuose nella ricerca degli effetti illusionistici, non possono competere con la forza d’attrazione della «geografía viviente» allestita «en el resto del Jardín», e in particolare con la porzione del «campamento árabe», verso il cui «grato» percorso il viaggiatore si incammina per ricevere una dose di più ancora suggestive rivelazioni esotiche, e per battezzarsi alla sua prima esperienza dell’Oriente: anticipazione, certo, piuttosto artificiale dell’esperienza che, sulle tracce dei passi del Sarmiento viaggiatore nella “barbarie” araba, si ricaverà, con una deviazione verso l’Africa settentrionale, nell’ambito del periplo ispanico descritto nelle pagine del Retablo español.

Sarmiento proietterà la sua ingombrante ombra, in verità, già in questi percorsi di Vincennes, nucleo di una trama discorsiva subito inoltrata, come si vedrà, nella riflessione su serie questioni sociali. Anche qui, dunque, Rojas non concederà molto spazio ai preziosismi orientalisti che avevano fatto ingresso, anche con il cospicuo fattore esplorativo del viaggio e delle annesse scritture odeporiche, nel repertorio letterario di modernisti quali Amado Nervo, Julián Del Casal, José Juan Tablada, Leopoldo Lugones, Angel Estrada, Herrera y Reissig, e, viaggiatore inesausto delle periferie occidentali, oltre che del suo baricentro (culturale-artistico) francese, Gómez Carrillo, «pirata mediterráneo»409.

406 Ivi, pp. 41-42.

407 E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, traduzione di S. Galli, Milano,

Feltrinelli, 2001; cfr. in particolare “Silvestre de Sacy ed Ernest Renan: antropologia razionale e laboratorio filologico”, p. 126 e sg.

408 R. Rojas, La exposición de Vincennes, op. cit., pp. 41, 42.

409Così lo chiama la Colombi in riferimento all’attitudine prepotentemente predatoria del

guatemalteco nei confronti dei temi esotisti codificati della letteratura orientalista dell’Ottocento francese. Cfr. B. Colombi, “Voyage en orient, exotismo y divulgación”, in

Viaggi costruiti attorno a un fragile sogno di esotismo, per esempio, quelli mediorientali de La vida errante di Gómez Carrillo, pellegrinaggio faticoso di ratifica di un immagine consapevolmente preconcetta e fantasiosa, fiabesca e irreale, di un Oriente da «mil y una noches», continuamente infranta dalla rivelazione di una realtà irrimediabilmente contaminata dall’intromissione del mondo occidentale o, quando questo non ha fatto ancora la sua spoetizzante comparsa, di un anonimo scenario di miseria urbana e degradazione sociale410.

Anche Rojas riceverà la sua parte di rivelazioni “esotiche” e la sua dose di fantasticherie, ma certo non del tipo di quelle da “mille e una notte” del pellegrino guatemalteco. Il cronista argentino non manca in verità di manifestare compiacimento estetico per questo Oriente costruito a regola d’arte, che prova a ricreare nella pagina con cura calligrafica, tratteggiando il percorso dal «templete anamita» al «cristal de lago» impreziosito da cigni «de raros países», disegnando il profilo elegante della «torre chinesca, que calca en el cielo azul su arquitectura de canela, como en el paisaje de la seda de un biombo», o fermando la sagoma scultorea del «negro tallado en ébano y desnudo»411.

Ma, si diceva, questo Oriente in cattività gli riserverà emozioni ben più importanti, immergendolo nell’esperienza epifanica di analogie profonde con la vita arcaica dell’Argentina remota dell’“interior”. Nell’accampamento dei tuareg, infatti, «la música bárbara del Sahara» cattura i sensi del viaggiatore, «despertando, en el fondo del ser, sentimentales ondas atávicas»:

La música aventaba como ayes de chirimías aullantes ó de cornamusas doloridas, guiando á las panderetas ágiles ó al son del bombo, monótono como el sonoro bombo nocturno de mi llanura del Norte. Al conjuro de esa melodía, la reminiscencia natal me obsede, y ella se concreta, cuando concluída la cerimonia veo una madre morisca que vuelve portando su negrito enhorquetado en la cadera; ó cundo sigo a a la vieja que va á su choza á renovar en el telar doméstico la urdidumbre de una colcha de lana, igual á nuestras colchas santiagueñas412.

Viscerale si materializza per Rojas la nota analogia del suo illustre antecedente argentino, quella «entre el árabe y el gaucho, una de las reflexiones que Sarmiento más ha repetido en las páginas del “Facundo”»413. Quelle notissime

riflessioni, che avrebbero trovato un banco di prova nel viaggio algerino del

410 E. Gómez Carrillo, La vida errante (Oriente), Madrid, Editorial Mundo Latino, tomo III,

1919. La disillusione è irrimediabile e senza riscatto a Smirne, per esempio, che si rivela «una ciudad de Oriente que se muere por parecer occidental», o, ad Algeri, dove il sensuale episodio dello spettacolo di tre ballatrici del ventre sfocia nell’ammissione autoironica della trappola folcloristica, quando lo spettatore è costretto a constatare che l’esperienza di «monstruosidad africana» che lo ha conquistato - epifania a lungo attesa dell’anima autoctona della città – gli è stata regalata da donne di razza spagnola e non levantine (ivi, pp. 61, 68).

411 R. Rojas, La exposición de Vincennes, op. cit., p. 46. 412 Ivi, p. 48.

1847, individuavano nell’Oriente patriarcale, guerriero e sanguinario di Maometto la pietra di paragone, la connessione “barbarica”, dell’Argentina selvaggia di Rosas, del caudillo che aveva dissolto le giovani speranze democratiche del paese nel regime della repressione e della faida sociale più feroce.

Ma al di là dell’accostamento socio-politico, oltre l’espressione sistematica del disprezzo per il mondo musulmano, chiamato a rappresentare l’abisso di civiltà della pampa, le pagine del Facundo aprivano tardivamente – con la postilla aggiunta all’opera nel 1850, quando, cioè, l’autore aveva fatto tesoro dell’esperienza del viaggio africano - al riconoscimento di un «parentesco», non più tra gauchos e musulmani, ma degli «argentinos con los Árabes», che se non ritrattava, ha annotato Verdevoye, quanto meno sfumava la radicalità dei giudizi disseminati per tutta l’opera.

Si trattava di una parentela, come quella individuata da Rojas, tra le forme arcaiche del vivere civile, degli insediamenti domestici, per esempio - «la tienda» «tejida de cuero y con azotera» -, in definitiva di una parentela razziale, annunciata dalle comuni fisionomie dei tratti somatici, che rivelava «el contacto de nuestros padres con los moros de Andalucía»: «algunos árabes he conocido que jurara haberlos visto en mi país», sottoscriveva Sarmiento414.

Anche in Rojas la trama dei parallelismi tra tuareg e argentini conclude con la verifica di una somiglianza di carattere fisico, di un «parentesco», cioè, dei connotati razziali. Suggella infatti il riconoscimento il breve ma ben significativo scambio comunicativo che il viaggiatore consuma con «un árabe de alburno y de turbante, alto y moreno, prieta la barba y soñadores los ojos», che gli rivolge la parola nella sua lingua, considerandolo un consanguineo. Appurato l’arabo che il visitatore non è arabo, né spagnolo, ne deduce dopo una breve riflessione che sta avendo a che fare con un «americain du Sud…»415.

Lo spazio della “barbarie” araba-gaucha si apre così inaspettatamente in questi percorsi in misura non esigua, si è visto, consacrati alla celebrazione della “latinità” imperitura incarnatasi nella metropoli francese. Il gaucho riemerge in Rojas, al contatto con l’arabo «de albornoz y de turbante», di sotto la “divisa” internazionale del suo sbandierato panlatinismo. Il breve dialogo sugella in effetti il riconoscimento spontaneo e reciproco di una fraternità che si stanzia nella dimensione della “perifericità” culturale.

Nel vagone ferroviario che lo sta riconducendo a Parigi, al viaggiatore, ancora in preda alle emozioni suscitate dall’«anecdota del moro», «ritornelo generador de reflexiones y de esperanzas épicas», si materializzano visioni “storiche” e “preistoriche”:

414 P. Verdevoye, Viajes por Francia y Argelia, in D. F. Sarmiento, Viajes por Europa, Africa i

América, 1845-1847, Edición Crítica de Javier Fernández, Nanterre, ALLCA XX, 1993, pp.

707-708 (questo testo è stato poi raccolto con lo stesso titolo nella silloge di saggi di P. Verdevoye, Literatura argentina y idiosincrasia, prólogo de J. Isaacson y B. Curia, Buenos Aires, Ediciones Corregidor, 2002, pp. 86-152).

Veía el espectáculo de bélicas emigraciones ó éxodos religiosos, derramando pueblos extraños en remotas comarcas, y mezclando, a través de los tiempos, la sangre de las razas más distintas. Veía por fin, ya en plena hipótesis de prehistoria, los cataclismos geológicos que habían apartado á pueblos ha cien siglos hermanos, hundiendo el puente cósmico de los istmos bajo mares actuales y haciendo fluir, en diluviales torrentes, aguas oceánicas entre las naciones…416

Con un abbandono dell’immaginazione, anche qui, come in Eurindia, propiziato dall’incedere di uno stato onirico, l’autore regredisce «en plena ipótesis prehistórica» a uno scenario in cui le forze dirompenti della terra – cataclismi, allagamenti, alluvioni – distruggono «los puentes cósmicos» che avevano garantito la comunicazione dell’antica famiglia umana, il contatto tra «pueblos ha cien siglos hermanos». Si fa sentire qui la vena epica del poeta de

La Victoria del Hombre, della sua mitologia progressista, dei suoi uomini, dei

suoi titanici eroi, delle sue moltitudini solitarie in lotta perpetua contro gli ostacoli frapposti alla loro marcia dalla natura: mitologia romantica, in sostanza, dello scontro dialettico dello spirito con la materia, ottimisticamente risolto da Rojas in una «victoria del hombre».

Si pensi, per esempio, allo scenario apocalittico di natura primordiale di

Advenimiento de los dioses - con la «noche oscura», la «luz purpúrea», i «desiertos

montes», «la hirsuta fiera», il mare «en convulso oleaje» - alla quale si affaccia, uscendo dalla sua «vieja caverna», l’Uomo, che solo ed in preda a terrori, «bajo el cielo sin luz, sobre el abismo», interroga i fenomeni minacciosi che fanno «presentir un cercano cataclismo»417. Il motivo della competizione titanica

dell’uomo con le forme della natura si specifica qui, nella fantasticheria “preistorica” di Vincennes, in un contrappunto agonistico tra storico e geologico418, tra un dinamismo geologico che ha spezzato la convivenza

armonica della famiglia umana sulla terra, e un traffico storico di migrazioni e esodi attraverso cui l’umanità, in un processo incessante di mescolamento di

416 Ivi, p. 49.

417 Id., Adveniminento de los dioses, in La Victoria del Hombre…, cit., p. 51.

418 La Estrín ha già sottolineato la presenza di una metaforica geologica nella scrittura

rojoniana e il suo impiego massivo nella Historia de la literatura argentina in particolare. Cfr. L. Estrín, Entre la historia y la literatura, una extensión. La Historia de la literatura argentina de

Ricardo Rojas, in N. Rosa (editor), Políticas de la crítica. Historia de la crítica literaria en la Argentina, Buenos Aires, Editorial Biblos, 1999.

Si ricorderà inoltre che la visione de la «huella plútonica de los cataclismos» delle morfologie rocciose delle coste dell’Africa e il Brasile, suggestioni già oniriche delle tracce terracquee dell’«Atlántida anegada», avevano fatto da preludio, nell’orizzonte dell’«océano sin formas y el cielo sin astros», alla rivelazione epifanica di Eurindia. Nel Retablo español, a Tangeri, l’«antro ciclópeo» della Grotta di Ercole, con il «fragor de cataclismo» della sua «puerta marina», farà da cornice ad un’ulteriore trama di “intuizioni” e “presagi” attorno alla storia e il destino della penisola iberica. È significativo, allora, che una metaforica o un immaginario della profondità geologica ricorra in momenti della speculazione teorica o riflessiva dell’opera rojoniana connotati dalla dimensione prelogica, misteriosofica, del “presagio”, del “vaticinio”.

sangue e razze, ha ripreso possesso della materia, sormontando le barriere naturali che ne avevano rotto l’originaria comunicazione. Rojas intuisce allora che un’analogia, ben più estesa di quella individuata da Sarmiento, che spazia dagli abitanti malgasci a quelli di Tucumán, che dall’Indocina rimanda alla Bolivia, e dai tuareg d’Africa si connette con gli uomini della campagna di Santiago, regge – a dispetto delle frontiere geografiche - le forme del vivere umano tra continenti pure tanto distanti, tra America, Africa e Asia:

A ratos, soñoliento en mi sillón del ferrocaril, creía saber por qué los músicos malgachas del kiosco de Vincennes se parecían á campesinos que había visto yo en las montañas de Tucumán; y por qué los aldeanos de Indo China, entre el palo a pique de su aldea de paja, se parecían á los coyas de Bolivia, y por qué los tipos y las costumbres del tuareg me habían traído reminiscencias de la campaña santiagueña – siendo esta última semejanza, entre los árabes y el gaucho, una de las reflexiones que Sarmiento más ha repetido en las páginas del «Facundo»419.

Non si detiene oltre l’autore sui «por qué» della misteriosa omologia antropologica epifanizzatasi nei giardini di Vincennes.

La si può considerare in un certo senso come una pregnante, sibillina anticipazione delle dense pagine dedicate in Blasón de plata a configurare il carattere specifico del continente americano come terra per eccellenza dell’“amicizia” dei popoli, come culla integrativa di etnie e culture differenti. Le pagine di Blasón de plata argomenteranno questo principio vitale della filosofia americanistica dell’intellettuale argentino attraverso una significativa ricognizione delle disparate teorie che dall’epoca coloniale sino ai suoi giorni avevano tentato di spiegare la misteriosa origine delle popolazioni americane. Il dogma «científico y religioso» dell’«unidad del género humano», ricostruiva Rojas, aveva fatto sì che le congetturazioni già degli interpreti dell’epoca coloniale si fossero attestate sull’«hipótesis de inmigraciones anteriores», che le popolazioni americane discendessero cioè da immissioni immigratorie provenienti dal continente eurasiatico. Ancora ai suoi giorni, scriveva Rojas, contro quanti avevavo tentato di provare un’origine autoctona di quei primi insediamenti umani, si era attestata (con le opportune attualizzazioni, ovviamente) la proposta fondamentale della «teoría colonial», secondo la quale «la América “histórica” fué poblada por inmigraciones venidas del Asia, del África, de Europa, y acaso de la Oceania insular y de la Atlántida misteriosa»420.

Su quell’idea, che gli permetteva di dimostrare la vocazione immanente dei territori americani al raccoglimento ospitale e integrativo di elementi etnici esogeni, Rojas costruiva il cartone preparatorio della fondazione genealogica di Blasón de plata421, e della dottrina universalistica dell’estetica di Eurindia,

419 R. Rojas, La exposición de Vincennes, op. cit., p. 49. 420 Id., Blasón de plata…, cit., p. 58.

421 «Continente poblado por migraciones, el destino futuro de las Indias anunciábase en tal

emanazione di una terra che era stata crocevia di migrazioni pervenute da tutti gli angoli del mondo, terra quindi di stagionati esperimenti sincretistici.

Ma in generale la suggestiva trama di parallelismi culturali di Vincennes traduce un principio profondo dell’universo spirituale e religioso rojoniano che troverà un’espressione specifica, portando alla luce la notevole eredità di suggestioni teosofiche che contribuiscono ad alimentarlo, nel dialogo de El

Cristo invisible. Emersa nel 1927 da un fugace processo compositivo, durato

meno di due mesi, ma che – come precisava allora l’autore – era stata preparata da «veinte años de estudio y meditación», è un’opera che De la Guardia vede sbocciare dall’insigne «arbol literario de la mística española», frutto tuttavia del tutto autonomo di «un sentimiento religioso libre y esencial», guardingo da ogni postura di chiusura dogmatica e settaria: presenza immamente di Dio nelle cose, misticismo, detrazione dogmatica della verità umana del Cristianesimo, questi gli attributi fondamentali del sentimento del