• Non ci sono risultati.

2. TOPOLOGIA DELLA DISTANZA

2.4 MATHEMA

2.4.2 LA SCRITTURA MATEMATICA

Iniziamo subito col dire che la scrittura matematica assume un’importanza enorme nel momento in cui viene utilizzata nella de- scrizione e nello studio di quello che solo ora, in virtù di tale sconvol- gente cambiamento, appare come il galileiano “grande libro della na- tura”, scritto appunto in caratteri matematici.

Così come per la scrittura alfabetica, anche in questo caso è possibile mostrare il fatto che ad un mutamento di carattere formale se ne accompagni uno di carattere contenutistico. Se però gli effetti dell’applicazione della matematica alla fisica, applicazione che ha por- tato all’inaugurazione di quella che Husserl nella Crisi delle scienze euro- pee chiama “scienza moderna”, sono stati sicuramente sconvolgenti per la prassi scientifica, conducendo l’uomo verso una conoscenza della natura molto più precisa, controllabile e calcolabile, e perciò tale da rendere la natura stessa più facilmente “manipolabile” dalla tecnica (frutto senz’altro anch’essa delle conseguenze inaugurate da questa ri- voluzione), dobbiamo anche dire che la rivoluzione di pensiero iscritta nella struttura stessa della scrittura matematica è ancora lontana, come sottolinea Sini223, dall’essere pienamente compresa. Mentre la scrittura alfabetica si è imposta come strumento di traduzione universale dell’esperienza, sempre più diffuso e utilizzato da tutta la popolazione mondiale, la scrittura matematica rimane relegata in un particolare, per quanto importantissimo e produttore di moltissimi effetti sulla vita quotidiana, contesto di utilizzo.

Essa non viene utilizzata per raccontare i fatti del giorno, o per discutere del più e del meno con gli amici (sebbene più volte nella storia del pensiero abbiamo assistito a simili tentativi di matematizza- zione e formalizzazione della lingua naturale, con l’intento di trasfor- marla in una “lingua perfetta” che non desse adito ad incomprensio- ni), ma riveste un settore, per noi, molto limitato dell’esperienza quo- tidiana, al limite decisamente più esteso per quei professionisti che hanno in varia misura a che fare con essa (seppur in grado di produrre

223 Cfr. E6 p. 189, dove Sini scrive che gli effetti della matematica applicati alla co-

noscenza e trasformazione della natura, conducono «a quella che si potrebbe chia- mare la magia moderna: qualcosa che non finisce, e non ha finito, di stupirci».

Nóema – Numero 2, anno 2011 http://riviste.unimi.it/index.php/noema

178

conseguenze grandiose e di incalcolabile portata); in ogni caso non ha il compito di trascrivere tutta la nostra vita, la mostra conoscenza e le nostre prassi, come invece ci abituiamo a fare fin da piccoli con l’alfabeto, risentendo quindi in modo più influente e permanente degli effetti prodotti sul mondo di pensare e di concepire la realtà.

L’analisi di Vitiello circa le conseguenze prodotte dalla scrittu- ra matematica sui saperi e sulle prassi dell’occidente muove dalla di- stinzione, già oggetto di analisi approfondita in Heidegger e Koyré, tra la fisica di Aristotele e quella di Galilei, e in particolare sui concetti di moto e di spazio, terreno sul quale possiamo misurare la diversa «conce- zione dell’essere dell’ente»224 che propongono i due filosofi. Scrive Vi- tiello:

Nel filosofo greco il moto attiene alla natura del corpo che si muove: la pie- tra lanciata in alto cade, perché tende al basso, e cioè a tornare nel suo “luogo naturale”, così come la fiamma tende all’alto – come l’osservazione ci attesta. Ma per Galilei non c’è più qualcosa come il “luogo naturale”, v’è solo e semplicemente lo spazio geometrico, cioè un ricettacolo uniforme, indifferente, privo di qualità, nel quale trovano dimora tutti gli enti corpo- rei, senza differenza di natura225.

Osserviamo innanzitutto che il “luogo naturale” ricordato da Vitiello, principio cardine di tutta la fisica aristotelica, corrisponde in un certo senso all’eidos, alla forma, all’universale della metafisica di cui parlavamo in precedenza. Fa parte infatti delle caratteristiche essenzia- li che determinano la natura profonda di ogni corpo quella di dirigersi verso un luogo piuttosto che l’altro, di cadere in basso o in alto. Il mo- vimento dei corpi nella fisica di Aristotele è dunque un movimento che trova causa in Dio, principio supremo di ogni kinesis, contenitore uni- versale di ogni forma che comprende dunque la ragione di ogni spo- stamento.

Dio è dunque il principio regolatore di ogni moto, la forma di tutte le forme, che tutte le contiene in sé, e che conferisce ad ogni corpo il luogo naturale verso cui tendere. Il fuoco dunque tende verso l’alto, così come la pietra tende verso il basso, perché è nella sua natu- ra, nella sua essenza, nella sua forma, il comportarsi in questo modo. Tutt’altro accade con la fisica galileiana, che rimuove completamente il concetto di luogo naturale, sostituendolo con quello di «spazio ge- ometrico», concepito come un «ricettacolo uniforme» nel quale «tro- vano dimora tutti gli enti corporei, senza differenza di natura». La natu- ra di un corpo è perciò indifferente nella spiegazione del suo movimen- to, che avviene nello spazio neutro e asettico della geometria e della matematica. Vediamo quali conseguenze comporti per Vitiello tutto questo:

Ora preme rilevare la differenza tra il concetto aristotelico di “relatività” e quello galileiano. Per Aristotele il moto è relativo alla natura del mobile, per cui v’è il “basso” e l’“alto”, il “pesante” e il “leggero”. Tutt’altro senso pre- vale in Galilei, la cui fisica non conosce “qualità naturali”, “essenze”, né

224 FT, p. 55.

Nóema – Numero 2, anno 2011 http://riviste.unimi.it/index.php/noema

179

termini fissi di riferimento, come per esempio la Terra. Il movimento di un corpo si misura in rapporto agli altri corpi, è relativo ad essi. E questi possono essere in quiete o in movimento, come per esempio il pontile da cui la na- ve si stacca nel salpare, o i sacchi di grano che sono nella stiva della nave da cui portiamo via quello che adesso ci abbisogna. Quiete e movimento sono termini che mutano a seconda del quadro di riferimento. Pertanto non v’è un “basso”, né un “alto”; né v’è la “leggerezza”, e quindi, correla- tivamente, neppure la “pesantezza”. […] In breve, e volendo fare uso del linguaggio di Aristotele, la Fisica di Galilei non conosce ousíai, sostanze. Tut- to è sumbebekós, “accidente”, nel senso letterale della parola; tutto quel che è, è in quanto accade. La conclusione inevitabile della Fisica galileiana è la de- sostanzializzazione dell’ente226.

Se come dicevamo prima la natura di un corpo è indifferente alla spiegazione del suo movimento, la conseguenza è che cade il con- cetto di ousia, di sostanza, ossia di forma, di eidos, di universale. Il moto aristotelico è relativo alla natura del corpo in questione e perciò, po- tremmo in un certo senso dire, non è relativo affatto, ma è “assoluto”, ossia sciolto dalla relazione ad altro. Il moto di una cosa si determina da sé, senza relazionarsi con l’esterno: è nella natura del fuoco tendere verso l’altro, così come, in altro campo, è nella natura degli animali accoppiarsi per la riproduzione.

Ogni tipologia di “movimento”227 trova causa secondo Aristo- tele nella natura dell’oggetto in moto, nella sua essenza. La fisica gali- leiana cancella invece completamente ogni essenza, ogni qualità natu- rale, ogni forma, dal momento che pone il movimento di un corpo totalmente in relazione con quello degli altri corpi posti all’interno del “sistema di riferimento” preso in esame. Questo gesto radicale si basa, come sottolinea Sini, sull’accettazione galileiana del movimento come un fatto che non occorre di essere “spiegato”228 a partire da cause, es- senze, luoghi naturali e così via. Si tratta del celebre e importantissimo principio d’inerzia, secondo il quale un corpo non soggetto ad alcuna forza si muove di moto rettilineo uniforme, e non necessita perciò, come in Aristotele, di un «movente»229, cosa che, ricorda Sini ripren- dendo Whitehead230, risultò del tutto comprensibile e anzi totalmente “irrazionale” agli occhi della scolastica medievale.

Il movimento è dunque un “dato”, un “fatto”, un principio non dimostrabile che va preso come tale, e da cui, casomai, può di- scendere ogni dimostrazione. Il rifiuto di pensare ad una spiegazione della causa prima del movimento “originario”, del movimento non soggetto ad alcuna forza esterna, da parte di Galileo, è espressione profonda di un pensiero che «alle cause finali sostituisce le cause loca- li, alla ratio essendi l’inerzia»231; un pensiero cioè che passa dal perché al come, dalla comprensione alla spiegazione, dalla metafisica antica al «sapere

226 FT, p. 56.

227 I vari significati della kinesis aristotelica sono approfonditi da Sini in E2, pp. 37-

49.

228 Cfr. E1, p. 20. 229 E6, p. 188. 230 Ibidem. 231 E1, p. 19.

Nóema – Numero 2, anno 2011 http://riviste.unimi.it/index.php/noema

180

scientifico moderno»232, fondato sull’assunzione di principio secondo la quale «il mondo “va” e questo è tutto: vediamo di capire come va, non dove o perché va»233.

In base a tutto questo, come abbiamo letto in Vitiello, l’ente è perciò desostanzializzato, ovvero perde quella caratteristiche naturali, essenziali, sostanziali, che orientano il suo movimento in una direzio- ne piuttosto che in un’altra. Venuta meno la volontà di comprendere il perché del suo movimento, resta da spiegarne il come, questione affi- data però non all’essenza dell’ente, ma alla relazione che esso intrattiene con gli altri enti. Cominciamo ad intravedere l’importanza attribuita da Vitiello alla scrittura matematica: gli “enti” della matematica, i nu- meri, così come i “punti” della geometria definiti dalle coordinate (matematiche) cartesiane, non hanno infatti alcuna essenza propria, alcuna forma, alcun eidos, ma esprimono unicamente il loro rapportar- si reciproco, la relazione che l’uno intercorre con gli altri e viceversa:

La mathesis universalis prende il posto che un tempo era assegnato alla metafi- sica generalis, alla scienza dell’ente in quanto ente. E ciò perché ora l’ente in quanto ente, l’essere dell’ente, è dato dall’ordine o misura, da ciò che è in senso eminente mathematico. E cioè: dalla relazione, dalle relazioni che gli enti hanno tra di loro. Preso in sé e per sé, l’ente non è nulla, tutto ciò che è es- sendolo in virtù delle sue relazioni con gli altri enti. Non c’è infatti misura e ordine se non nella relazione ad altro. Quanto si diceva poco sopra circa la riduzione della sostanza ad accidente234.

La desostanzializzazione dell’ente enunciata prima da Vitiello si comprende bene in questa espressione che abbiamo appena letto: «preso in sé e per sé, l’ente non è nulla», dal momento che ogni cosa che posso matematicamente e geometricamente affermare su di esso (or- dine e misura) è data dalla rete di rapporti spazio-temporali che intrat- tiene con gli altri enti. Essi sono dunque la misura della sua collocazio- ne. Nessuna essenza, nessuna forma “già data”, presente alla fine co- me al principio nell’eternità del motore in mobile, ma una forma, che non è nemmeno più tale, e che si determina nella relazione. Vitiello e- videnzia le conseguenze “nichilistiche” nascoste in questo processo:

L’affermarsi del “numero” nella scienza moderna consegue direttamente e necessariamente alla riduzione dell’essere dell’ente a rapporto, alla totale este- riorizzazione dell’ente. L’essere dell’ente è definito, determinato dai suoi rapporti spaziali e temporali. La totalità dell’ente è costituita da “spazio” e “tempo”. La conclusione della “scienza moderna” – già implicita nella Fi- sica galileiana – è la nientificazione dell’ente, il nichilismo: l’esito estremo della desostanzializzazione dell’essere235.

In questo contesto il termine “nichilismo” non ha il senso “e- tico” attribuitogli ad esempio da Nietzsche («I supremi valori si svalu- tano») o da Dostoevskij («Tutto è lecito, se Dio è morto»), sebbene ne sia anche in un certo modo il presupposto; il termine indica il fatto

232 Ibidem.

233 E1, p. 20. 234 FT, pp. 56-57. 235 FT, p. 58.

Nóema – Numero 2, anno 2011 http://riviste.unimi.it/index.php/noema

181

che l’ente, in sé e per sé, non è nulla, ma è “null (nihil = nulla)’altro che” relazione spazio-temporale con gli altri enti. Se l’ente, di per sé, non è più nulla, ma solo un intreccio di relazioni, è chiaro allora, come scrit- to da Vitiello, che non vi è più un «basso» o un «alto» in senso assolu- to (è nella natura del fuoco dirigersi verso l’alto), ma anche le coordi- nate spazio-temporali assumono un valore relativo al punto di osser- vazione.

È quanto viene affermato dalla teoria copernicana dell’universo, che accoglie il “relativismo” della matematica, la deso- stanzializzazione dell’ente, e in più aggiunge l’annullamento perfino dell’idea di “spazio geometrico” come sistema di riferimento fisso. Non solo infatti gli enti vengono definiti dalla loro collocazione spa- zio-temporale perdendo così la loro “insietà”, ma anche il contenitore che li accoglie perde la sua “stabilità”, precipitando nel vortice dell’infinito. Di tale vortice troviamo piena espressione nella rivolu- zione copernicana, di cui, come anticipato, esaminiamo alcuni aspetti presi in esame da Sini, utili per il nostro percorso.