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Una testimonianza della Spagna della generazione del ‘

I VIAGGI IN EUROPA DI RICARDO ROJAS

11. Una testimonianza della Spagna della generazione del ‘

Mancata l’occasione, negli anni successivi al viaggio europeo, di dare espressione a quella rivelativa visione della “España actual”, il Retablo español si sarebbe costruito nel 1938 come la narrazione anacronistica dell’ormai trascorsa Spagna della generazione del ’98. Il Retablo è la narrazione del ’98 spagnolo, alle cui grandi costruzioni mitologiche, visioni storiche e variegate pianificazioni di soluzione del “problema de España”, si deve, in un regime teorico e narrativo contrassegnato da una sostanziale mancanza di autonomi filtri critici, iniziative immaginative e spunti narrativi, l’“interpretazione” del paese che Rojas sta offrendo tardivamente al lettore del mondo ispanico. In quel momento le rappresentazioni idealistiche del paese e le ambigue terapie di risanamento della sua decadenza proposte dai testimoni del ’98, la «quijotización de España» e l’«españolización de Europa» secondo Unamuno, l’“insularización” del paese, secondo la soluzione di Ganivet, crollavano come castelli di carta sotto i colpi dei drammatici avvenimenti di una guerra civile da cui sarebbero uscite vincenti le più pericolose idee della “hispanidad” cattolica e guerresca del Maeztu della sua seconda fase reazionaria e fascista, pienamente collusa con la svolta autoritaria del paese. Ed è opportuno ricordare che quelle idee davano la cifra ideologica dell’involuzione antidemocratica e filofascista dei regimi politici di tendenza dittatoriale delle nazioni del Río de la Plata

Gli anni ’20-’30 sono segnati in Argentina dall’inasprimento reazionario della cultura nazionalistica, annunciato già dal Lugones del discorso dell’“hora de la espada” del ‘23, e poi interpretato dagli esponenti dell’organo editoriale “Nueva República”, i fratelli Irazusta, Juan Carulla e César Pico. Compostosi nel 1927 per iniziativa di Ernesto Palacio, questo si rifaceva al nazionalismo di Maurras e della sua Action Française in un programma politico tutt’altro che omogeneo, ma che accentuerà in particolare negli anni ’30 una definizione dell’essenza nazionale fondata sui valori cattolici dell’“hispanidad”, come li aveva definiti nel 1934 Maeztu, ormai all’apogeo della sua inversione reazionaria, nella Defensa de la Hispanidad: «un encendido ataque a la España republicana» in cui l’idea antica della «misión evangelizadora de España bajo el estandarte de la espada y la cruz» - più di recente ripresa da Menéndez Pelayo

nella sua Historia de los heterodoxos españoles - veniva innalzata contro i due incipienti nemici del bolscevismo russo e dell’imperialismo statunitense449.

Non sembra azzardato supporre che con l’oggettivazione editoriale del Retablo

español Rojas si premurasse anche di dissociare il significato della sua

rivendicazione ispanista da quelle implicazioni ideologiche, che interessarono piuttosto l’excursus intellettuale di Gálvez, ma dalle quale si tenne decisamente a parte lo spirito liberale, democratico, e laico, dello scrittore tucumano. D’altra parte, i nuovi avvenimenti storici, dal cui incerto scenario parla il narratore che nel Retablo sta ricomponendo i materiali della sua giovanile visione del paese, dovettero dare a Rojas la sensazione di potersi esprimere più liberamente su una stagione che aveva già concluso la sua vicenda, e della quale erano venuti meno i fondamentali protagonisti intellettuali.

Chiusa un’epoca, Rojas avvertì il vantaggio di produrne una testimonianza, quando erano ancora pochi gli studi che avevano cominciato a valutarne il contributo storico. Affrontarlo dall’ambito della scrittura odeporica, gli permetteva di tenersi fuori dalle aspettative di un’interpretazione sistematica, e di rimanere sul terreno, che gli interessava di più, della memoria autobiografica. In questo modo Rojas si promuove come un testimone privilegiato del fenomeno del ’98, che viene riscattato come un «renacimiento nacional de vastos horizontes» delle coscienze intellettuali del paese: il risveglio improvviso, il sussulto della «nación alucinada» che si era lanciata, con lo stesso improvvido irrealismo di Don Chisciotte, all’impresa disperata della guerra del ’98, che «aleccionada y vencida» «se retrajo en su propio hogar, y por el pensamiento de sus hombres más capaces comenzó un examen de conciencia sobre las culpas de su historia»450.

Alla celebrazione di quell’esperienza, si accompagna nel Retablo la costante sottolineatura del carattere asistematico, soggetto al travaglio delle passioni patriottiche e degli spiriti creativi in evoluzione, dell’opera scaturita dai suoi autori eminenti. Insoddisfatti della scontata retorica nazionale sulle «bellezas de la tierra española» e «la leyendas de su historia», questi avevano a cuore innanzitutto di iniziare un profondo sondaggio della cifra atavica, delle caratteristiche psicologiche profonde, del mondo spagnolo, più che di arrivare ad intervenire su quegli aspetti della realtà socio-politica ed economica del paese che reclamavano un’urgente iniziativa delle classe dirigenti. Ganivet, Unamuno e Costa, in cui Rojas individua i personaggi di più grande levatura del ’98, «los profetas ibéricos» che espressero con la più alta costanza e la maggiore intensità dei contributi letterari e teorici la «tribulación» della patria emersa dal “desastre”, ne trassero il «mensaje en la hora tremenda», avviandola verso «un nuevo destino», ma non furono e non volettero essere “architetti del loro popolo”451.

449 M. Navarro Gerassi, Los nacionalistas, Buenos Aires, Editorial Jorge Alvarez, 1968, pp.

44-45.

450 R. Rojas, Después de la perdida de Cuba, in Retablo español, op. cit., p. 273. 451 Id., Los profetas ibéricos en su tribulación, in Retablo español, op. cit., p. 283.

Si può riconoscere dunque che Rojas individua opportunamente la matrice idealistica, soggettivista entro cui, come ha sottolineato successivamente la critica, si spese l’esperienza della riflessione identitaria degli uomini del ’98: nel «desdeño» dell’«Estado político, el dogma, la disciplina, el método, la ley», e l’evasione verso un’incorporea, tutta letteraria, essenza della patria, sublimata nella figura dissennata di «Nuestro Señor Don Quijote, el héroe loco, paladín del disparate y sonámbulo de la justicia absoluta»452.

Un «sabor de la historia» amaro, rancido, un intimo disincanto nei confronti delle istituzioni politiche guidava le parabole intellettuali di uomini che si erano formati nel «cómodo y aparatoso remanso de la vida española» che era seguito alla “Restauración” e all’ultima guerra carlista453. E si può ricordare che

al proposito López-Morillas ha insistito nella necessità di rivedere la crisi dell’identità della Spagna espressa da letterati come Unamuno, Ganivet, Maeztu, Azorín, Machado, Baroja, etc., nell’ambito del più vasto periodo che era intercorso dalla “Revolución de Septiembre” (1868-1874) al “desastre” del ‘98, un trentennio in cui «se produce una “crisis de la conciencia española” en mucho sentidos más honda que la que, ya un tanto rutinariamente, se viene atribuyendo a la “generación del 98”»454. In quella congiuntura storica si era

prodotta una forte recisione tra le classi intellettuali e le elites governative al potere. Un aperto «apoliticismo», evidentemente connesso con il naufragio del miraggio rivoluzionario nella torpida atmosfera politica della “Restauración”, aveva già trovato emblematica «encarnación» nel riformismo didattico della “Institución Libre de Enseñanza”, improntata a un piano di risanamento culturale del paese che si voleva attuare – con fervido e ingenuo idealismo - «“desde abajo” y “desde el principio”».

Alla luce di quella «repulsa» sdegnata della storia della Spagna è da vedersi quindi l’ossessiva ricerca introspettiva dei teorici della generazione verso il nucleo immoto della storia collettiva della nazione: da quella proveniva, come hanno sottolineato i critici, l’«urgencia de buscar en zonas de pensamiento y actividad ajenas a la política los medios de rescatar a España de su progresiva catalepsia»455. Se l’attività dei primi interpreti della «enfermedad» di Spagna, il

gruppo di intellettuali identificati sotto l’etichetta dei regeneracionistas, Costa, Picavea, Altamira, Morote, Silvela, Maeztu – che López-Morillas proponeva, con un gesto di “compensazione” critica” di elevare alla categoria di la «otra generación del 98» – provarono ad elaborare una formula terapeutica del problema nazionale fondata sui criteri razionali e obiettivi delle scienze sociali, nel «leteratismo» rimaneva sostanzialmente incorniciata la letteratura patria degli intellettuali che sarebbero effettivamente passati alla storia come gli

452 Ivi, pp. 283-284.

453 P. Laín Entralgo, La generación del 98, Madrid, Espasa Calpe, 1959, p. 46. Si veda in

particolare “El sabor de la historia”, pp. 46-69.

454 J. López-Morillas, Hacia el 98. Literatura, sociedad, ideología, Barcelona, Ariel, 1972, p. 7. 455 Ivi, p. 243.

«hombres del 98»: gli «espirituales» del 98, come il critico propone di chiamarli in contrapposizione ai primi456.

Ed è importante annotare qui che Rojas tende in effetti a diminuire se non ad eludere la presenza della faccia, o dell’ante-faccia “regeneracionista”, anche nel sommario schema storiografico del movimento che presenta, con l’avvertimento esplicito della sua incompletezza, nelle pagine ¿Qué fué la

“generación del 98”? Rojas qui appare soprattutto preoccupato di mettere in

evidenza la robustezza del movimento del «renacimiento» ispanico, come insiste nel chiamarlo, in tutti i suoi ambiti culturali e scientifici, rilevando così il carattere organico, pur nella eterogeneità, del movimento intellettuale costituitosi entro la comune passione del “dolor de España” e l’impegno collettivo nel riscatto del suo antico genio. Verso «ámbitos alejados de la polémica central que le da su fisionomía», la disastrosa caduta de la «nación alucinada» a Cuba, era andato dislocandosi l’«impulso» conoscitivo degli uomini che ne furono testimoni, ambiti i più eterogenei. Menéndez Pelayo, Galdós e Giner de los Ríos si annoverano per Rojas come le figure che avevano anticipato la «restauración» del paese nello scorcio finale dell’‘800, momento culminante di una “decadenza” nazionale annosa. Ramón y Cajal nella ricerca scientifica, Rafael Altamira negli studi storici e Adolfo Posada in quelli giuridici, Clarín nel rinnovamento della critica letteraria, Menéndez Pidal negli studi filologici, Benavente nel teatro, Ortega y Gasset nella filosofia, Azorín nella «reforma» della prosa e Darío in quella della poesia, superando la drammatica contingenza del “fin de siglo”, testimoniavano dunque «la duración y la amplitud de aquel verdadero Renacimiento Español» di cui, sottolinea l’argentino, il fatto di Cuba fu solo «ocasión y punto de referencia»457. Si evince dunque nello scarno abbozzo storiografico di Rojas

un’utilizzazione ampia, estensiva, dell’etichetta del ’98, una versione che estendeva a tutto il mondo della cultura spagnola il «renacimiento» che Azorín aveva rivendicato nel più specifico campo della produzione letteraria in La

generación de 1898, testo che, pubblicato nel 1913 nell’antologia di Clásicos y modernos aveva segnato la stessa nascita della poi tanto discussa categoria

generazionale. Ed al proposito si deve ricordare che lo stesso Azorín, se collocava negli anni chiave del desastre l’irruzione della nuova, “rinascente” sensibilità letteraria, sottolineava su quali forti e antichi antecedenti culturali si fosse realizzata «la moderna literatura española de crítica social y política» del momento:

se cree generalmente que toda esa bibliografía “regeneradora”, que todos esos trabajos formados bajo la obsesión del problema de España, han brotado a raíz del desastre colonial y como consecuencia de él. Nada de más erróneo; la literatura regeneradora, producida en 1898 hasta años después, no es sino una prolongación, una continuación lógica, coherente, de la crítica política y social

456 Ivi, p. 226.

que desde muchos años las guerras coloniales venía ejerciéndose. Ed desastre avivó, sí, el movimiento; pero la tendencia era ya antigua, ininterrumpida458.

Azorín avrebbe riconosciuto il debito dei noventayochistas nei confronti di quella estesissima letteratura versata sulla lettura della decadenza nazionale, che faceva risalire già al secolo XVII, ma che aveva conosciuto un’eccezionale espansione con la produzione dei regeneracionistas, di cui già in queste pagine passava in rassegna le opere che gli parevano esprimere meglio le nuove «aspiraciones». L’espagne telle qu’elle est, del 1886, di Valentín Almirall, Herejías, del 1887, di Pompeyo Gener, De la defensa nacional, del 1901, di Damián Isern, figuranti nella ricognizione del teorico della generazione del ’98, così come il Picavea di El problema nacional, La moral de la derrota di Morote, mancano per completo all’appello della «lista» di Rojas. Molte più suggestioni il nostro argentino poteva trovare nella evasiva introspezione dell’“alma nacional” di un Ganivet o di Unamuno che in quel «programa de soluciones en lenguaje pragmático y cientifista y con carácter de neutralidad política, soluciones concretas a problemas concretos, casi todos de carácter ecónomico y educativo»459, di quegli interpreti del male spagnolo.

Certo si profilano delle eccezioni significative. Quella di Altamira, innanzitutto, che assurge nel serrato catalogo di Rojas come un rinnovatore, accanto a Posada, della riforma del sistema educativo dell’Università di Oviedo, per conto della quale si era svolta la sua già ricordata campagna di segno ispanista nei paesi ispanoamericani, Cuba e Argentina segnatamente, dove il suo nome e la sua opera avevano raggiunto una notevole notorietà. Ma di questo importante autore Rojas sembra tenere in conto non tanto l’opera che lo aveva imposto come uno dei più importanti autori del regeneracionismo,

Psicología del pueblo español, quanto piuttosto la Historia de España, la cui

trattazione sorregge in maniera esplicita diverse regressioni storiche dello stesso Retablo español.

L’altra eccezione concerne la figura di Maeztu, che se non appare nemmeno di sfuggita nell’ampio schema sopra riportato, viene fregiato in un ampio medaglione che gli viene dedicato con l’epiteto di «arquetipo de su generación»460. Il viaggiatore gli dedica pagine tutt’altro che di circostanza,

percorse dal ricordo nostalgico dell’energico patriota che aveva conosciuto a Londra nei mesi iniziali del suo viaggio europeo del 1907.

Al carattere tormentato e intrinsecamente irrazionale di una passione nazionalistica totalizzante l’autore argentino lega, in questa testimonianza affettuosa che prende a poco a poco le sembianze di un commosso compianto funebre, la spirale reazionaria in cui era precipitato l’intelletto e con esso la vita del vecchio amico e testimone delle sue giovanili proiezioni ispanofile. Rojas insiste palesemente nella dissociazione dell’opera dalla piena

458 Azorín, La generación de 1898, in Obras completas, introducción, notas preliminares,

bibliografía y ordenación por A. Cruz Rueda, tomo I, Madrid, Aguilar, 1947, p. 1129.

459 I. Fox, op. cit., p. 58.

tempra regeneracionista del Maeztu londinese, l’Hacia otra España imbevuta di messianismo socialista e di proiezioni filoanglosassoni, e quello ultimo della

Defensa de la hispanidad, postulazione di una «restauración teocrática» e di una

«vuelta total a la España de Felipe II»461. Abellán, tra altri studiosi, ha ridotto

le distanze tra quei due Maeztu, ritrovando nella «voluntad nietzscheana de dominio» la costante che, attraversando tutto il suo pensiero, lega senza significativi scarti concettuali il «“sobrehombre mesiánico”» del 1898 con il «“Caballero de la Hispanidad”» della Seconda Repubblica462. Prendendo

risolutamente le distanze dalla deriva ideologica dell’oscuro “caballero” degli anni ’30 - con il quale non aveva comunque smesso di esercitare rapporti di vecchia e fraterna amicizia463 - Rojas si premura qui di mettere piuttosto in

evidenza nella figura di Maeztu la costanza di un impegno patriottico che, assunto come una passione primaria e tormentatrice della propria missione intellettuale, conduce conseguentemente all’immolazione sacrificale e catartica della propria vita.

In quei giorni in cui Rojas si occupava del suo vecchio Retablo español aveva appunto saputo della violenta morte di Maeztu alla caduta del regime di Primo de Rivera, sotto i fuochi del “Frente Popular” della risorta, in una risurrezione si sa quanto effimera, Spagna repubblicana: «vengo a que me crucifiquen»464,

avrebbe detto il teorico della «defensa de la hispanidad» fascista, al suo ritorno in Spagna. In un epilogo significativo Rojas piangeva per la «sangre» di quell’ardente patriota spagnolo, allo stesso modo che per quella di Lorca, «vertidas en campos diferentes pero ya confundidas en la tierra de la patria común», immolato il sangue de «los dos mártires» per un’auspicata redenzione del travagliato suolo ispanico465.

Costa, figura paradigmatica del regeneracionismo, appariva accanto ad Unamuno e Ganivet, come si è visto, nella “triade” dei “profeti” e i più alti e sofferti “tribuni” della sofferenza e della resurrezione della patria iberica. Si cercherà inutilmente nelle pagine rojoniane dedicate al “León de Graus” un’introspezione dedicata a decifrarne le contraddittorie anime ideologiche che già la critica degli anni ’30 cominciava ad individuare entro la sua imponente figura e nel movimento del regeneracionismo che al suo sfaccettato, poligrafico contributo intellettuale si ispirò. Come ha ricostruito Mainer, un

461 Ivi, pp. 289, 290.

462 Cfr. J. L. Abellán, “Ramiro de Maeztu y la voluntad de poder”, in Sociología del 98,

Península, Barcelona, 1983, pp. 289-295.

463 Così lasciano intendere alcune ricostruzioni autobiografiche di queste pagine del Retablo,

che ritraggono Maeztu in un momento cruciale della sua avventura intellettuale e vitale, quando, saputo della caduta del regime di Primo de Rivera, si destituisce dall’incarico diplomatico per fare ritorno in Spagna, consegnandosi, in leale accordo con il suo «deber», al destino minaccioso che lo attende in patria: «cuando el dictador cayó, el mismo día envió su renuncia y preparó sus maletas para el regreso. Me lo avisó por teléono y fuí a verlo en la Embajada, ya que nuestra amistad era anterior a su cargo y ajena a nuestras opiniones, por cierto antagónicas» (R. Rojas, Maeztu, el español atormentado, op. cit., p. 290).

464 Ibid. 465 Ivi, p. 291.

«populismo progresista» e un «autoritarismo mesiánico y corporativista» - condensatosi nella famosa invocazione di un “cirujano de hierro” - si alternavano contraddittoriamente nel registro costiano di soluzioni del problema della decadenza spagnola, e fu certamente la seconda direttrice a dare la fisionomia complessiva di un regeneracionismo che cominciò ad essere «muy tempranamente […] un adorno ideológico de las opciones más conservadoras (como lo fue el maurismo) y, no mucho después, la endeble justificación de la Dictadura de 1923»466.

Come già nel ritratto di Maeztu, nella sua testimonianza dell’intellettuale aragonese prevale il rilievo patetico di un affanno nazionalistico dalle venature mistiche e quisciottesche, la sagoma di un salvatore della patria vinto dal peso insostenibile dell’impegno reso insolvibile dalla incancrenita situazione morale, culturale e politica della Spagna del postdesastre: alla quale predicava, contro la quale gridava, ingiuriava, come un profeta «en la soledad de un desierto espiritual»467. Una Spagna che lo indigna per la sua «insensibilidad granítica», la

sua mancanza di senso civile e volontà di riscatto, ma anche una Spagna che lo commuove, quando gli si rivela essere il «pueblo sencillo, recto, abnegado, pero perdido por sus directores; el buen vassallo que, como el Cid, no había un buen Señor»468. Della ritrattistica diffusasi attorno alla sua figura – di cui le

pagine divulgative ora citate di Zulueta concentrano una buona campionatura di topoi ricorrenti - Rojas raccoglie l’equazione simbolica tra l’infermità fisica che lo colse negli anni finali della sua vita e l’inermità, la spossatezza intellettuale, del “sollevatore” del suo popolo che ha deposto ormai il fardello arrendendosi all’evidenza della sua sconfitta, che, «huérfano de la patria, se encerraba en su retiro pensando que “el problema español no tiene solución más que en la sepoltura”»469.

Rojas ebbe l’occasione di vedere dal vivo il personaggio nell’occasione memorabile del 22 maggio del 1908, quando lasciando il suo ritiro di Graus, il «León Ibérico» tornò per un momento a presiedere la scena della tribuna politica. Il popolo, troppo tardi ravveduto della sua disaffezione, ricostruiva l’argentino, lo aveva chiamato perché difendesse in parlamento la patria dal decreto antiterroristico di Maura, in cui si era visto un pericoloso tentativo di riduzione del libero gioco della vita democratica del paese. L’immagine data da Rojas dell’«apóstol» paralitico, concentrato nello sforzo, non tanto fisico, quanto piuttosto «moral», di «sostener la ilusión ajena, disimulando la propia desilusión»470, e alla fine dell’arringa ridotto ad un penoso pianto, potrebbe

essere comparata con una rievocazione di Azorín, probabilmente riferita a

466 J.-C. Mainer, “El regeneracionismo: Costa, Ganivet, Maeztu”, in Modernismo y 98, in

Historia y crítica de la literatura española, al cuidado de F. Rico, VI, Barcelona, Editorial Crítica,

1980, pp. 93-102, cit. a p. 94.

467 L. de Zulueta, Prólogo a Ideario de Costa, recopilación de J. García Mercadal, Madrid,

Biblioteca Nueva, 1936, pp. 5-20, cit. a p. 7.

468 Ivi, pp. 7, 8. 469 Ivi, p. 11.

quella stessa circostanza, scritta a due anni dalla morte dell’aragonese. Ricorre