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2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.3 LOGOS

2.3.3 IL MONDO DELLA FILOSOFIA

Ricapitoliamo brevemente il percorso svolto in questo paragrafo: era- vamo partiti chiedendoci quale legame sussiste per Sini tra un muta- mento di carattere formale (il passaggio dall’oralità alla scrittura alfa- betica) e uno di carattere contenutistico (il passaggio dal mythos al lo- gos); attraverso le analisi della diversa posizione del fruitore della paro- la orale e della parola scritta (e scritta alfabeticamente), abbiamo via via delineato un percorso che ci ha illustrato in che modo, grazie ad alcune caratteristiche strutturali della scrittura alfabetica, emerga in- nanzitutto la differenza tra forma e contenuto.

Ciò che è emerso, in particolare, è l’insignificanza della forma rispetto al contenuto, del segno rispetto al significato trasmesso, del “corpo” della parola parlata o scritta rispetto al suo “spirito”, al valore universale veicolato. Solo così, in virtù del reciproco emergere di un elemento (insignificante) in relazione all’altro (universalmente signifi- cativo), possiamo porre domande come quella iniziale. Chiedendoci infatti il legame tra un mutamento contenutistico e un mutamento formale già presupponevamo, ma ce ne rendiamo conto solamente ora, l’insignificanza del secondo rispetto al primo. La domanda, in al- tre parole, ci sembrava sensata, e di difficile risoluzione, abituati come siamo a distinguere nettamente forma e contenuto, e a non vedere al- cun legame tra questi due elementi. Il percorso iniziato per rispondere alla domanda ci ha però mostrato proprio il contrario, ovvero l’influenza decisiva da parte della forma nel determinare il contenuto; la forma ha dunque assunto l’aspetto di un vetro opaco, anche e soprat- tutto dove questo vetro opaco ha vestito paradossalmente le sem- bianze del vetro terso e trasparente.

La forma, il supporto, il mezzo, sono elementi che per Sini in- fluiscono profondamente su ciò che per loro tramite viene trasmesso, veicolato, iscritto; così accade per la scrittura, che, distanziando i si- gnificati, prima solamente agiti, attraverso la loro iscrizione su di un supporto in re che determina il loro prender corpo come significati saputi, compie un primo passo verso la rottura dell’unità arcaica e primordia- le, mostrata da Vitiello, di parola/gesto e cosa, di phoné kai schèma. L’incanto patico-partecipativo dell’esperienza vivente inizia a venire meno, per poi essere rimosso ancor più radicalmente con l’avvento dell’alfabeto e dei suoi segni ideali, astratti e convenzionali. Il terreno per lo sviluppo di una soggettività critica e distanziata, volta alla con- templazione/ricerca (e poi trasferimento performativo nel mondo) dell’universale, della verità in sé del concetto, è pienamente preparato.

La scrittura perciò, e in particolar modo la scrittura alfabetica, rappresenta il secondo livello della distanza-significato del nostro per- corso, promuovendo il passaggio dai due aspetti, e cioè distanza incol- mabile e distanza sacrale, della distanza-significato di primo livello (la di- stanza della parola) ai due aspetti inerenti al secondo livello, vale a dire distanza universale e distanza critica.

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I vari livelli della distanza-significato, teniamolo sempre pre- sente, si riferiscono alla distanza tra soggetto e oggetto, diversamente con- figurata a seconda del livello in questione.

Mentre le varie figure della distanza-evento rappresentano declinazioni co-originarie della differenza tra evento e significato, tra l’accadere della prassi e i suoi contenuti, i vari livelli della distanza-significato guardano direttamente all’interno di alcune pratiche, tipicamente u- mane, nelle quali si produce un distanziamento tra soggetto e oggetto sconosciuto al “livello zero” della distanza, quello della vita eterna. Il primo distanziamento, prodotto dalla pratica di parola, è quello, come abbiamo visto, dell’oggetto che si fa assente, si trasferisce nell’oltre generalizzato del concetto (distanza incolmabile). Tale oggetto però, in virtù del carattere iconico, sensuale e raffigurativo della parola orale (e delle scritture prealfabetiche), responsabile di una civiltà patico- partecipativa, immersa nell’unità di to pragma che non conosce piena distinzione tra uomo e mondo, segno e significato, forma e contenu- to, rimane ancora “in prossimità” del soggetto, legato ad esso nel se- gno della ierofania e della duplicità di sacrilegio e sacrificio (distanza sa- crale), fenomeni aperti dalla “visione della morte” e conservati dalle particolarità della parola orale che abbiamo brevemente riassunto. Con la scrittura invece l’oggetto/significato viene reificato nel suppor- to materiale dello scritto (distanza universale), saputo e non più sempli- cemente agito: la distanza incolmabile prende corpo e diviene effettiva- mente tale; inoltre, con l’avvento della scrittura alfabetica e delle sue caratteristiche tecniche, responsabili della rottura dell’incanto patico- partecipativo tipico delle culture orali, avviene un ulteriore potenzia- mento di questa distanza universale, nonché un sempre maggiore di- stanziamento dai contenuti della tradizione (distanza critica).

La filosofia greca, culla di saperi e pratiche prima sconosciute, come la storia, la democrazia, la morale e, in epoca successiva, la scienza e la tecnica, affonda le sue radici in questo terreno, dando così un’impronta significativa a tutto il successivo cammino della civiltà occidentale.

Ripercorriamo ora, attraverso la riflessione di Vitiello, proprio alcune “figure” della sapienza greca delle origini, le quali assumono per noi il compito di riassumere idealmente il percorso svolto, deline- ando in anticipo anche alcuni importanti snodi successivi. La civiltà greca, che diede i natali all’alfabeto, fu infatti protagonista dei primi effetti di questo stupefacente strumento; abbiamo già visto la svolta radicale insita nel domandare socratico, sconosciuto alla tradizione e non a caso (e forse non senza alcune precise e comprensibili ragioni) tacciato di asébeia, di empietà.

Il gesto socratico infatti, rievocato nei dialoghi platonici, fu senza’altro un gesto che rimosse d’un colpo tutto il sapere mitico- sacrale, fondato sulla polymathia dei casi particolari e sulla fedeltà “memoriale” alla tradizione; la parola “alfabetica” di Socrate, come sappiamo, è l’esatto contrario: ricerca dell’universale della definizione attraverso l’argomentazione razionale, attraverso l’utilizzo di un logos intersoggettivo che si manifesta nel dialogo. Ripercorriamo allora ide- almente questo percorso attraverso le tre figure che Vitiello presenta:

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il sophos, il philo-sophos e il sofista. Secondo Vitiello, come sottolinea Re- daelli, la filosofia «sorge sul terreno già frequentato e abitato dai So- phoi»169, espressione con la quale Vitiello indica il sapere presocratico, di Eraclito e Parmenide in particolare; si tratta di un giudizio condivi- so anche da Sini, secondo il quale «la filosofia si instaura come gesto secondo, che presuppone il gesto primo della sapienza presocrati- ca»170, e dunque è possibile affermare che «l’origine della filosofia poggia su due piedi: la sofia presocratica e la filosofica socratica»171.

Per entrambi gli autori il riferimento a Socrate è di importanza decisiva. Nell’Introduzione di Filosofia Teoretica, testo a cui facciamo riferimento per descrivere il delinearsi delle tre figure citate nella ri- flessione di Vitiello, è appunto Socrate la figura decisiva che segna il passaggio dal sophos al philo-sophos; tutti gli esempi citati, tutti i “raccon- ti”172 riportati da Vitiello con l’intenzione di segnalare alcuni momenti dei dialoghi platonici che incarnano meglio di altri la novità rappre- sentata dalla filosofia socratica rispetto alla tradizione, mostrano l’incontro-scontro tra Socrate e alcuni personaggi assunti ad exempla del mondo mitico-sacrale rimosso dal gesto socratico. In questo senso allora, Socrate è per Vitiello il primo philo-sophos, distinto nettamente dalla sapienza dei sophoi che pure rappresenta una premessa importan- te del suo filosofare. Come scrive Sini, riferendosi ai sapienti preso- cratici, «nessuno di loro è il filosofo; questa attribuzione spetta solo a Socrate»173, ed è in questo senso molto indicativo il fatto che «non ab- biamo trovato di meglio, per definire i primi sapienti, che riferirli a Socrate»174, quasi si nascondesse dietro questo gesto la consapevolezza dell’assoluta novità e radicalità di Socrate rispetto alla tradizione. Il fi- losofo che si differenzia in modo netto dai sapienti, dunque. Ma pri- ma di analizzare le differenze, soffermiamoci sugli aspetti che acco- munano philo-sophos e sophos.

Quest’ultimo infatti non va confuso con un esponente del mondo mitico-sacrale delle origini, con un fruitore della parola orale immerso nel pathos del racconto e nella ripetizione memoriale della tradizione. Egli ha sì ancora molti elementi in comune con questo mondo (in caso contrario coinciderebbe con il filosofo), ma incarna una differenza fondamentale rispetto ad esso, condivisa anche dal fi- losofo, ossia il rifiuto della polymathia. Con questo termine, ripreso da Eraclito, Vitiello intende descrivere le caratteristiche di «un sapere molteplice, privo di un’interna, necessaria unità; una mera raccolta di casi particolari, assunti come modelli ideali solo in quanto attribuiti a potenze superiori, agli dei, appunto, il cui potere è garanzia di giusti- zia»175. Si tratta, come abbiamo visto in Sini, del sapere particolare ti- pico delle civiltà orali e prealfabetiche. Ignare della riconduzione ad

169 E. Redaelli, Il nodo dei nodi. L’esercizio del pensiero in Vattimo, Vitiello, Sini, ETS, Pisa

2008, p. 133; d’ora in avanti NN. 170 TP, p. 15. 171 Ibidem. 172 Cfr. FT, pp. 5-21. 173 TP, p. 15. 174 Ibidem. 175 FT, p. 6.

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“unità” possibile grazie alla visione dell’universale (la casa), esse non possono che ragionare per casi concreti, trovando nessi che si fonda- no sull’unità dinamico-relazionale della prassi (sega, accetta e ceppo) e non sulla riconduzione di elementi empirici ad un contenitore univer- sale (i diversi cavalli all’idea di cavallo, direbbe Platone).

La garanzia della sopravvivenza dei loro saperi è affidata come sappiamo alla ripetizione, affinché essi non vadano perduti nell’oblio, ma vengano conservati di bocca in bocca, di rito in rito. La necessità di salvaguardare la tradizione dal rischio incombente di scomparsa non consente distanza critica rispetto ai contenuti del sapere, ma ne- cessita di immedesimazione patico-partecipativa che renda possibile la (ri)produttività della memoria orale, in base alla quale vero è ciò che vie- ne ripetuto, conservato. Vera è dunque la parola dei padri, degli dei e degli eroi, che vengono assunti a garanzia della validità del sapere tra- smesso.

Il sapere della parola orale è dunque una raccolta di casi parti- colari “invalidati” dall’autorità divina, o eroica, che presiede ad essi: “coraggioso” è così il comportamento di Odisseo, come “bella” è l’incantevole Afrodite, ma in nessun caso emerge la bellezza, o il co- raggio, concetti che gli sconcertati interlocutori di Socrate non capi- scono.

È il caso di Eutifrone, protagonista dell’omonimo dialogo ci- tato da Vitiello176, il quale di fronte alla domanda di Socrate sulla natu- ra del “santo”, risponde che «santo è ciò che è caro agli dei», elencan- do a proposito alcuni casi particolari di comportamenti ritenuti tali, tratti non a caso dall’universo del mito (tra cui Crono incatenato da Zeus e Urano evirato da Crono); allo stesso modo Cefalo e Polemar- co, personaggi che compaiono nel primo libro de La Repubblica di Pla- tone, citano rispettivamente Pindaro e Simonide per sostenere la tesi secondo la quale la giustizia consisterebbe nel «“fare il bene agli amici, e il male ai nemici”»177.

È evidente, ancora una volta, il carattere “particolare”, la pol- ymathia implicita in questa risposta, dal momento che non fornisce una definizione universale di che cosa è bene o giusto in sé, ma riman- da a casi empirici e particolari di comportamenti che possono variare a seconda di chi sono gli amici e chi i nemici, e di conseguenza di che cosa è bene o male per gli uni e per gli altri, e ancor prima di che cosa noi riteniamo che sia bene o male per i soggetti in questione. Troppi ‘per’, come si vede, che rendono la definizione di giustizia data lonta- na dall’“in sé” richiesto dalla definizione socratica.

Tutto il contesto del libro in cui si svolge la scena, come de- scritto da Vitiello, è del resto una messa in scena di modelli mitico- sacrali che il sapere di Socrate (e dunque di Platone) intende superare; ciò è evidente fin dalla presentazione del vecchio (e quindi esponente del sapere legato alla tradizione che occorre superare, in quanto espres- sione, scrive Vitiello, di «un mondo ormai alla fine»178) Cefalo, il quale

176 Cfr. FT, pp. 5-6.

177 FT, p. 16. 178 Ibidem.

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viene descritto da Socrate con parole tratte da Omero («altra traccia significativa di una distanza e di un distacco non solo temporale»179) per poi interrompere la discussione «perché deve sacrificare agli dei»180.

Tutto in Cefalo sembra dunque espressione di un universo del tutto lontano dalla filosofia socratica e platonica, ma già in parte an- che dal mondo della sapienza dei sophoi. Essi infatti, come anticipato, condividono con Socrate il rifiuto della polymathia, inseguendo anch’essi l’unità del sapere. Così nel pensiero di Eraclito, secondo il quale, scrive Vitiello, «vero sapere è quello che è sorretto da un prin- cipio interno, da un’archè, o da una Legge: il Nomos che su tutto s’impone, perché tutto raccoglie intorno a sé e sotto di sé, il Logos»181; così anche per Parmenide, il quale «criticava la sapienza “omerica” di Eutifrone, l’insania degli uomini a due teste (díkranoi) che ammetteva- no essere e non-essere e insieme li mescolavano. Anche Parmenide mirava all’unità del sapere»182.

Ciò che accomuna i sophoi presocratici alla filosofia di Socrate e Platone è dunque la ricerca dell’unità del sapere, quell’unità richiesta dalla definizione, dal ti esti, che consente il raggruppamento dei mol- teplici casi particolari sotto il denominatore comune di un eidos uni- versale. Questa unità è nominata da Eraclito ‘Logos’183, e rappresenta la Legge, il nomos che orienta e sorregge il sapere, senza del quale gli uo- mini si perdono nel mescolamento di essere e non-essere denunciato da Parmenide. In questa ricerca dell’unità Vitiello riscontra la vera ase- beia di Socrate184, la vera empietà di cui fu accusato in tribunale. Andare a caccia della definizione razionale significa infatti mettersi sulle tracce di un modello di raggiungimento del sapere che supera la verità della parola divina.

La cosa è evidente soprattutto nella già citata risposta di Euti- frone alla domanda su cosa sia santo; santo per Eutifrone è “ciò che è caro agli dei”, e andando alla ricerca di un criterio che permetta di de- finire il “santo in sé”, di trovare cioè un’identità che sia «oltre il divino stesso, più in alto di lui, se per esso comprendiamo anche gli dei e l’agire degli dei»185, Socrate compie un atto che poteva comprensibil- mente apparire come empio e sacrilego agli occhi della mentalità cor-

179 Ibidem.

180 Ibidem. 181 FT, p. 9. 182 FT, p. 10.

183 E cioè ragione: alla luce del nostro percorso significa che già Eraclito ha guadagna-

to il luogo astratto e universale del concetto, abbandonando il terreno empirico del- la molteplicità di casi ed esempi particolari.

184 Cfr. FT, p. 7.

185 FT, p, 7. Socrate infatti, di fronte alla citata risposta di Eutifrone, domanda se «il

santo è tale perché è caro agli dei, o è caro agli dei perché santo», intendendo impli- citamente alludere che la risposta giusta è la seconda. In tal caso però il concetto razionale di “santo”, l’universale “santo” raggiungo attraverso la definizione, si pone più in alto della parola e dell’esempio concreto (i singoli casi di azioni ritenute sante) degli dei. Per questo la filosofia di Socrate è per Vitiello tacciata di asébeia, di empie- tà.

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rente, come del resto potevano apparire anche i sapienti che lo hanno preceduto, ugualmente difensori dell’unità del sapere186.

In che cosa si distingue allora per Vitiello il sapere del sophos da quello del filosofo, accomunati dal medesimo rifiuto della polyma- thia mitica e dalla ricerca di un’unità logica e universale? Se per en- trambi la ricerca del sapere è fondata sul logos («ascoltano non me, ma il Logos» diceva Eraclito), ossia sull’universalità astratta e razionale del concetto, in che cosa la ragione dell’uno è diversa dalla ragione dell’altro? Ritroviamo qui alcuni problemi da cui eravamo partiti in questo capi- tolo e che avevamo lasciato in sospeso, quando ci chiedevamo come fosse possibile definire “razionali” comportamenti che poco o nulla sembravano avere in comune con il nostro concetto di ragione. La dif- ferenza tra le due ragioni (ma, torniamo a domandarci: possiamo dav- vero esprimerci così?), tra quella del sophos e quella del filosofo, dal punto di vista di Vitiello, è riassunta da Redaelli attraverso questa considerazione:

Teniamo fermo questo primo punto: la filosofia, dice Vitiello, nasce come dialogo e si distingue dalla Sophia perché porta la Verità, il Logo solitario del Sophòs, all’interno del dialogo (ed è ciò che accade letteralmente nei dialo- ghi platonici: persino Parmenide, il “più celebre ed inquietante Sophòs” co- me lo definisce Vitiello, diviene un interlocutore dia-logante e il suo Logo è trasformato, messo in scena, come un logo che assieme ad altri partecipa al dialogo)187.

Questa straordinaria rivoluzione comporta due importanti a- spetti, tra loro strettamente legati. Da un lato infatti il filosofo passa, potremmo dire, dall’ascolto alla riflessione, dall’altro invece passa dal si- lenzio al dialogo, ossia dal sapere come “segreto esoterico” al sapere come partecipazione pubblica e intersoggettiva.

Secondo Vitiello, come ricordato attraverso l’esempio della Dea del Poema di Parmenide che si rivolge al sapiente, «nell’ascoltare si esaurisce ogni funzione del sophos»188. Il suo rapporto con il logos è dunque passivo, ricettivo; egli si affida ancora all’autorità divina per dare valore alle sue parole, e non vi è dunque alcuna possibilità di contestazione, di messa in questione di una parola che è vera perché uscita direttamente dalla bocca della Dea. Con le parole del nostro percorso, potremmo dire che il sophos ha compiuto il passo verso l’universale, il logos, il concetto, verso cioè la distanza universale, ma non ancora quello verso la distanza critica pienamente sviluppata. Egli infat- ti «non interroga, e non risponde. La sua parola è la Verità. Tanto vera

186 Per Sini già alcuni sapienti presocratici, che presupponevano il mondo del sacro e

del mito, «apparvero alla coscienza comune dei dissacratori». Cfr. TP, p. 15.

187 NN, p. 134.

188 FT, p. 12. In questo Vitiello si differenzia da Sini, dal momento che identifica nel

krinai, nel «giudicare secondo ragione» invocato dalla Dea e riportato a p. 12 di FT, la pratica dell’ascolto che abbiamo appena descritto, mentre Sini considera quel kri- nai già un primo passo verso il logon didonai che caratterizza il dialogo socratico, e con esso tutta la civiltà occidentale.

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che non è neppure più sua»189, ma appartiene, come abbiamo visto, alla Dea, nel caso di Parmenide, o al logos, nel caso di Eraclito.

Il filosofo invece, cosa particolarmente evidente nel dialogare socratico, non presuppone di aver già raggiunto il terreno della verità, ma è sempre chiamato a logon didonai, a “rendere ragione” di ciò che afferma. Per questo il suo sapere si realizza nel dialogo, all’interno del quale tutti i partecipanti sono invitati a contribuire al raggiungimento della conoscenza190. Il sapiente che partecipa al dialogo è dunque colui che “sa di non sapere”, che non ha alcuna conoscenza dogmaticamen- te tenuta per buona fin dall’inizio, ma che passo passo, confutazione dopo confutazione, raggiunge il suo obiettivo seguendo le necessità dell’argomentazione razionale e non la “fede” nella verità di un’indiscussa parola divina, o di un nomos che già regola dall’alto l’andamento di tutte le cose. Utilizzando un’espressione kantiana, po- tremmo dire che nel dialogo socratico è la ragione stessa che viene sottoposta al tribunale della ragione, non essendovi infatti alcuna veri- tà, nemmeno quella eraclitea del logos unitario, già distante dalla polyma- thia del sapere mitico, che venga tenuta per buona senza prima essere sottoposta al vaglio del dialogo. In modo molto vicino Vitiello affer- ma che la peculiarità della ragione del filosofo rispetto a quella del so- phos consiste nel ripiegarsi della ragione su di sé: «È la ragione che ri-