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2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.1 VITA ETERNA

2.1.1 L’IMPOSSIBILE RAGIONE

Delineare le caratteristiche specifiche che distinguono l’essere umano nella sua peculiarità rispetto agli altri viventi e tracciare poi un percor- so che attraversi l’intera storia dell’umanità alla ricerca di aspetti signi- ficativi, punti in comuni, variazioni, sembra essere a prima vista un’impresa disperata. Numerose discipline, come nel caso precedente riguardante il tentativo di descrivere le caratteristiche strutturali di o- gni esperienza, avrebbero moltissimo da dire a proposito di ciò che contraddistingue l’uomo in quanto tale, ognuna a partire dal proprio punto di vista, e dobbiamo certo riconoscere che interrogandole ot- terremmo sicuramente risultati interessanti, ricchi di indicazioni utilis- sime per un cammino filosofico e non solo.

Tutte queste discipline, come in molte occasioni ricordato an- che da Sini, procedono spesso a partire da una nozione empirica e precostituita dell’essere umano, il che è sicuramente comprensibile, visti gli obiettivi particolari, di certo utilissimi, che tali scienze si pre- figgono. Antropologia, sociologia, psicologia (e altre ancora) non si pongono, il più delle volte, in maniera autentica e consapevole il pro- blema del trascendentale, vale a dire, come già visto più volte in prece- denze, il problema di capire a partire da che è possibile, innanzitutto per loro stesse, disporre di una certa nozione di uomo o di essere umano, il più delle volte aproblematicamente assunta come universale.

Le scienze particolari lavorano perlopiù disponendo di concetti già dati, tratti dall’esperienza quotidiana, dal senso comune, dai libri e non si chiedono conto di questi stessi concetti, non ne interrogano il senso, l’origine, la possibilità.

Ogni scienza, ogni disciplina si muove all’interno di procedure ben definite, del tutto coerenti ed efficaci se giudicate internamente ai loro criteri e ai loro obiettivi di ricerca, senza farsi troppe domande di carattere “genealogico”. Questo vale naturalmente sia per le discipline umanistiche che per quelle scientifiche, ma non può valere anche per la filosofia, se davvero essa vuole continuare ad essere tale.

Il tentativo di comprendere filosoficamente il problema dell’umano non può prescindere da una messa in questione della stes- sa nozione di uomo, questo perché il problema del trascendentale, la necessità di volgere lo sguardo a quel a partire da che richiamato in pre- cedenza, è un compito imprescindibile per la filosofia, perlomeno nel senso in cui essa viene intesa dai nostri autori.

Prima di precipitarsi affannosamente in cerca di una defini- zione, la filosofia deve compiere dunque quel “passo indietro” più volte richiamato da Husserl, domandandosi appunto a partire da che è possibile per noi parlare dell’uomo, avere una qualche esperienza dell’umano. Con il termine “uomo” infatti siamo soliti indicare uma- nità appartenenti a gruppi lontanissimi nel tempo e nello spazio, che talmente poco hanno in comune tra loro da sembrare a prima vista impossibile stabilire un criterio che le accomuni sotto un unico genere definitorio. La definizione aristotelica di uomo come “animale razio- nale” però sembra essere ad un primo sguardo difficilmente contesta- bile e in grado di accomunare “umanità” tra le più diverse. I nostri au-

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tori, però, non privilegiano questa strada (anzi, spesso la mettono a- pertamente in questione). Prima di occuparci direttamente di essi, fac- ciamo una breve parentesi, cercando di capire perché, da un punto di vista filosofico, tale definizione risulta difficile da difendere.

Possiamo infatti parlare di “ragione” per definire il compor- tamento dei primi uomini di Neanderthal, o quello dell’homo erectus, im- pegnato faticosamente a modificare la propria postura e il proprio modo di stare al mondo? Possiamo sensatamente definire i loro com- portamenti come “razionali”? E ancora: è la stessa “ragione” quella che guida il comportamento di un uomo adulto, abitante dell’Europa nel ventunesimo secolo, e quella che invece orienta l’azione di un al- chimista del medioevo, o di un soldato cristiano che si appresta a par- tire per le crociate, o ancora di un adepto al culto di Dioniso dell’antica Grecia dei riti pagani, o infine di un terrorista islamico dei giorni nostri, pronto a farsi saltare in aria sacrificando così la sua stes- sa vita in nome di Allah e della “guerra santa”?1 Eppure tutti questi personaggi appena citati, secondo la definizione aristotelica, meritano allo stesso modo, in quanto uomini, di essere considerati dotati per natura della medesima ragione, ma stanno davvero così le cose? Occor- re però stare attenti anche a non incappare nel rischio opposto: fidu- ciosi nel concetto di ragione che ci è stato consegnato dalla nostra tradizione di pensiero e non senza una buona dose di intolleranza e senso di superiorità, possiamo essere facilmente tentati di difenderci dietro il nostro rassicurante scudo occidentale, bollando senza pensar- ci troppo come “irrazionali” i comportamenti citati in precedenza. Di fronte al rischio di veder scomparire, vista la molteplicità di compor- tamenti e tradizioni diversissimi tra loro nelle varie culture, l’idea di una ragione universale uguale per tutti gli esseri umani, di fronte cioè all’eventualità di ammettere che la ragione non è una, ma sono molte, non corriamo forse il rischio di negare razionalità ad ogni comporta- mento umano che non rispecchi il criterio di ragione a cui siamo da moltissimo tempo abituati? Non dobbiamo piuttosto rivedere il nostro concetto di ragione e la nostra pretesa ad esso legata di estendere tale concetto ad ogni forma di umanità? Osserviamo una cosa interessan- te: abbiamo appena richiamato la possibilità di non estendere a tutta l’umanità l’idea di razionalità che ci caratterizza come uomini occiden- tali, europei, moderni; così facendo però già abbiamo involontaria- mente e implicitamente ammesso che umanità e ragione non coincido- no, soprattutto se con il termine ragione intendiamo appunto una certa forma particolare di ragione, diffusa presso la nostra cultura, volta ad indicare un modo lucido, consapevole e disincantato di rapportarsi con il mondo. Questa non coincidenza ci porta a riflettere sul fatto che il concetto di uomo è più ampio del concetto di ragione (se per ra- gione si intende appunto il nostro specifico concetto di razionalità che

1 La consapevolezza della molteplicità delle parole, dei pensieri e dei comportamenti

umani è riconosciuta da Sini come «la grande intuizione di Vico: che gli uomini non parlarono e non pensarono sempre nello stesso modo, che non c’è né presumibil- mente ci sarà mai un'unica “mente” e un'unica “coscienza umana” fissata per sem- pre» (ES, p. 26).

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ha alimentato la definizione aristotelica) e che sono esistite, ed esisto- no ancora, forme di umanità di fronte alle quali esiteremmo molto ad utilizzare, nel nostro significato, l’aggettivo razionale, ma che non a- vremmo dubbi nel considerare appunto come umane. Non tutti gli uomini, in altre parole, mostrano a prima vista di esibire comporta- menti che rientrano nel nostro concetto di razionalità; in virtù di que- sto, ha ancora senso parlare di ragione per definire tali comportamenti? L’obiezione che avevamo cacciato dalla porta, tacciandola di intolle- ranza e pretesa di imporre una superiorità culturale, non rischia di ri- entrare dalla finestra, libera da ogni intento egemonico, ma sincera- mente votata a chiedersi il senso di ogni possibile ragione oltre la nostra ragione, domandandosi innanzitutto se già parlare di ragione in riferi- mento alle altre culture (o, potremmo dire, alle culture altre) sia sensa- to, “ragionevole”?

Questo breve excursus ha avuto lo scopo si mostrare come par- lare di ragione per definire la caratteristica essenziale dell’essere umano può rivelarsi filosoficamente poco fruttuoso. Forse per questo moti- vo, sicuramente anche per mille altri, il tentativo, da parte di Vitiello e Sini, di cogliere le caratteristiche dell’umano in quanto tale, segue altre strade. Tali strade ci conducono verso il tentativo di spiegare la pecu- liarità dell’esperienza umana tentando di assumere un punto di vista il più possibile “originario”; un punto di vista cioè che ci collochi, per quanto può, alle radici dell’umano, per scorgere il senso di quella frat- tura che ha separato l’uomo dalla sua provenienza, dalla sua origine, situandolo nell’orizzonte di una distanza che ancora caratterizza il suo (quindi il nostro) modo di stare nel mondo, quello che Heidegger chiamerebbe il suo esser-ci. Tale operazione assume dunque, come nel capitolo precedente, i tratti di una genealogia, vale a dire di un pensiero che sappia farsi carico del problema dell’origine, nel tentativo di spie- gare, per usare una nota formula di Nietzsche, «come si diventa ciò che si è»2. Lo sguardo genealogico, come abbiamo visto nel primo ca- pitolo e come riprenderemo alla fine, rappresenta uno dei tratti pecu- liari della riflessione filosofica di Sini e tramite esso ci apriremo la via per tracciare un’ideale genealogia dell’uomo, procedendo poi a traccia- re alcune tappe, o livelli, inerenti alla sua storia. Tappe, beninteso, del tutto ideali, al pari della storia che rappresentano; tappe che vanno dunque viste non più che come “figure” dell’umano, più volte chia- mate in causa e riprese dai nostri due autori, come momenti particola- ri di una storia “romanzata” e non certo reale, per usare un espressio- ne molto amata dalla critica hegeliana. Al termine di tale percorso, dopo aver delineato vari possibili livelli di questa ideale storia dell’uomo, cercheremo di mostrare come, nella prospettiva di Vitiello, proprio il tentativo di tracciare una storia dell’umano (l’idea cioè di considerare i livelli della distanza-significato come temporalmente

2 Tale formula viene ripresa da F. Leoni in un saggio intitolato appunto «Genealogia

e contenuto nel libro», in Filosofia teoretica. Un’introduzione (a cura di R. Ronchi), Utet, Torino 2009. Nel saggio citato si fa riferimento all’opera di Foucault come la mag- giore erede contemporanea del problema genealogico nietzschiano. Cfr. a proposito M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001.

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successivi), per quanto ideale, simbolica e romanzata, possa essere messo in questione, giungendo così a tracciare i confini di quella topo- logia che dà il titolo a questo capitolo e che rappresenta certo il contri- buto più originale offerto da Vitiello alla riflessione filosofica con- temporanea. Tali ideali luoghi della storia dell’uomo, non va dimenti- cato, rappresentano nel nostro percorso i diversi livelli della distanza- significato. Questi livelli si occupano di indagare l’esperienza umana in quanto strutturalmente distanziata, caratterizzata cioè dalla manifesta- zione di oggetti (ovvero di enti, di contenuti, di significati) che si col- locano a distanza non solo, come ogni cosa, rispetto al loro evento di senso, ma soprattutto rispetto al soggetto che fa esperienza di essi. L’uomo stesso vive dunque, nelle pratiche prese in esame, nei vari li- velli della distanza-significato, il senso di un mondo collocato in un’incolmabile distanza, sconosciuta al vivente ancora immerso in quella che abbiamo indicato con l’espressione ‘vita eterna’. Il percorso successivo chiarisce meglio il senso di questo concetto, nonché, come abbiamo anticipato, il suo riferirsi ad un’apertura di mondo priva, da un certo punto di vista, di distanza, di quella distanza-significato che invece caratterizza i vari livelli dell’esperienza umana analizzati. Torniamo dunque ad interrogare Sini e Vitiello, tentando di dare una prima risposta alla domanda iniziale sulla peculiarità dell’esperienza umana.