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2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.2 MYTHOS

2.2.4 L’ESPERIENZA DEL SACRO

Siamo arrivati ad una svolta decisiva del nostro recente percorso. Do- po aver descritto, attraverso un continuo confronto con i nostri auto- ri, il legame tra parola, sapere della morte e intersoggettività, e dopo aver approfondito la funzione astraente e oggettivante del linguaggio, il magico potere della parola, attraverso il passaggio dall’essere all’avere e dall’impulso al desiderio, vediamo ora come il primo e più importante “oggetto”, l’originaria e stupefacene esperienza che si de- linea di fronte agli occhi dell’uomo giunto a consapevolezza del pro- prio destino mortale sia per Vitiello (che in questo riprende Hegel) la Vita. La vita nella sua totalità, nel suo puro fluire, si presenta dunque dinnanzi all’uomo, il quale è egli stesso vita, ma vita divenuta coscien- te di sé. Momento fondamentale dell’esperienza della vita è il sapere

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della morte, come sappiamo, o, come scrive altrove Sini, l’esser iscrit- to dell’uomo nella «consapevolezza-terrore della morte»92, fatto attra- verso il quale «l’essere umano comprende il dono della fecondità della vita e lo vive come “dono” sacro».93

Al termine di un lungo percorso costellato di figure come morte, sapere, intersoggettività, avere, colpa, desiderio, tutte intreccia- te da un sottile filo che le lega, il filo invisibile della parola e del con- cetto, vediamo ora che l’esperienza originaria e fondamentale dell’uomo sollevato all’universalità dell’autocoscienza, dell’umanità dei primordi che abbandona l’Eden dell’innocenza animale è l’esperienza del sacro.

Come descrive Sini nel passaggio appena letto e nella sua con- tinuazione, la fecondità della vita viene percepita come un dono sacro e il Dio stesso è alle origini concepito come il principio generatore della vita, incarnato in ogni possibile fonte di sopravvivenza (la Madre Terra che dona i suoi frutti, oppure gli animali). Per questo ogni sot- trazione di questi doni necessaria per la sopravvivenza viene avvertita dagli uomini come un “furto”. Tutto nel mondo sacrale delle origini è un dono del Dio-principio generatore della vita, perciò ogni gesto di appropriazione a cui non segua una restituzione per eliminare la “col- pa” del crimine è concepito come un atto inaccettabile e mostruoso (come un portare la morte senza espiare la colpa di questo terribile gesto). Ad ogni sacrilegio (appropriazione indebita del dono sacro della vita), deve seguire un sacrificio (un “fare il sacro” come sottolinea Sini), il che dimostra come questi estremi apparentemente opposti siano in realtà accomunati da un nesso profondo: c’è sacrificio solo per ripara- re al danno rappresentato dal gesto sacrilego, e placare così l’ira del Dio. Questo spiega, secondo Sini, la natura “comunitaria” di momenti come la caccia e il pasto:

L’azione comunitaria della caccia, il senso di colpa per l’uccisione perpetra- ta, accompagnata dal timore superstizioso del ritorno vendicativo dell’anima dell’animale-dio ucciso, tutta questa azione altamente drammati- ca, pericolosa e misteriosa, emozionante e angosciante, attraente e repulsi- va, si conclude e si libera nella istituzione del pasto-sacrificio comunitario, a celebrazione della vittoria ottenuta. Come sappiamo, esso identifica i membri del gruppo, li affratella come “consanguinei”, e su questa base ri- badisce a approfondisce le arcaiche gerarchie e precedenze rispetto al ci- bo94.

L’uomo dunque, come conseguenza del sapere della morte in- trodotto dalla parola, non solo si rende responsabile di “portare la morte a sé e ai suoi simili”, ma anche ad ogni creatura vivente, di cui solo ora vive l’esperienza dell’uccisione, dell’appropriazione indebita e sacrilega di un dono del Dio responsabile della fecondità della terra e della vita. Per questo è chiamato ogni volta ad espiare questa colpa of- frendo il pasto in sacrificio al Dio; egli condivide questo destino di debito, colpa ed espiazione con i membri del suo gruppo, nei momen-

92 VB, p. 61.

93 Ibidem. 94 VB, p. 67.

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ti sacri della caccia (sacrilegio) e del pasto (sacrificio). Trae le sue ori- gini in queste pratiche l’usanza di mangiare in comune, ancora diffu- sissima ai giorni nostri; ancora oggi, spesso, avvertiamo una sorta di imbarazzo e di fastidio nel mangiare da soli, soprattutto se in pubblico e osservati da altri, quasi fosse rimasta in noi l’arcaica memoria del ge- sto sacrilego che stiamo compiendo.

Più avanti95 Sini collega alla tematica del sacrificio l’usanza di riservare ogni “primizia” agli Dei: il caso più diffuso è sicuramente quello del raccolto dei campi, ma Sini ricorda situazioni ben più bruta- li ai nostri occhi, come il sacrificio del figlio Isacco richiesto da Dio ad Abramo, oppure lo jus primae noctis concepito come l’offerta della pri- mizia-vergine fanciulla al signore-dio feudale, o ancora la vergine of- ferta al Dio babilonese Marduk e condotta per lo scopo nella stanza solitaria in cima alla torre96 (di cui la Vergine Maria, scelta per dare alla luce, attraverso l’intercessione dello Spirito Santo, il figlio di Dio, rap- presenta una raffinata sublimazione97). Un altro elemento introdotto da Sini, utile per mostrare il carattere sacrale dell’esperienza originaria, è costituito dal linguaggio. Già abbiamo visto in precedenza l’attribuzione alla parola del magico potere di creare le cose, tipica di molte culture arcaiche; vediamo ora come, a giudizio di Sini, le parole stesse divengano “nomi di Dei”:

Le parole stesse, poi, i nomi, questi segni dell’assente per definizione, que- sti sigilli dell’immemorabile (della vita eterna perduta), una volta interioriz- zati si traducono facilmente in “fantasmi”, in “immagini”, cioè in allucina- zioni di potenze soprannaturali temute, sperate, invocate: il riferimento all’esperienza del sacro e al nome degli Dei, esperienza che si arricchisce di continuo di valori e di significati simbolici, rafforza e complica la cultura del gruppo98.

Non solo dunque la fecondità della vita nel suo complesso viene avvertita come un dono divino, ma anche le cose stesse, tutte le realtà nominate e invocate dal magico potere della parola si trasfor- mano, una volta interiorizzate, in nomi di immagini, di fantasmi. Sia- mo all’origine del politeismo tipico di tutte le culture antiche, quel po- liteismo in base al quale, come scriveva Nietzsche, le parole sono no- mi di Dei di cui abbiamo dimenticato l’origine divina, e sono perciò paragonabili a monete che hanno perso il loro splendore originario e le cui immagini rappresentate sono ora irriconoscibili e sbiadite.

Un altro importante tema inerente alla questione del sacro è sicuramente quello, strettamente collegato ai precedenti ed evidente soprattutto in Sini, della ierofania, della “manifestazione del sacro” che caratterizza ogni aspetto della vita quotidiana delle popolazioni primi-

95 VB, p. 73.

96 Cfr. E6, p. 34.

97 La figura della Vergine Maria come sublimazione successiva di figure arcaiche è

illustrata da Sini in E4, p. 204. In riferimento invece al rapporto che lega Maria ad Eva, rappresentato dall’inversione di EVA nel saluto AVE (Ave Maria) sia veda C. Sini, Raccontare il mondo. Filosofia e cosmologia, Jaka Book, Milano 2004, p. 148, d’ora in avanti E5 e E6 p. 90.

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tive: quella del sacro, del divino, è un’esperienza effettivamente vissuta, “empiricamente” presente e constatabile per queste popolazioni nella loro vita di tutti i giorni. Non si tratta, in altre parole, di un’esperienza di carattere “religioso” che richiederebbe una “fede” nell’esistenza del Dio, qualche “dogma” che si tratterebbe di accettare, o dei “misteri” cui bisognerebbe ciecamente credere. Il divino è effettivamente pre- sente ed esperibile per tutti, dal momento che ogni cosa viene incon- trata e avvertita come sacra. Non esistono dunque né “spirito critico” né “scetticismo”, ma questo non perché siano tutti ciecamente dog- matici e superstiziosi, ma perché la presenza del sacro e del divino è un’evidenza che nessuno si sognerebbe di mettere in discussione, così come oggi nessuno contesterebbe l’esistenza delle verità scoperte e descritte dalla scienza99.

L’esperienza del sacro, dunque, rappresenta un elemento fon- damentale dell’umanità primordiale. Tale umanità, attraverso la parola, ha visto la morte, collocando gli oggetti nell’oltre di una distanza in- colmabile che è all’origine del loro destino mortale. Il senso di colpa e di angoscia che accompagna l’uomo, colui che si avverte come re- sponsabile di questo gesto sacrilego, va di pari passo con l’esperienza della sacralità del mondo circostante, da cui l’uomo si è “peccamino- samente” distaccato (è stato cacciato dal paradiso terrestre), sacralità continuamente “violata” in ogni gesto di appropriazione, cioè, po- tremmo dire, in ogni pratica.

Ogni circolo impulso-soddisfazione, come quelli descritti negli esempi precedenti, cessa di essere meramente agito per diventare sapu- to. Tutto quanto l’animale fa con beata inconsapevolezza e senza av- vertire minimamente nulla di “strano” o di “proibito” viene invece sentito dall’uomo (il peccatore per eccellenza, colui che ha condotto se stesso, i suoi simili e la natura circostante nel destino di morte cau- sato dalla parola e dal sapere mortifero ad essa collegato) come una sottrazione dei sacri doni vitali.

Ogni cosa viene esperita come una “proprietà” del Dio sacri- legamente trafugata (portata alla morte attraverso la parola), che ne- cessità perciò di una restituzione attraverso il sacrificio.

Viene a questo punto spontaneo domandarsi: come è possibile per la storia dell’umanità giungere ad un’esperienza del mondo di ca- rattere logico-razionale? Come accade che il divino un poco alla volta abbandoni l’evidenza dell’esperienza quotidiana per collocarsi nel re- gno dei cieli, nell’iperuranio, o in chissà quali altri luoghi in ogni caso incarnazione di un oltre che richiede fede e non semplicemente consta- tazione dell’empiricamente presente, per potere essere visto e per po- terne fare esperienza? In che modo le parole cessano di essere “nomi di Dei” per indicare mere “cose”, meri “oggetti”? La risposta che i nostri autori danno a queste domande ci introdurrà nel secondo dei nostri livelli della distanza umana, della distanza-significato.

Il primo livello, come abbiamo ampiamente visto, riguarda la distanza tra soggetto e oggetto prodotta dalla pratica di parola, carat- teristica di tutte le culture umane primordiali e capace di innescare fe-

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nomeni strettamente connessi quali il sapere della morte, l’intersoggettività, l’angoscia, il senso di colpa, l’esperienza del sacro. Questo circolo di eventi fondamentali e vicendevolmente intrecciati ci conduce verso una conclusione in un certo senso riassuntiva di tutto il senso del primo livello della distanza-significato fin’ora preso in esa- me: se da un lato la pratica di parola produce quella distanza incolma- bile che rende l’oggetto del parlare strutturalmente assente, collocato nell’oltre generalizzato, a distanza di un’impossibile esaustiva rispo- sta/corrisposta da parte del soggetto parlante, dall’altro lato, aprendo contemporaneamente all’esperienza sacrale dell’umanità delle origini, fa sì che il soggetto rimanga, per così dire, “in prossimità” degli ogget- ti nominati (i quali, ricordiamo, portano il nome di Dei), legato ad essi dal problematico rapporto tra sacrilegio e sacrificio. L’uomo, in altre parole, “abita” in prossimità degli Dei, essendo ogni cosa una ierofania, una rivelazione sacrale, una manifestazione del divino. La sua situa- zione, potremmo dire, ricorda molto quella della quadratura heidegge- riana, figura che mostra il reciproco rimando tra terra e cielo, tra divi- ni e mortali. Il primo livello della distanza-significato, di conseguenza, preso nel suo momento sorgivo, in prossimità con la frattura, con il salto che caratterizza l’umanità originaria, fa sì che il soggetto, distan- ziato dall’oggetto a partire dalla nominazione, aneli a ricomporre que- sta distanza (espiando la colpa per il suo sacrilegio).

Il percorso successivo, tentando di rispondere alla domanda che si poneva il problema di capire come si passa da questa umanità mitico-sacrale all’umanità logico-razionale che ancora caratterizza in larga parte l’epoca a noi contemporanea, ci condurrà dunque verso un nuovo livello della distanza-significato. L’elemento guida, come sap- piamo, resta sempre il medesimo (la distanza del soggetto dall’oggetto). Cambia invece, attraverso i vari livelli, il “senso” di que- sto distanziamento (quale genere di distanza rispetto all’oggetto viene effettivamente esperita dal soggetto), che in questo primo livello ha assunto un duplice significato così definitivamente riassumibile: da un lato abbiamo visto la distanza incolmabile in quanto caratteristica strut- turale dell’oggetto-assente prodotto dal linguaggio; dall’altro abbiamo visto quella che potremmo chiamare la distanza sacrale, diretta conse- guenza del circolo di fenomeni prodotti dal sapere mortifero introdot- to dalla parola nelle umanità primitive (sapere della morte, senso di colpa, angoscia, intersoggettività, ierofania), distanza che, paradossal- mente, anela a ricomporre, attraverso il duplice nesso sacrilegio- sacrificio, la distanza incolmabile, pur avendo in comune con essa la me- desima causa (la pratica di parola).

Il cammino successivo mostra come il secondo livello della di- stanza-significato preso in esame modifichi fortemente sia il senso della distanza incolmabile, sia quello della distanza sacrale, visti come a- spetti collegati della pratica di parola, primo livello della distanza- significato analizzato. Prima di fare i conti con queste modifiche, tor- niamo ad interrogare i nostri autori, cercando una risposta alla do- manda che si poneva il problema di capire in che modo e perché l’umanità perda progressivamente l’esperienza del sacro.

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