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2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.4 MATHEMA

2.4.1 PARTICOLARE E UNIVERSALE

Il livello della distanza-significato che si è delineato nel corso dell’ultimo paragrafo, attraverso il percorso comune condotto da Sini e Vitiello, è stato quello della scrittura. In esso abbiamo visto il sorge- re di una distanza critica sconosciuta alla tradizione: il salto dal mythos al logos, dalla parola incantata degli aedi e dei rapsodi alla parola razionale della dimostrazione logica e del dialogare socratico, ci ha inoltre con- dotto di fronte a ciò che in nessun modo sarebbe potuto apparire agli occhi (e soprattutto agli orecchi) del fruitore della parola orale delle origini, immerso nel pathos e nella partecipazione dell’ascolto. Stiamo parlando del ti esti, del concetto, dell’eidos, della distanza universale che gli sconcertati interlocutori dei dialoghi socratici in nessun modo po- tevano avvistare.

È stato possibile comprendere in che modo secondo Sini la “visione”208 di queste distanze sia frutto della scrittura, e in particolare della pratica alfabetica, il cui più importante e stupefacente effetto consiste nella retrocessione nell’insignificanza della materialità del se- gno e del supporto. Abbandonando la compromissione con la parti- colarità sensibile delle sue innumerevoli pratiche, il fruitore della paro- la alfabetica mira ora a collocarsi criticamente nel luogo astratto e uni- versale del concetto. Storia, filosofia e scienza, discipline che sono di- rettamente frutto di questa rivoluzione, ambiscono a tradurre l’innumerevole e cangiante concatenazione di eventi delle prassi quo- tidiane nella panoramicità del loro punto di vista. Esse intendono de- scrivere come sono andate, come vanno, e come andranno (seppur attraverso previsioni riconosciute come probabili, fallibili, falsificabili) le vicende, umane e naturali, del mondo, e vogliono farlo parlando co- me se il loro punto di vista fosse quello, riprendendo un espressione di Severino Boezio, di un eterno presente in grado di osservare “dall’alto” e “dal di fuori”, «comodamente seduto su di uno sgabello metafisico», come scrive Sini, l’andamento dei “fatti”. Il punto di vista che queste discipline mirano ad assumere è dunque quello di un occhio esterno ed oggettivo, paragonabile in questo senso a quello di Dio, che tutto

207 Prima di vedere in dettaglio il modo in cui Sini e Vitiello trattano di questo nuo-

vo livello della distanza-significato, ho ritenuto significativo mostrare in questa se- zione alcune conseguenze inerenti alla diffusione della mentalità logico-filosofica nel pensiero occidentale. Attraverso l’aiuto di alcune riflessioni svolte da Sini in Teoria e Pratica del foglio mondo, ma anche ispirandomi a molte delle lezioni universitarie, non- ché al recupero personale di alcune tematiche platoniche e aristoteliche, elaboro in questa sezione una breve e alquanto generale analisi del rapporto tra particolare e universale nel pensiero antico e medievale. Tale analisi ha lo scopo di permettere una migliore comprensione delle tematiche successive, inerente ai temi della scrittura matematica (attraverso Vitiello) e della rivoluzione copernicana (attraverso Sini), visti co- me aspetti del livello della distanza-significato (mathema) oggetto di questo capitolo.

208 Visione per la verità, a giudizio di Sini, del tutto particolare, essendo il concetto,

l’universale, l’invisibile per definizione, il costitutivamente assente, come abbiamo visto. Per l’approfondimento di questo tema cfr. E4, pp. 159-181.

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vede e tutto sa. Non a caso, potremmo osservare, Heidegger parlava di onto-teologia per descrivere la metafisica occidentale, nella quale essere e Dio fanno tutt’uno, rivestendo il ruolo di testimone universa- le di ogni verità particolare ad esso ricondotta. La verità prodotta dalla scrittura alfabetica diventa così la verità nella quale vengono univer- salmente descritte tutte le vicende umane e non, passate, presenti e future.

Questo è particolarmente evidente nella riflessione di Platone, il quale raccolse l’eredità del ti esti socratico, consegnando in questo modo all’umanità futura quell’immagine di Socrate “platonica” appun- to, differente, ad esempio, da quella, meno fortunata (nel senso della fortuna storiografica) delle scuole socratiche minori. Socrate diventa perciò il filosofo, colui che per primo si mette sulle tracce del “bene in sé”, della “giustizia in sé”, inaugurando così la ricerca dell’universale. Ricerca che diventa scienza, e progetto di formazione pedagogico- politica nella filosofia di Platone e dell’Accademia da lui fondata. Po- tremmo dire, seguendo una riflessione di Hegel, che tutto il pensiero antico e medievale è segnato dal dominio dell’universale sul particola- re.

Ogni “momento” concreto, ogni “caso empirico”, ogni “indi- viduo” deve essere ricondotto all’universalità cui appartiene per assu- mere senso e verità. Così nella filosofia di Platone, dove vi è un eidos per ogni cosa, ed ogni eidos è retto e governato dall’idea suprema del Bene; così ancora in Aristotele, che concepisce il Dio/Sostanza come contenitore universale di tutte le forme particolari, presenza immobile ed eterna che si trova all’inizio come alla fine. È il principio della prio- rità dell’atto sulla potenza, secondo il quale nulla può passare dalla po- tenza all’atto senza presupporre qualcosa che sia già in atto. Questo “qualcosa” è dunque Dio, atto puro, forma di tutte le forme, principio del movimento che come tale non può essere mosso (altrimenti il suo movimento, il suo passaggio dalla potenza all’atto dovrebbe presup- porre a sua volta qualcosa di già in atto, secondo il principio citato), motore immobile che muove le cose perché tutte volgono verso di lui, confluiscono in esso. Il luogo di Aristotele, di questo Aristotele, è dunque secondo Vitiello il luogo del tauta aei, del «sempre le stesse co- se»209, dal momento che l’inizio coincide con la fine, l’atto precede la potenza, l’universale domina il particolare dall’alto della sua visione panoramica già sempre presente. Anche l’“eracliteo” Hegel, potrem- mo osservare, mostra in questo aspetto di condividere la ricerca ari- stotelica di un’identità cui ridurre le differenze, di una legge, di una regola che presieda al divenire dello Spirito.

Possiamo cogliere in tutto questo, come scrive Sini, il fatto che «la filosofia frequenta nel profondo la logica parmenidea: l’essere è ciò che sta e che non si muove e che perciò è passibile di scienza. Ciò che diviene è invece accidentale ed esterno al logos. Tutta la filoso-

209 Il luogo aristotelico del tauta aei è largamente presente nell’opera di Vitiello e af-

frontato da diverse prospettive. In un significato che può essere accostato a questo discorso, cfr. Stf, p. 26.

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fia è dunque logica dell’essere, in cammino da Parmenide e Aristotele sino a Hegel […]»210.

Si apre a questo punto una questione capitale anche per il no- stro percorso, che potremmo riassumere con questa domanda: quale spazio trova, nella pratica metafisica sorta dalla distanza critica prodotta dall’alfabeto e volta ad individuare la forma universale di tutte le cose (non voglio singoli esempi concreti di giustizia, voglio che tu mi dica che cos’è la giustizia) il particolare, l’individuale, ciò che alla luce di tutto il primo capitolo della tesi potremo anche chiamare la monade?

La risposta a questa domanda ci consentirà di preparare il ter- reno per mostrare la presenza, in Sini e in Vitiello, di un altro livello della distanza-significato a cui ancora, secondo i nostri autori, in larga parte tutti noi apparteniamo, in quanto abitatori dell’occidente con- temporaneo, e che si distanzia dai livelli precedenti rappresentati dalla parola, con il suo effetto di portare il sapere della morte sollevando l’individuo all’intersoggettività della comunità linguistica che sa di mo- rire, e dalla scrittura alfabetica, universale e decontestualizzata trascri- zione di ogni pratica e di ogni sapere. Prendiamo le mosse dalla tratta- zione della logica aristotelica elaborata da Sini in Teoria e pratica del fo- glio mondo211. Questa logica, come si evince dal testo, rappresenta non solamente il pensiero o la “posizione personale” di Aristotele, quanto piuttosto una sorta di “compimento” di alcune tensioni e riflessioni già presenti nelle filosofie precedenti, eppure frutto in qualche modo dell’“apertura di senso” inaugurata da Aristotele.

Tutto il libro infatti vuole mostrare al lettore come il cammino di pensiero di Aristotele sia in larga parte già “iscritto” in quello di Platone, il quale a sua volta elabora in modo personale, ma al tempo stesso, come dice Sini altrove riprendendo Peirce, «destinale», la filo- sofia di Socrate. Ogni anello della catena, in altre parole, si rapporta al precedente in modo tale che «vede una soglia del destino e la incar- na»212, gesto che non presuppone una totale immedesimazione col pensiero precedente, ma anzi una novità, seppure già “oscuramente” presente. La «soglia del destino» insomma “c’è già”, si tratta di vederla (non di sostenere qualcosa di originale; Aristotele non “crea” nulla di nuovo) e di incarnarla, gesto che nasconde però un “tradimento” di ciò che viene prima. Platone stesso, scrive Sini, «capisce, nel suo mae- stro, quel che il maestro non poteva capire»213 e perciò «come tutti i grandi filosofi, è in certo modo il parricida del maestro, proprio per- ché ne è il più profondo interprete»214.

Dopo questa parentesi, torniamo a noi: nel pensiero antico, e poi in quello medievale, come detto, l’universale domina sul particola- re. L’aspetto che ora ci interessa sottolineare, e che potrebbe sembrare in contrasto, e in un certo senso lo è davvero, con il tauta aei ripreso da Vitiello, è che nel pensiero antico il particolare non coincide mai con

210 TP, p. 72. 211 Cfr. TP, pp. 60-149. 212 TP, p. 64. 213 Ibidem. 214 Ibidem.

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l’universale, ma i due termini sono sempre pensati a partire dalla loro separatezza. La presenza “onnipervasiva”, panoramica e assoluta dell’universale affermata dalla coincidenza aristotelica ed hegeliana di fine ed inizio sembra infatti togliere ogni spazio a qualcosa che si sot- tragga a tale universalità. Affermare la separatezza di particolare ed universale implica invece l’esistenza di un quid che sfugge al tauta aei, di un che di non totalmente riducibile, perché sempre inevitabilmente separato da esso, all’eterna presenza della fine e del principio. Non a caso Platone si trova catturato in mille difficoltà e paradossi laddove tenta di spiegare che rapporto intercorre tra il caso empirico e il suo modello ideale (imitazione? partecipazione?), ed Aristotele arriva addi- rittura ad affermare che dell’individuo non si può dare scienza alcuna. Come infatti individuare proprio l’essenza di questa persona qui pre- sente, senza utilizzare inevitabilmente dei concetti universali e quindi validi anche per altri, incapaci perciò di coglierne la particolarità? Ecco di nuovo la “logica parmenidea” descritta da Sini e citata in preceden- za, in base alla quale «i caratteri dell’individuo sono accidentali e mu- tevoli, mentre definire significa trovare qualcosa di comune, ciò che accomuna gli individui»215, qualcosa cioè di immobile e universale: tau- ta aei.

Affermare che dell’individuo non si può dare scienza non ri- solve però il problema, ma anzi lo amplifica e lo mostra in tutta la sua importanza: non tutto ciò che esiste può essere ricondotto al tauta aei della forma concettuale universale. È anzi piuttosto vero il contrario, ovvero che niente, e cioè nessuna cosa singola, può essere colta nella sua irriducibile differenza. Il particolare dunque non coincide mai comple- tamente con l’universale. Ne partecipa, certo (in un modo per la verità alquanto problematico), ne viene attraversato, ma rimane sempre e inevitabilmente altro da esso. Questo accade, ricorda Sini, nella «spac- catura platonica tra l’individuo e l’idea»216, così come in Aristotele, nonostante il suo tentativo di risolvere la spaccatura «mettendo le idee dentro la materia come sua entelechia»217 per poi ritrovarla nel contra- sto tra «materia e forma, potenza e atto, mondo e Dio»218.

La separazione inevitabile tra i due termini è espressa, secondo Hegel, dalla forma del giudizio, massima espressione del pensiero anti- co, connessione di soggetto (particolare) e predicato (universale) che esprime l’irriducibile distanza del primo dal secondo. La celebre tavola della categorie aristoteliche, volta a classificare ogni forma di predica- zione possibile attraverso il giudizio, mostra appunto che il percorso “a scendere” nei vari livelli della sostanza porta all’evanescenza dell’individuo, della X che non può mai essere predicato di alcun che, ma solo soggetto, a testimonianza del suo rimanere del tutto fuori da qualsiasi universalità. Il rapporto tra soggetto e predicato esprime in- fatti sempre il rapporto tra particolare e universale, concetti che natu- ralmente assumono il valore “relativo” a seconda del grado della scala

215 TP, p. 72.

216 TP, p. 106. 217 Ibidem. 218 Ibidem.

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col quale abbiamo a che fare (“Uomo” ad esempio, è universale ri- spetto a “Luca” ma particolare rispetto ad “Animale”). In questo rap- porto l’individuo è ciò che non può mai occupare il posto del predica- to, appunto perché mai universalizzabile (non posso dire, ad esempio: «Questo è un Luca», o meglio, posso in un certo senso anche farlo, dando però ulteriore prova che dicendo “Luca” non colgo la partico- larità della persona che ho davanti, ma solo il suo appartenere attra- verso il nome che porta alla specie di coloro i quali vengono chiamati così). Allo stesso modo si potrebbe all’inverso osservare che l’“essere” è la categoria suprema che non può mai essere resa “soggetto”, per- ché non ha nulla oltre di sé, ma tutto comprende, è di ogni cosa predi- cato (nel senso però dell’essere il fondamento di ogni predicazione possibile, come comprese Heidegger, che vide conseguentemente l’impossibilità di affermare che: «l’essere è»). L’individuo resta dunque fuori dal tauta aei¸ da Dio, dal contenitore universale di tutte le forme, che proprio perciò è costretto ad escludere ciò che mai può diventare “forma” ma solo “contenuto”, ovvero mai può essere predicato di al- cunché, ma solo soggetto della predicazione.

Tutto il pensiero antico dunque, nell’esigenza di affermare l’universale, Dio, la coincidenza della fine e del principio, finisce per negare l’individuo, il particolare, ciò che Hegel chiamerebbe l’accidentale (non a caso luogo assai problematico anche in Hegel, filo- sofo profondamente attratto, come abbiamo visto, dalla logica par- menidea del tauta aei). La separazione tra particolare e universale è ri- proposta e amplificata nel pensiero medievale attraverso la scissione tra uomo e Dio, come mostrato ad esempio da Hegel nella figura della coscienza infelice nella Fenomenologia dello spirito, la quale proietta sempre al di là di sé la propria essenza. Dopo aver esaminato brevemente que- sta caratteristica comune al pensiero antico e medievale, possiamo giungere ad una conclusione: l’individuale assume valore svalutandosi. Che cosa significa ciò? Significa che alla luce della rivoluzione filosofica

socratico/platonica, resa possibile come abbiamo visto

dall’introduzione in Grecia della scrittura alfabetica, nessuna “cosa” individuale e concreta può determinarsi come tale se non in virtù del suo esser partecipe di un’essenza universale. Si tratta ancora del tema del questo, ora e qui della certezza sensibile hegeliana, della presenza sensibile inafferrabile perché sempre afferrata nella sua negazione, ovvero nella sua affermazione come universalità. L’individuo, il con- creto, il particolare, assume dunque significato e comprensibilità pro- prio laddove si spoglia della sua particolarità per elevarsi all’universalità ultrasensibile del concetto219. Esso dunque “assume va-

219 Su questo tema cfr. V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica

della seconda persona, Ets, Pisa 2009, pp. 101-107, d’ora in avanti GP. Nelle pagine ci- tate viene elaborato un confronto tra la logica platonica e quella aristotelica, dove Vitiello attribuisce a quest’ultima il tentativo di non risolvere totalmente il soggetto nel predicato, vale a dire il particolare nell’universale, ma di salvare, attraverso il principio di determinazione (principio cardine della logica aristotelica insieme a quello di non contraddizione), un significato autonomo del soggetto: «La soluzione platonica non funziona. Non funziona perché non si può far dipender totalmente il soggetto dal predicato. Il soggetto deve avere un suo proprio, autonomo, ‘significa-

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lore svalutandosi”, come abbiamo detto, ossia diventa qualcosa di vi- sibile, di comprensibile agli occhi di tutti, di nominabile, in quanto perde l’anonimia della vita vivente “agita”, direbbe Sini, da cui proviene, traducendola in una distanza “saputa” che d’ora in avanti contraddi- stingue la sua impossibile particolarità; impossibile, perché divenuta, in quanto particolarità, universale. Tutto questo non è affatto in contrasto con le precedenti conclusioni, secondo le quali particolare e universale resterebbero sempre distanti l’uno dall’altro e mai assimilabili del tut- to. Il tauta aei, in altre parole, non nega la separazione di universale e particolare, ma ne è la paradossale e per certi versi “impensabile” con- ferma. Possiamo capire meglio il problema attraverso un esempio:

Mi imbatto in una cosa qualsiasi, come potrebbe essere il mio orologio: me lo trovo fra le mani, ha una sua indipendenza, si ferma, si rompe, cade per terra ecc. Però non riesco a tenere ferma questa differenza nel suo “in sé”; non appena la voglio afferrare, questa differenza dell’orologio, mi trovo in mano le parole: è un orologio, è mio, ha questi e questi altri caratteri che mi consentono di descriverlo e di parlarne, ecc. Non appena parlo della differenza della cosa, vedo che essa differisce verso il suo significato, cioè verso la parola. Già, ma se poi prendo le parole, ecco che subito esse diffe-

to’, ‘prima’ di quelli che gli vengono attribuiti dal predicato. Ne discende che il giu- dizio – l’unione di predicato e soggetto – non è all’origine del pensare. Prima del pensare che si esprime nella forma della predicazione, v’è un pensare puramente significante, nominale. Al quale il giudizio deve adeguarsi, dacché non tutti i predi- cati convengono al nome. La convenienza o, all’opposto, la non-convenienza del predicato al nome, definisce la verità e la non verità (falsità) del giudizio» (GP, p. 103). Vitiello dunque prende in esame la distinzione aristotelica tra «due livelli di discorso – il semantico e l’apofantico, il dire precategoriale e il dire categoriale» (GP, p. 104). Subito dopo però egli sottolinea: «il primo compito della logica consiste nell’individuare il significato proprio del soggetto. Il significato. E se il nome ha molti significati? In tal caso bisogna vedere qual è il significato-base, a cui i molti significati possono correlarsi» (Ibidem). Tale compito implica però l’esigenza di tro- vare, nel soggetto, la presenza di un significato/predicato base, così come di ogni altro possibile significato/predicato, dal momento che «predicatum inest subjecto» (GP, p. 105), vale a dire: il predicato appartiene al soggetto. Vi appartiene, ma in diversi modi, ovvero a seconda che del soggetto di dica il predicato/significato essenziale (l’ousia) o altri predicati/significati accidentali: «vi è modo e modo di essere-nel sogget- to: altro è dire: Socrate è mortale, uomo, zoon logon echon, animale che ha linguaggio; altro è dire: Socrate è calvo. Nel primo caso il giudizio semainei hen, fa segno all’essere del soggetto, ne dice l’ousia, nel secondo il giudizio semainei kath’henos, dice, significa una qualità o proprietà del soggetto. Il primo semainein ‘mostra’, è rivelativo del soggetto qua talis, il secondo ‘di-mostra’, ricava qualcosa da qualcosa, un partico- lare dal tutto. (d’ora in avanti, corsivo mio) Di qui l’ambiguità dell’ousia, che è una catego- ria non-categoria, un significato-predicato che coincide di tutto punto col significato-soggetto» (Ibi- dem). Vi è dunque in Aristotele, che pure afferma il principio di determinatezza del soggetto, un modo di dire qualcosa del soggetto che riguarda il suo significa- to/principale, la sua ousia, la sua essenza. Essa è in bilico tra soggetto e predicato, tra particolare e universale, dal momento che descrive la caratteristica fondamentale del soggetto, la sua determinatezza “prima”, che precede la connessione di predicato e soggetto nel giudizio, ma per farlo deve ricorrere ad un ousia, ad un universale, ad un