CAPITOLO II: LA MOBILITA’ ORIZZONTALE
1. La disciplina anteriore al 2015: il concetto di equivalenza e le sue
Prima di affrontare l’attuale disciplina della mobilità orizzontale occorre analizzare quella antecedente alla riforma del 2015, che ha dato origine a varie e contrastanti interpretazioni giurisprudenziali, venute meno solo con l’introduzione dell’attuale normativa.
Il 1° comma dell’art. 2103 cod. civ. innanzitutto stabiliva il già affermato principio di contrattualità delle mansioni, disciplinava poi l’ipotesi di acquisizione della categoria superiore ed infine prevedeva che il prestatore di lavoro deve essere adibito a “mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Veniva dunque cristallizzato all’interno della norma il concetto di equivalenza, che aveva un ruolo fondamentale in quanto costituiva il limite alla variazione qualitativa dell’oggetto della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore, ed agiva quale
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requisito per valutare la contrarietà dei patti e dunque l’illegittimità dell’adibizione68
.
Ma proprio questa nozione di equivalenza, elemento cruciale della disciplina, è stata fonte di grande incertezza già dell’entrata in vigore della norma, richiedendo una profonda opera di concretizzazione da parte del giudice. Il suo carattere aperto, la rendeva un criterio del tutto vago e neutro, che di fatto non orientava il giudizio di comparazione dato che non indicava gli elementi in base ai quali dovesse essere effettuato il raffronto, alimentando così un corposo contenzioso giurisprudenziale con conseguenti incertezze gestionali, diffuse e costose69.
Nella giurisprudenza, che ebbe il ruolo chiave di integrare e chiarire la portata di questo concetto, sono andate consolidandosi due differenti letture della disposizione, una più rigida ed una più flessibile.
Il filone giurisprudenziale che ha abbracciato la lettura rigida dell’equivalenza si basava su una concezione statica della professionalità del lavoratore, e riteneva equivalenti due tipi di mansioni in presenza di un duplice requisito, quello formale (od oggettivo), per cui era necessario che queste fossero collocate dal contratto collettivo nel medesimo livello di classificazione70, e quello sostanziale (o soggettivo), secondo cui le nuove mansioni dovevano consentire al lavoratore l’utilizzo del corredo di nozioni, di esperienza e di perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto71.
Quanto alla riconducibilità al livello di inquadramento era condizione necessaria ma da sola non sufficiente per garantire l’equivalenza tra mansioni, doveva esservi anche la tutela specifica della professionalità
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M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, mutamento di mansioni e trasferimento, Giuffrè Editore, 1997, p.134.
69
M. BROLLO, Disciplina delle mansioni (art.3), in Commento al d.lgs. 15 giugno 2015 n.81: le tipologie contrattuali e lo ius variandi (a cura di) F. Carinci; in ADAPT Univesity Press, 2015, p.51.
70
Ad es.: Cass. 24 giugno 2013, n.15679, in Riv. giur. lav., 2013; Cass. Sez. Un. 24 novembre 2006, n.25033, in Mass. giur. lav., 2007.
71
C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli Editore, 2015, p.16.
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acquisita, se invece le mansioni di destinazione già non erano riconducibili alla medesima categoria, fascia o area contrattuale si era in presenza di una violazione della norma.
I due requisiti indicati erano spesso integrati dalla giurisprudenza con altri parametri, a cui non sempre veniva dato lo stesso peso, ma con l’obiettivo costante di tutelare la posizione professionale raggiunta dal lavoratore; tra questi sono stati presi in considerazione la posizione gerarchica raggiunta nell’organizzazione aziendale, l’autonomia decisionale, la responsabilità, la discrezionalità, il potere autoritativo, la possibilità di sviluppo di carriera, di crescita personale, ecc.
Tali parametri, in aggiunta alla concezione della professionalità in senso statico, irrigidirono notevolmente il concetto di equivalenza, restringendo i casi di mobilità orizzontale. Se da una parte si poteva anche riconoscere la matrice garantistica della norma, dall’altra questo rischiava di divenire un problema in un ambiente di lavoro in crisi ed in trasformazione, impedendo al datore di lavoro un impiego flessibile dei lavoratori per adattarli alle mutevoli esigenze aziendali72.
A partire dagli anni ottanta iniziano a maturare interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali che cercano di discostarsi da questa visione, nel tentativo di favorire la flessibilità gestionale, aggiornando e rendendo più elastico il concetto di equivalenza, mettendo in evidenza un nuovo modo di guardare alla professionalità, ovvero al futuro piuttosto che al passato, nella consapevolezza che la precedente visuale può danneggiare il singolo lavoratore.
In dottrina vengono intraprese strade tra loro differenti, che possono essere ricondotte a tre posizioni. La prima tesi afferma l’esistenza di una pluralità di concetti equivalenza73, in relazione ai tipi di spostamenti (definitivi o temporanei, unilaterali o bilaterali), per cui si avrà una
72
Cfr. M. BROLLO, op. cit., p.53.
73
Cfr. F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli Editore, 1982, p.169 ss.
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nozione ristretta ad esempio nel caso di modifica unilaterale definitiva, una già più ampia nel caso questa sia temporanea, e la nozione più ampia di equivalenza nell’ipotesi di modifica consensuale temporanea, dando così la possibilità al lavoratore, con il proprio consenso di allargare l’area della mobilità orizzontale. Tale tesi però è stata criticata in quanto non trova riferimenti nella disciplina legislativa e per il suo essere troppo creativa.
Segue dunque l’interpretazione che valorizza la posizione professionale complessiva74, effettuando un bilanciamento di valori tra lesioni alla professionalità già acquisita e pregressa e i vantaggi derivanti dal miglioramento professionale che conseguirà all’adibizione alle nuove mansioni. Il problema di questa tesi è innanzitutto la difficoltà di svolgere questo giudizio di comparazione ai fini della valutazione dell’equivalenza, in secondo luogo questo potrebbe portare a mutamenti di mansioni che danneggiano il nucleo essenziale della professionalità del lavoratore.
Il terzo filone dottrinale da analizzare da rilievo alla formazione e alla riqualificazione del lavoratore e considera la professionalità come un bene mutevole che deve seguire i cambiamenti strutturali dell’impresa, lo fa attraverso il concetto di “capacità potenziale”, inteso quale astratta idoneità tecnico professionale del dipendente, ovvero quale bagaglio di conoscenze polifunzionali utilizzabili in aree lavorative diverse75, in una tale prospettiva di tutela dinamica delle competenze assumeva dunque grande rilievo la formazione e la riqualificazione dei lavoratori.
La giurisprudenza, dal canto suo, si è mostrata più incerta rispetto alla dottrina nel seguire la strada dell’interpretazione flessibile del concetto
74
Cfr. R. DE LUCA TAMAJO e F. BIANCHI D’URSO, La mobilità professionale dei lavoratori, in Lav. dir., 1990, p.243; F. BIANCHI D’URSO, La mobilità orizzontale e l’equivalenza delle mansioni, in dir. lav. rel. ind., 1987, I, p.128 ss.; M. DELL’OLIO, L’oggetto e la sede della prestazione di lavoro, in Tratt. dir. priv. Diretto da P. Rescigno, XV, I, Torino, 1986, p.512; M. D’ANTONA, Le nozioni giuridiche della retribuzione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1984, p.300.
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discusso, rischiando in alcuni momenti anche di arretrare alla concezione precedente.
La Suprema Corte infatti, in una rilevante sentenza76 del 1985, anziché seguire le tesi che valorizza il profilo soggettivo (l’ultima sopra esaminata), valuta l’equivalenza tra mansioni sotto quello oggettivo, basandosi sul criterio del livello d’inquadramento negoziale, e giungendo a ritenere legittimi i passaggi tra mansioni collocate nell’ambito del medesimo livello; viene così valorizzato anche il ruolo dell’autonomia collettiva.
Dopo questo tentativo della Corte di Cassazione la giurisprudenza torna sui suoi passi, limitandosi in alcuni casi a non prendere in considerazione taluni parametri ai fini del giudizio di equivalenza77 (quale ad esempio il potere di sorveglianza su altri operatori), in altri addirittura basandosi su una nozione di tale termine ancorata al bagaglio di esperienze e conoscenze pregresse78, per poi successivamente imboccare la strada della creazione di eccezioni al divieto di patti contrari sancito nello stesso art. 2103 cod. civ., rischiando così di far saltare il carattere vincolante della norma.
Solo in tempi moderni, a seguito di un sentenza del 2006, la n. 25033, la giurisprudenza in maniera innovativa ha guardato alla professionalità nella sua dimensione dinamica, riconoscendo alla contrattazione collettiva un ruolo fondamentale, data la possibilità di introdurre clausole di fungibilità e meccanismi di rotazione, idonei ad adibire il lavoratore a mansioni appartenenti alla medesima area contrattuale, quindi professionalmente equivalenti79. Includendo dunque tra le mansioni contrattuali tutte quelle rientranti nell’area della professionalità potenziale.
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Cass., 16 ottobre 1985, n. 5098, in Giur. it., 1987, I, 1.
77
Ad es. Cass., 13 novembre 1991, n. 12088, in dir. lav. 1992, II, p.412.
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Ad es. Cass., 4 ottobre 1995, n, 10405, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p.578.
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Dal tempo dell’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori la giurisprudenza ha dato il via ad un susseguirsi di decisioni che non hanno mai seguito una linea unitaria, ma che anzi hanno contribuito al crearsi di una situazione di incertezza del diritto, che è venuta meno solamente a seguito della riformulazione dell’art. 2103 cod. civ. ad opera del Jobs Act.