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Sulla letteratura di viaggio ispanoamericana Per una ricognizione sistematica

Il viaggio in Spagna del vate del modernismo, passaggio che avrebbe marcato la transizione della sua opera, con i Cantos de vida y esperanza, ad una concezione impegnata del suo fare poetico, convergente con il risveglio americanistico, e in chiave ispanofila, profilatosi dopo i fatti del ’98 nella letteratura ispanoamericana, aveva dato il via a un’importante serie di esplorazioni da parte dei viaggiatori ispanoamericani in Europa del suolo nativo ispanico, e in particolare della sua roccaforte castiza, la Castiglia, oggetto, nella letteratura di Unamuno e Azorín, Baroja e Machado, di un processo mitografico che la avrebbe rinventata come il santuario della razza immortale del Cid e del Don Quisciotte.

D’altronde, come ha segnalato Viñas nel suo già richiamato lavoro sul viaggio – circoscritto all’area rioplatense –, con la crisi dell’ideologia liberale che coinvolge le elites intellettuali agli inizi del XX secolo, si assiste ad un graduale esaurimento del «viaje estético» ottocentesco, segnale di un rifiuto antimodernista del mito estetistico di Parigi, che comincia ad essere identificata con «“erotismo”, “vicio”, “histeria”», simbolo edonistico di un’Europa «que por excesos estéticos se tornó materialista»99. Si tratta di una

reazione spiritualista, di «purificación» della stessa esperienza del viaggio, che si accompagna spesso alla riscoperta, pregna di significati identitari, del suolo “nativo” ispanico100.

98 J. L. Borges, España, in Obras completas, Buenos Aires, Emecé Editores, 1974, p. 931-932. 99 D. Viñas, op. cit., p. 65.

100 Per uno sguardo panoramico sulla letteratura di viaggiatori ispanoamericani in Spagna

tra Otto e Novecento cfr. l’antologia di E. Nuñez, España vista por viajeros hispanoamericanos, Madrid, Ediciones Cultura Hispánica, 1985. Una più esigua raccolta, convergente in particolare sulla meta madrilena, è stata recentemente predisposta da José Esteban, Viajeros

hispanoamericanos en Madrid, Madrid, Sílex, 2004. Un’altra selezione di testi odeporici, relativa

all’orizzonte modernista, e non esclusivamente centrata sul versante spagnolo è stata realizzata da M. López-Vega, El viajero modernista, Gijón, Libros del Pexe, 2002. Del critico venezuelano va ricordata l’altra imponente raccolta antologica, relativa ai viaggi continentali di autori ispanoamericani dell’Otto e Novecento, pubblicata nel 1989. Cfr. E. Nuñez,

Il viaggio propizia l’analisi della “enfermedad de España” rispondendo ad un’esigenza di approccio al problema nazionale empirica e sentimentale, prima che intellettuale, che riscontra nel paesaggio una fondamentale chiave di volta alla comprensione del “carattere” della nazione ed alla elaborazione di un nuovo “concetto” di Spagna: in ciò è stato pienamente riconosciuto l’assorbimento – in Unamuno e Azorín in particolare - del criterio positivistico e specificamente tainiano della consequenzialità genetica tra geografia, clima e caratteri nazionali101.

Si deve peraltro considerare che le prose di viaggio unamuniane di Por tierras

de Portugal y España apparse tra il 1906 e il 1909, oltre che sull’El Imparcial di

Madrid, sul quotidiano La Nación e sulla rivista España argentine, nacquero anche con il proposito di allacciare un dialogo con il destinatario ispanoamericano, non di rado proprio vertendo sul richiamo comparatistico tra paesaggio di Spagna e paesaggio sudamericano. All’invito di Unamuno, che in quegli anni si richiamava al progetto di una grande «España mayor», ricostruita attorno alla visione di una “chimerica” geografia dell’hispanidad, estesa oltreoceano alle excolonie americane, «los cachorros sueltos del león español»102, gli intellettuali ispanoamericani risposero anche con il tributo di

una letteratura odeporica in cui si celebra, spesso nel ravvedimento dagli sbandamenti esterofili del passato, il ritrovamento di un vincolo filiale che si esprime non infrequentemente nella metafora biologica del “sangue”: una «salutación de la sangre» si svolge per esempio nelle pagine di Larreta, «la vieja

101 Il determinismo informa in sostanza la ricerca pseudoscientifica dei noventayochistas delle

strutture ataviche, trascendenti, della cultura nazionale, ritrovate – entro il nucleo castizo castigliano - nelle caratteristiche del popolo rurale, esposto senza filtri alle influenze del

milieu, dei fattori geografici. Su ciò, e sulla peculiare attitudine «excursionista» degli uomini

del ’98, hanno particolarmente insistito i lavori di Herbert Ramsden (H. Ramsden, The 1898

Movement in Spain: Towards a Reinterpretation, Manchester University Press, 1974; Id., The Spanish “generation of 1898”. A Reinterpretation, “Bulletin of the John Rylands University

Library of Manchester”, 57, 1974, pp. 167-195).

Si collega ai contributi di Ramsden sull’escursionismo di indole deterministica della letteratura del ’98 il saggio di Cardwell sulle «andanzas» unamuniane (R. A. Cardwell,

Modernismo frente a noventa y ocho: el caso de las andanzas de Unamuno, in Anales de la literatura española, 6, 1988), ma in una direzione di ricerca che vuole indagare, al di là, o meglio, al

fianco della «veta determinista», una «veta espiritual» delle contemplazioni paesistiche di Unamuno che lascia intravedere elementi marcatamente modernisti della complessa fisionomia artistica dell’autore delle Andanzas. Queste sono perciò, riflette il critico, un solido banco di prova su cui rileggere la mal risolta questione critica dei rapporti tra modernismo e ’98, da rivedere nella loro unitarietà di caratteri e intenti.

La seria lacuna di interventi critici evidenziata da Cardwell sul corposo ambito della «literatura excursionista» unamuniana e in generale noventayochista ha cominciato a colmarsi con i lavori di R. F. Llorens García, Los libros de viaje de Miguel de Unamuno, Alicante, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, 1991; José Martínez Ruiz: la educación del viajero, in AA. VV.,

Azorín et la Génération de 1898. IVè Colloque International, Pau, Saint-Jean-de-Luz, 23-24-25

Octobre 1997, Université de Pau et des Pays de l’Adour [Faculté des Lettres, Langues et Sciences Humaines], Pau, L.R.L.L.R. et Editions Covedi, 1998, pp. 375-384.

102 R. Darío, A Roosevelt, in Poesías completas, edición, introducción y notas de A. Méndez

sangre española» erompe improvvisamente nelle prose di viaggio di Díaz Rodríguez, alla «sangre de Hispania fecunda» si appella Rubén Darío nella celebre Salutación del optimista, come un’onda, in un passo di Neruda, «siglos de sangre común sumergidos» si innalzano dalle terre spagnole calpestate dal viaggiatore americano103.

Su un’aperta adesione ai contenuti regeneracionistas della letteratura del ’98 e alle strategie investigative della “psicología de los pueblos” di quella stagione si consolida per esempio l’architettura de El solar de la raza di Manuel Gálvez, autore essenziale affianco a Rojas e Lugones del nazionalismo “utopico” del primo Novecento argentino. La costruzione identitaria della nazione spagnola che viene alla luce in questa opera – in cui peraltro si sviluppa un significativo confronto tra le polarità della latinidad e della hispanidad messe in gioco dalla sua complessa geografia culturale - si stabilisce su un presupposto chiaramente

castellanocéntrico. In particolare, le ricognizioni del viaggiatore entro il cuore castizo di Spagna rivelano assonanze significative con la vena elegiaca con cui

Azorín celebrava, nel paesaggio della Castiglia, l’inedita fusione di forme prosaiche, dimesse, ed eteree, intrise di sollecitazioni mistiche. La rovinosità dei paesaggi castigliani viene letta da Gálvez liricamente come l’esemplificazione architettonica della resistenza “trascendentale” della fervida spiritualità del mondo spagnolo, invulnerabile ai processi massificanti del “progresso” dell’Europa avanzata104.

Per Gálvez, come poi per il Rojas di Retablo español, questa «vieja España» costituisce un passaggio obbligato della costruzione identitaria del fragile edificio nazionale dell’Argentina: un paese opulento, «granero del mundo», ma povero di riferimenti spirituali, prodotto materialistico dall’esperimento del liberalismo positivistico di Alberdi e Sarmiento, essenziale a fine ‘800, bersaglio polemico del nazionalismo del Centenario. L’emergere, nell’ambito del «nacionalismo latino» di fine ‘800, di un «dispositivo hispanista» risponde al bisogno di «redifinición de una identidad nacional que debía no sólo inventar un linaje autóctono ante lo que se percibía como una menaza de disolución contenida en el aluvión inmigratorio, tenía asimismo que albergar un conjunto de valores que oficiaran de contrapeso a una moralidad social denunciada como crecientemente materialista y pragmática», ha scritto Oscar Terán in un contributo che individua con estrema nettezza – anche sulla scorta delle

103 «Como vivimos lejos de ella, en América ignoramos cuánto y de qué modo existe en

nosotros. Pero en cuanto la pisamos, la ola que se alza de las tierras españolas nos hace recordar y sentir los siglos de sangre común sumergidos en nuestro ser» (J. Quezada,

Neruda-García Lorca, Santiago de Chile, Fundación Pablo Neruda, 1998, p. 63).

104 Su El solar de la raza di Gálvez si segnalano gli accurati e documentati contributi di uno

studioso italiano: cfr. F. Quinziano, La “eterna” España de Manuel Gálvez: del ensueño de España

a la Argentina soñada, in “Taller. Revista de Sociedad, Cultura y Política”, 8, 1998, Buenos

Aires, pp. 101-109; “El solar de la raza” de Manuel Gálvez: tradición hispánica e identidad nacional

en la Argentina del Centenario, in La prosa no ficcional en Hispanoamérica y España…, cit., pp. 253-

276; La “eterna vejez” de España: arquitectura, arte y paisaje hispánicos en la escritura de Manuel

Gálvez, en R. Londero e A. Cancellier eds., Le arti figurative nelle letterature iberiche (Atti

precedenti indagini di Payá e Cárdenas - la relazione dei viaggiatori argentini sopra richiamati, Gálvez, Rojas, Larreta, ma anche il più “afrancesado” Ugarte, con la costruzione nazionale della generazione del ’98105.

La celebrazione della Castiglia trascendentale in Rojas e Gálvez, quella della «vieja España» di Larreta, costituiscono anche un tentativo di rovesciamento della Spagna barbara immortalata dalle prose di viaggio di Sarmiento: antecedente insigne di un vasto repertorio di scritture odeporiche segnate dall’idiosincrasia nei confronti della “fealdad” del paesaggio spagnolo, espressione geografica dell’arretratezza socio-economica del paese e dello stato “abulico” della sua coscienza nazionale106.

Come si è accennato, la stessa costruzione in senso castellanocéntrico dello spazio spagnolo realizzata dagli intellettuali del ‘98 contribuisce a scavare il solco tra le direttrici culturali e simboliche – latinidad (o mediterraneidad) e

hispanidad - attorno alle quale si giocano i viaggi dei letterati ispanoamericani in

Europa: da una parte un immaginario latino, ricercato dai viaggiatori ispanoamericani come repertorio magniloquente di classicità, in cui trova appagamento il gusto estetistico ed elitistico del movimento modernista; un laconico immaginario castizo dall’altro, rappreso nell’epica umile del mondo rurale castigliano, in lotta perpetua con l’inclemenza congenita della sua natura, o severamente incarnato nell’architettura vetusta delle sue città “decadenti”. Come si è accennato, l’Italia e la Grecia mediterranee costituivano per i seguaci del messaggio arielista il luogo identitario in cui, nel segno di un’atavica classicità “greco-latina”, si rimuoveva il più difficile rapporto genealogico con la matrice spagnola.

Nell’ideale di classicità che ispirerà molti “viaggi” delle lettere moderniste ispanoamericanesi era spesso insinuata la tinta estetistica ed evasiva dell’arte e della letteratura tardoromantiche e decadentistiche. Era crucialmente in gioco, in tali incursioni mediterranee, la rimodulazione in senso irrazionalistico del

105 Cfr. O. Terán, El dispositivo hispanista, in Actas del III Congreso Argentino de Hispanistas

“España en América y América en España” (Buenos Aires, 19-23 de mayo de 1992), L.

Martínez Cuitiño y E. Lois (eds.), Buenos Aires, Asociación Argentina de Hispanistas - Universidad de Buenos Aires, Facultad de Filosofía y Letras, Instituto de Filología y Literaturas Hispánicas “Dr. Amado Alonso”, 1993, vol. I, pp. 129-137 (per il passo citato v. pp. 129-130); E. J. Cárdenas, C. M. Payá, El primer nacionalismo argentino. En Manuel Gálvez y

Ricardo Rojas, Buenos Aires, A. Peña Lillo Editor, 1978.

106 Al proposito si può consultare il denso capitolo “Retóricas del viaje a España” del già

citato testo di Beatriz Colombi (Viaje intelectual…, cit.). Trattandosi di un’esperienza odeporica carica di significati simbolici e identitari importanti, il viaggio in Spagna innesca l’interazione profonda, il «diálogo intertextual» del letterato con il sistema di rappresentazioni della realtà spagnola che si comincia a forgiare, durante l’800, nei repertori delle cronache dei romantici francesi soprattutto. «El viajero americano […] instala un diálogo intertextual con los modelos centrales con respecto a los cuales interpone distancias o refutaciones. En el caso de España, esta dialéctica se extrema, porque la deuda colonial interpola un pasado (otra narración), que hará oscilar un relato entre el ajuste de cuentas y el pacto de reconciliación» (ibid., p. 106).

motivo della “decadenza” della razza latina che, come si è visto prima, aveva contestualmente trovato spazio di indagine nella letteratura sociologica europea e ispanoamericana.

Il concetto di razza latina passa per un processo di rivalutazione positiva nel quale gioca una sua parte di responsabilità l’evoluzione (in senso antipositivistico) del concetto stesso di “decadenza”. In ciò che è decadente si identifica, con Baudelaire, «el refugio del ideal de belleza, frente a la invasión arrolladora del materialismo». «La evolución por la que atraviesa el concepto de decadencia se cumple también cuando dicho término aparece aplicado por autores decadentes a la idea de raza latina»107. Al mondo latino si guarda

quindi come al superstite e fragile spazio di sopravvivenza dei valori dell’umanesimo occidentale: un mondo malato, in via di estinzione, che è rimasto al margine del processo di industrializzazione da cui sono emerse le potenze sassone e germanica.

Così, ad esempio, «Barbey d’Aurevilly, al escribir el prefacio de La décadence

latine (1884-1900), de J. Péladan, califica esta obra como “la synthèse de toute

une race – de la plus belle race qui ait jamais existée sur la terre – de la race latine qui se meurt”», annota Martínez Blanco, facendo notare che in questa celebrazione della latinità entra in gioco anche «uno de los motivos predilectos de la sensibilidad finisecular: la asociación de los conceptos de belleza y muerte, la actitud de complacencia ante todo aquello que lleve en sí la marca del deterioro y de una próxima desaparición»108. La razza latina poteva così

essere vissuta come un sublimato mito della decadenza a consumo di raffinati spiriti del decadentismo.

A una tale declinazione della latinità poteva contribuire in quegli anni la diffusione dell’opera dannunziana, che ebbe sulle lettere ispanoamericane moderniste una notevolisssima influenza, come hanno dimostrato gli studi di Bellini e Foresta. Appare anche superfluo sottolineare che l’opera del poeta abruzzese presentava un’ampia escursione di espressioni estetiche ancorate ad una cifra classica e “greco-latina”: dalla odisseica oratio perpetua di Maia, trasfigurazione lirica del viaggio in Grecia del 1865, al vitalismo panico della stagione estiva dell’Alcyone, fino alle sonorità marziali della gonfia retorica imperialista di Merope (per tenerci solamente alla stagione matura delle Laudi, come è evidente; ma si pensi pure, per ciò che concerne la narrativa, alle suggestioni crepuscolari della sontuosa Venezia de Il fuoco). Dalle opere di Bellini e di Foresta109 vengono precise indicazioni critiche relative alla fioritura

107 M. T. Martínez Blanco, op. cit., p. 54. La studiosa si muove sulla traccia di

argomentazioni dedotte dal lavoro di Erwin Koppen Dekadenter Wagnerismus, che viene indicato come un eccellente contributo sulla storia del concetto di “decadenza” nella cultura europea e in particolare francese tra XVIII e XIX secolo.

108 Ibid.

109 Cfr. G. Bellini, “D’Annunzio in America”, in Id., Storia delle Relazioni Letterarie tra l’Italia e

l’America di lingua spagnola, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino – La Goliardica, 1982; G.

Foresta, L’Italia vista da scrittori e poeti latinoamericani. Dal ‘700 al ‘900, Settimana della Cultura Spagnola 7-12/V/1979, Messina, Università degli Studi di Messina, Istituto di Lingua e

di un “italianismo” che, nella ricostruzione erudita e antiquaria di scenari, paesaggi naturali e artistici italiani – ricorrente anche in una nutrita trafila di romanzi storici del periodo –, attinge alle atmosfere di preziosa voluttà sensuale dell’opera dannunziana.

Il dannunzianesimo aveva soggiogato per esempio l’immaginario di Tulio Manuel Cestero (domenicano), e di Pedro Cesar Domínici (venezuelano), l’autore in cui, scrive Bellini, il decadentismo – assorbito anche attraverso il

Dyonisos di Pièrre Louys - dà «i frutti più falsi».110 Il suo El triunfo del ideal, così

come Ciudad romántica di Cestero, spiccano (negativamente) nella folta categoria di romanzi dell’epoca, spesso di genere storico, ambientati nello scenario estetizzato e decadente di un’Italia rinascimentale e di maniera. Oltre al caso di Domínici, la Grillo segnala, in area rioplatense, El hombre de oro di Darío, inconcluso, e El triunfo de la vida (1906) di José María Rivas Groot111.

Nell’area peruviana, che più sembra risentire della lezione dell’autore italiano, la critica ha segnalato tra altri la produzione di Felipe Sassone, che dedicò al poeta una Canción de Italia, e di Morales de la Torre, nel quale l’esercizio stilistico sui canoni parnassiani e dannunziani della preziosità e del verbalismo musicale si coniugano alla celebrazione della «latinità nel suo manifestarsi artistico», come programmaticamente attesta “El genio latino” in Apuntes y

perfiles (1922), libro in cui «l’ambiente italiano è presente, in termini evocativi

cari a D’Annunzio, come “La bella Simonetta”, “Quattrocento” – dedicato, questo, alla pittura del Pollaiuolo, del Ghirlandaio, del Botticelli, alla celebrazione del Poliziano -, “El poverello de Asís”, in cui rivive il clima dei

Fioretti»112.

Da tenere in considerazione sono anche le poesie di Minuetos e Tapices di Enrique Bustamante y Ballivián, «in cui il preziosismo di D’Annunzio si manifesta in paesaggi di un’Italia di maniera, e dove appaiono, rielaborate, presenze delle Elegie romane»113, e, su questa scia, le Cantilenas di Ventura García

Calderón, che nel 1921 si recò personalmente a dare i suoi omaggi al poeta allora impegnato nell’impresa di Fiume.

Ancora peruviano è Abraham Valdelomar, autore del romanzo, dal titolo dannunziano, La ciudad muerta, e le cui prose di viaggio, Crónicas de Roma, frutto del suo soggiorno in Italia, forniscono una rappresentazione emblematica di

Letteratura Spagnola, 1979. Di Foresta si segnala inoltre Dannunzianesimo e

antidannunzianesimo in Perù, “Rivista dell’Istituto degli Studi Abruzzesi”, VIII, 1969. Per ciò

che concerne l’area peruviana si distacca il lavoro di Estuardo Núñez, Las letras de Italia en el

Perú: estudios de literatura comparada. Florilegio de la poesía italiana in versiones peruanas, Lima,

Universidad Nacional Mayor de San Marcos, 1968.

110 G. Bellini, op. cit., p. 252.

111 R. M. Grillo, Viajeros rioplatenses en la Italia clásica, in J. V. Bañuls Oller, J. Sánchez

Méndez, J. Sanmartín Sáez (Eds.), Literatura iberoamericana y tradición clásica, Universitat Autònoma de Barcelona - Universitat de València, 1999, p. 225.

112 G. Bellini, op. cit., p. 241. 113 Ibid.

una città totalmente identificata con la desolazione irredimibile dei suoi resti rovinosi: «todo habla en esta ciudad maravillosa de la muerte»114.

In effetti - ammette il viaggiatore all’epilogo di La sombras del espíritu, prima delle cinque Crónicas de Roma, scritte durante l’anno 1913 per “La Nación” di Lima - esistono «dos Romas»: «la Roma del Baedeker», confezionata per le perlustrazioni metodiche di turisti e viaggiatori superficiali, e «la Roma del alma», una «Roma espiritual casi incorpórea». Più che un’immagine, un’entità fisica, questa seconda Roma, alla quale si vota senza indugio la sensibilità del letterato peruviano in Italia, è un’atmosfera, un alito, un respiro appena tangibile che viene dal passato, dal bacino di antichità “insepolto”. La dialettica tra superficie e profondità, tra immediatezza corporea della città visibile e profondità viscerale della città sotterranea e insondabile, attraverso la quale fluisce la visione del viaggiatore peruviano a Roma, struttura pure la simbologia urbana de La ciudad muerta, romanzo breve, dal titolo dannunziano ma di ambientazione sudamericana, del 1911.

Secondo Núñez le due opere, «aunque de género distinto y actitud diferente, corresponden a la misma etapa de la transformación espiritual de Valdelomar». Ma mentre la prima evidenzia massicciamente l’influenza dei modelli stranieri, le Crónicas annuncerebbero «el cambio favorable que el empacto del viaje ejercerá en un temperamento exquisito como el de Valdelomar, esto es, que la realidad europea sirve al autor para afirmar su sentido americano y una original concepción literaria, despojada en la propia Italia, del influjo arrollador del autor de La vírgenes de las Rocas y en la propia Francia, de la sugestión que sobre él ejercía el decadentismo de Lorraine y Huysman»115.

In ogni modo, le due opere sono accumunate dalla stessa atmosfera espressiva e, di più, nonostante la differenza dei generi, da uno stesso patrimonio di riferimenti figurali e simbolici.

Nell’immaginario e nell’impianto espressivo La ciudad muerta è opera emule della letteratura del decadentismo, assorbito in particolare – hanno segnalato gli studiosi - attraverso i modelli di D’Annunzio, Lorraine e Huysman: gusto