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2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.1 VITA ETERNA

2.1.4 LA DISTANZA UMANA

Facciamo a questo punto un breve riassunto del percorso svolto fin qui. Il cammino che stiamo seguendo ci deve portare a rintracciare nel pensiero dei nostri autori la presenza di alcune “figure del’umano” prese come momenti esemplari per mostrare la distanza che caratteriz- za l’esperienza dell’uomo, la sua particolare modalità di stare al mon- do.

L’esperienza in generale, come abbiamo visto nel primo capi- tolo, l’esperienza cioè “idealmente” valida per qualsiasi essere vivente, e non solo vivente, accade per Sini a distanza, una distanza declinabile in diversi momenti, tutti co-originari tra loro, vale a dire pratica, corpo, evento, segno, tutte figure della stessa distanza-evento, della distanza tra evento e significato. Questi momenti si rimandano l’un l’altro e diven- ta pressoché impossibile spiegare in modo esauriente ognuno di essi senza chiamare in causa tutti gli altri. Alla fine del primo capitolo è sorta però l’esigenza di mostrare come tutte queste figure della distan- za-evento dipendano, in un certo modo, da una forma di distanza a noi più vicina, e cioè la distanza che abbiamo chiamato “umana” (la distanza-significato, la distanza tra soggetto e oggetto sconosciuta al vivente della vita eterna), la distanza della nostra monade di uomini “razionali” e “intelligenti”, distanza che esige peraltro una messa in questione proprio della nostra presunta ragione, del nostro Logos e della sua pretesa universalità; distanza che affonda le radici in rivela- zioni di mondo più arcaiche e originarie, eppure allo stesso modo (e anzi in senso “genetico” forse ancor di più) umane del nostro tutto sommato ristretto, e limitato nel tempo e nello spazio, concetto di ra- gione. Nietzsche, nell’omonimo e celebre passo di Umano troppo uma-

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no, parlava a proposito di «difetto ereditario dei filosofi»60 per indicare quella che lui riteneva la «mancanza di senso storico»61 tipica di molti sapienti: abbagliati dall’immagine corrente dell’essere umano, essi ne fanno una «aeterna veritas»62, una verità universale; incapaci di guardare alla mille diverse forme di uomo esistite in precedenza, essi credono che l’uomo, così come sono abituati a vederlo nel contesto del loro tempo e della loro cultura, coincida con “l’uomo in sé”, dotato per na- tura, di ragione, animale razionale concepito a immagine e somiglianza di Dio, signore della terra, collocata al centro dell’universo.

Attraverso l’analisi del sapere della morte come momento fondamentale del sorgere della prima forma di distanza umana, abbia- mo visto come Sini e Vitiello si distacchino da quell’immagine ideale e astratta dell’uomo che tanto peso e tanta influenza ha avuto sulla no- stra cultura. Abbiamo iniziato a guardare l’uomo, direbbe sempre Nie- tzsche, come un divenuto, come il risultato di alcune esperienze che ne hanno modificato notevolmente il comportamento, fino a portarlo a quel salto fondamentale, a quella frattura originaria che lo ha condotto fuori dall’anonimia della vita eterna per collocarlo nell’universo della morte, dell’intersoggettività, del sapere. Abbiamo poi cercato di com- prendere più a fondo in che modo, secondo Sini, attraverso il nome, e cioè attraverso la parola, si siano messi in moto i passaggi evocati qui sopra, strettamente collegati tra loro e impensabili separatamente. L’uomo sa di dover morire, giunge a consapevolezza del proprio de- stino mortale grazie alla capacità di vedere la differenza tra cadavere e nome, aperta per lui da quella stessa parola che rende possibile la condivisione intersoggettiva di questo straordinario, primordiale e an- gosciante sapere. La parola (e cioè la voce già divenuta significativa) ha natura essenzialmente pubblica, risuona “da fuori” e “per tutti”, crean- do per la prima volta “i tutti” e, per differenza, l’“Io”, quell’io che pe- rò è tale solo per tutti, ed è già, fin da subito e in modo radicale, un Noi. L’“Io” nominato attraverso la parola è, in altri termini, l’io della cultura e dell’educazione63, nel senso letterale dell’e-ducere, del “tirare fuori” dal crogiolo di impulsi della fremente64 vita vivente senza no- me, un “soggetto” che è quel che è solo in virtù delle “risposte inter- soggettive” che lo configurano come tale, riconoscendolo, e per le quali dovrà abbandonare molti degli impulsi e dei comportamenti prece- denti, dovrà appunto, come si dice, essere educato. Dovrà in altre paro- le imparare a comportarsi, nel senso letterale del «sapersi portare- con», ovvero «tenersi insieme nell’intersoggettività», saper stare con gli altri, imparando a corrispondere alle attese dello «sguardo pubblico del soggetto universale»65.

La radice dell’intersoggettività, come abbiamo visto, è perciò, nei nostri autori, di natura patica, legata alla condivisione del pathos dell’angoscia originaria, esperienza che ci unifica come comunità umana

60 F. Nietzsche, Umano troppo umano, trad. it, Adelphi, Milano 2002, p. 16. 61 Ibidem.

62 Ibidem.

63 Ovvero l’“Io pubblico”, diverso dall’“io privato” di cui parla Sini in SP, p. 60. 64 Cfr. E6, p. 70.

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perché capace di seppellire il cadavere, di ricordare i morti nelle pre- ghiere, di celebrare il culto degli antenati invocando la loro protezio- ne.

La prima forma di distanza umana, rispetto ad ogni altra forma di vita, è perciò nell’ottica di Vitiello e Sini il sapere della morte, igno- to all’animale, all’animale che non muore, ma solo finisce. La distanza della morte è la distanza del nome, come abbiamo visto, e cioè la di- stanza della voce, della parola, del linguaggio. Il mondo, di fronte all’uomo, si trova dunque innanzitutto distante una parola; quando dico “bosco” o “fontana”, diceva Heidegger, dico già parole, dico già un’esperienza tradotta in un significato linguistico, perciò incontro anche e soprattutto il ‘bosco’ quando entro in un bosco e la ‘fontana’ quando mi disseto in una fontana. Il linguaggio, spesso ricorda Sini, non è un vetro terso che ci consegna la “vera” immagine del mondo, ri- specchiando in modo neutro e distaccato la realtà, ma influisce pro- fondamente sull’esperienza che noi abbiamo del mondo stesso, modi- ficandola. In base al percorso affrontato nel primo capitolo, sappiamo già che per Sini nessuna cosa ha la caratteristica di questo immagina- rio vetro terso, dal momento che non esiste un’esperienza in sé vera, reale, oggettiva e universale del mondo. Incontriamo sempre prospet- tive di mondo, ritagli di mondo configurati a immagine e somiglianza dei supporti che continuamente ci sorreggono, plasmando l’immagine della realtà, o meglio e più semplicemente, plasmando la realtà, non essendoci per Sini altra realtà al di fuori, oltre, prima o al di là delle sue immagini. Dire “immagini” della realtà può infatti essere fuorvian- te, così come parlare di prospettiva, di monade etc., perché può dare l’illusione che esista un mondo vero, fatalmente irraggiungibile dalle limitate facoltà conoscitive dell’uomo, le quali si devono accontentare di conoscerlo attraverso le sue immagini, le sue prospettive. Il mondo però, come sappiamo, non è altro dal suo accadere in prospettiva (è l’evento di un significato), dal suo costituirsi come figura di una mo- nade, delineando, per rimbalzo, i contorni della monade stessa.

Abbiamo iniziato a vedere come attraverso la parola una nuo- va prospettiva di mondo si configuri, secondo Sini, di fronte ai nostri occhi; la parola modifica l’esperienza, il ‘bosco’ diventa altro dal bosco incontrato dai suoi numerosi abitanti animali in cerca di cibo. Solo ora il bosco diventa propriamente il ‘bosco’. Siamo di fronte alla prima, grande, trasformazione inaugurata dalla parola, che fa misteriosamen- te apparire “cose” dove prima non c’erano. Questo straordinario po- tere della parola induce l’uomo a “credere” nell’esistenza di quelle “cose” che le parole nominano:

Proprio parlando l’essere umano è immemore di praticare il mondo tramite la pratica di parola, poiché proprio tale pratica, nella universale traduzione dei segni del linguaggio di tutti gli oggetti esperibili e di tutte le altre prati- che di mondo che la caratterizza, gli si sottrae, facendo ambiguamente uno con le cose.

L’effetto di questo oblio si traduce in ciò: che la pratica di parola riflette insensibilmente indietro di suoi oggetti o significati linguistici, illu- dendoci che essi designino direttamente delle supposte “cose reali”, essenti

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nel modo stesso in cui le diciamo. È così che dietro la parola ‘mare’ ovvia- mente per noi c’è “il mare”, dietro la parola ‘casa’, la “casa” e così via66.

Quello che Sini critica in questo passo, è la convinzione, radi- cata nel senso comune, che dietro alle parole ci siano le “cose” che le parole nominano; detto così sembra a prima vista assurdo: forse che dietro la parola ‘mare’ non c’è effettivamente il mare, con le onde, le navi, i pesci e tutto il resto? Quello che noi possiamo vedere di fronte ai nostri occhi, quando siamo comodamente sdraiati sulla spiaggia a prendere il sole, è a tutti gli effetti “il mare”, ed esso se ne starebbe lì, tale e quale, anche indipendentemente dalla parola che lo nomina, senza bisogno alcuno di essa per poter esistere come ‘mare’. Il mon- do, così ragioniamo comunemente tutti noi, esiste prima e oltre la paro- la che lo dice, e non è certo la parola ad avere il “potere” di farlo e- mergere. Pensiamo alla vastissima storia del pianeta terra, così come a tutti noi è capitato che ci venisse raccontata da qualche documentario scientifico: vulcani, terremoti, maree, dinosauri, glaciazioni, sono tutte “cose” esistite ben prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla ter- ra, e con esso la parola in grado di nominare queste e altre innumere- voli esperienze, senza avere bisogno della parola per poter essere, come scrive Sini, «cose reali» accanto a tante altre.

Tutto questo, stiamo dicendo, ci sembra a prima vista eviden- te, così come ci sembra altrettanto insensata l’obiezione di Sini che vuole dimostrare l’inesistenza di “cose” dietro alle parole. Ad uno sguardo filosoficamente e genealogicamente più attento però, questa nostra radicata convinzione inizia per Sini a scricchiolare. Affrontia- mo ora tale argomento attraverso un percorso che ci condurrà ad ap- profondire la prima figura della distanza umana, la distanza, come ab- biamo visto, del sapere, del linguaggio, della parola, mostrando quali conseguenze si dischiudano di fronte agli occhi dell’uomo parlante e perciò sapiente del suo (e degli altri) destino mortale.

Tale percorso è articolato nei seguenti passaggi: 1) Il potere creativo della parola.

2) La differenza tra essere e avere. 3) La differenza tra impulso e desiderio. 4) L’esperienza del sacro.

66 E3, p. 34.

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