Il terzo capitolo del secondo libro della Ricchezza delle Nazioni è incentrato sulla distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Il primo aggiunge valore all’oggetto a cui è destinato, mentre il secondo non aggiunge valore né tanto meno un utilizzo durevole all’oggetto verso cui è rivolto. Il lavoro produttivo è quello svolto dall’operaio, che aggiunge al valore dei materiali che lavora anche quello
del mantenimento e del profitto del datore di lavoro. Il lavoro improduttivo invece, tipico del domestico, non incrementando nessuna ricchezza, comporta la perdita del salario che gli garantisce il mantenimento101. Con questa distinzione si spiega il carattere reale del concetto di accumulazione: solo i beni durevoli rendono possibile un successivo impiego di capitale (e di conseguenza la distribuzione di ricchezza).
Si spiega quindi come mai, nell’elogiare la parsimonia – qua come nella Teoria –
Smith faccia una distinzione sulle spese di lusso rivolte a beni durevoli contro quelle impiegate per oggetti frivoli e per il mantenimento di una schiera di servitori:
«Quando un ricco spende il suo reddito soprattutto in ospitalità, egli lo divide per la maggior parte tra i suoi amici; ma quando lo impiega nell’acquisto di beni durevoli lo spende tutto per sé e non dà nulla a nessuno senza un equivalente. L’ultima specie di spesa,
101 Non essendo compito di questo lavoro analizzare il diverso impiego dei capitali, per ulteriori
chiarimenti si vedano i capitoli IV-V del III libro della Ricchezza, Il lavoro prestato a interesse e Il
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se diretta a oggetti frivoli […] ninnoli e cianfrusaglie, indica spesso non solo un carattere frivolo, ma anche volgare ed egoista.»102
Si intende che un certo tipo di spesa ben oculata, se garantisce l’accumulo di beni
pregiati, favorisce la frugalità del singolo e, di conseguenza, l’aumento del capitale e della prosperità pubblica.
La distinzione tra lavoratori produttivi e improduttivi svolge un ruolo polemico di indubbia importanza lungo tutta l’opera. I passi in cui Smith elenca i lavoratori improduttivi sono tra quelli più pungenti dell’intera Ricchezza: per quanto
onorevoli e utili siano i servizi degli improduttivi, essi sono del tutto superflui perché non accumulano ricchezze, rendendone impossibile una futura distribuzione.
Pagine come queste hanno un messaggio rivoluzionario per l’epoca in cui Smith scrive perché denotano lo scontento della classe produttrice verso quelle che sono mantenute dal reddito pubblico, pur essendo improduttive:
«Nella maggior parte dei paesi quasi tutto il reddito pubblico è impiegato a mantenere lavoratori improduttivi. […] Tali sono le persone che compongono una corte splendida, un’istituzione ecclesiastica, grandi flotte ed eserciti […] queste persone non producono nulla […] perciò quando esse aumentano fino al superfluo, possono consumare una parte così grande di prodotto da non lasciarne a sufficienza per il mantenimento dei lavoratori produttivi.»103
102 Adam Smith, La Ricchezza delle nazioni, op. cit., p. 472. 103
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Si può qui riconoscere l’emergere di un nuovo ordine e di una nuova classe
sociale che impongono nuove visioni e criteri di valutazione. L’opposizione tra lavoro produttivo e improduttivo rappresenta al meglio la nascita della nuova società capitalistica.
L’intero capitolo è volto a spiegare l’utilità in termini di profitto dell’incremento
del lavoro produttivo. Distinguendo il prodotto annuale in una parte da destinare al reintegro del capitale e un’altra destinata a costituire un reddito, Smith nota che
il primo è utile a impiegare altro lavoro produttivo, il secondo, costituito da rendita e profitti, rappresenta il reddito spendibile liberamente, utilizzato maggiormente dai lavoratori improduttivi per il proprio sostentamento.
Poiché, grazie al progresso economico, il capitale da reintegrare nel mercato cresce in proporzione più del reddito, in un paese ricco c’è una quantità tale di
capitale da garantire il mantenimento di una grande parte di lavoratori produttivi. Il rapporto tra questi e i lavoratori improduttivi dipende dal rapporto tra questi due fondi (capitale e reddito) che determina il carattere generale degli abitanti il relazione all’ozio e all’operosità.
L’operosità è data da precise condizioni sociali: nelle città che si mantengono
soprattutto grazie alla presenza di una corte, le classi inferiori della popolazione sono mantenute grazie alla rendita dei ricchi, diventando generalmente oziose e povere. Al contrario, nelle città commerciali e industriali, dove le classi inferiori sono mantenute dall’impiego del capitale, queste sono spesso industriose e prospere: dove prevale il capitale quindi, prevale l’industriosità.
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Un sufficiente incoraggiamento all’industria, che porta all’impiego di capitale e all’aumento di lavoro produttivo non ha come conseguenza nient’altro che una crescita dell’operosità e della parsimonia.
La critica smithiana, rivolta alla dissolutezza della vita di corte (soprattutto a quella delle città francesi, emblema dell’Ancien régime) è una chiara denuncia borghese contro città e classi sociali talmente abituate all’inerzia da rendere impossibile l’impiego produttivo di ricchezza. È sicuramente una lettura
rivoluzionaria, che distingue tra vecchie città e centri commerciali:
«È probabile che l’ozio, nella maggior parte della gente mantenuta a spese del reddito, corrompa la laboriosità di coloro che dovrebbero essere mantenuti con l’impiego del capitale e renda meno vantaggioso impiegare un capitale là che in altri luoghi.»104
Stabilito che l’aumento dell’operosità dipende dall’aumento del capitale, Smith
passa a spiegare che questo a sua volta è frutto della parsimonia che, come si ricorderà, è una virtù essenziale del prudent man:
«I capitali aumentano con la parsimonia e diminuiscono con la prodigalità e la cattiva condotta […] È la parsimonia e non l’industria la causa diretta dell’aumento del capitale. […] Ma per quanto l’industria possa acquisire, se la parsimonia non risparmiasse e accumulasse, il capitale non potrebbe mai aumentare.»105
104 Adam Smith, Ricchezza, p. 458. 105
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Se il capitale fornisce i materiali per l’accumulazione e la produzione, è la parsimonia che rende possibile l’accrescimento di ricchezza. In tal senso essa è
una virtù tipicamente borghese, rappresentativa di quella società in cui è possibile impiegare produttivamente il risparmio come capitale.
Nella visione smithiana il risparmiatore trasforma il reddito in capitale, destinando la parte in eccesso verso nuovi investimenti. La parsimonia prevale sulla prodigalità fine a se stessa perché alimentata dal desiderio di migliorare la propria condizione:
«Relativamente alla propria prodigalità, il movente che spinge a spendere è la passione per il godimento presente il quale, sebbene talvolta violento e irresistibile, è in generale soltanto momentaneo e occasionale. Ma il movente che spinge al risparmio è il desiderio di migliorare la propria condizione […] Per tutto il tempo, dalla nascita alla morte, non vi è neppure un solo istante in cui si sia così perfettamente e completamente soddisfatti della propria situazione da non desiderare di alterarla o migliorarla. L’aumento della ricchezza è il modo in cui la maggior parte degli uomini si propongono e desiderano di migliorare la propria condizione. […] e il modo più probabile per aumentare la propria ricchezza è di risparmiare e accumulare parte di ciò che si acquisisce.»106
Perciò parsimonia e buona gestione del capitale, predominano nella maggior parte degli uomini, compensando sperpero e cattiva gestione da parte di singoli individui e istituzioni. L’esperienza infatti insegna che lo sforzo continuo di ogni
individuo per migliorare la propria condizione è spesso abbastanza forte da
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mantenere il naturale corso delle cose verso il progresso, nonostante i gravi errori delle istituzioni e di molti individui.
Lo sforzo naturale del singolo, lasciato agire con libertà e sicurezza, è un principio che da solo è capace di condurre l’intera società alla prosperità e alla ricchezza,
superando anche quegli ostacoli imposti da leggi che intralciano le azioni umane. Qua il riferimento di Smith alla mano invisibile, nel suo significato economico, chiarisce ulteriormente questo punto:
«Cercando quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’industria interna e di indirizzare quest’industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente a massimizzare il reddito annuale della società. […] Invero egli né intende promuovere l’interesse pubblico, né sa quanto lo promuova […] egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, è guidato da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni.»107
Ancora una volta si precisa che l’interesse generale, come conseguenza del perseguimento dell’interesse individuale, è un fine del tutto inconsapevole. Per la
società, questa inconsapevolezza non è un male; anzi Smith mette ironicamente in luce come «non sia mai stato raggiunto molto da coloro che pretendono di trafficare per il bene pubblico.»108
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Adam Smith, Ricchezza, op. cit., p. 584.
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Ivi. In conclusione al I libro della Ricchezza, Smith dice espressamente che nessuna delle tre classi originarie che costituiscono la società è consapevole del fatto che il proprio interesse è connesso a quello generale. Coloro che vivono di rendita «mancano troppo spesso di questa conoscenza […] Quell’ indolenza che è l’effetto naturale dell’agio e della sicurezza della loro condizione li rende non solo ignoranti ma incapaci dell’applicazione mentale necessaria a prevedere e comprendere la conseguenza di qualsiasi disposizione pubblica. […] L’interesse della seconda classe, di coloro che vivono del salario, è altrettanto strettamente connesso all’interesse
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Il parallelismo con la Teoria è obbligato: infatti “i ricchi […] nonostante non pensino ad altro che alla loro convenienza […] nonostante l’unico fine che si
propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, […] sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita […] e così, senza volerlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono i mezzi alla moltiplicazione della specie”109
.
Per l’importanza che ha il desiderio di migliorare la propria condizione, già
esaminato a proposito della Teoria, sono del tutto condivisibili quelle tesi che conferiscono a questo desiderio il nesso tra la morale e il pensiero economico smithiani. Raffaelli, per esempio, traccia uno schema immaginario che partendo dal desiderio di migliorare la propria condizione (aiutato dalla parsimonia che permette il risparmio di parte della ricchezza accumulata) arriva alla prosperità generale: dal perseguimento del self-interest alla ricchezza collettiva. Si compie così, senza nessuna contraddizione, la sintesi tra pensiero morale e pensiero economico.
All’interno di questo schema, il ruolo svolto dalla simpatia è tutt’altro che
abbandonato. La simpatia provata con facilità dal genere umano nei confronti dei ricchi e dei potenti, così come lasimpatia che lo spettatore prova verso il carattere del prudent man e verso il modo in cui egli persegue il proprio interesse, essa è lo sfondo su cui si articolano rapporti umani e reciprocità degli interessi. Che questi
della società […] ma egli è incapace sia di comprendere quell’interesse che le relazioni con il proprio. I suoi datori di lavoro costituiscono la terza classe, coloro che vivono del profitto […] La loro superiorità non sta tanto nella loro conoscenza dell’interesse pubblico, ma nella migliore conoscenza del proprio.» A. Smith, Ricchezza delle nazioni, op. cit., pp. 373-375.
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siano coscienti o meno dell’importanza della simpatia nella loro esistenza, stando
a Smith, è del tutto marginale.
Ben chiaro è il sunto di Dardot e Laval110: il desiderio innato di migliore la propria condizione, che per Smith è motivo il dell’industria, del calcolo dell’utilità
e del progresso economico, non è del tutto scindibile da quella ricerca permanente dell’approvazione altrui che anima gli individui. Teoria dei sentimenti morali e
Ricchezza delle nazioni hanno contenuti diversi ma impiegano metodi affini.
Infatti, la regola che presiede agli scambi umani, che si tratti di un’immaginaria
comunicazione di sentimenti o della produzione di ricchezza generale, dipende da quei principi inscritti nella natura umana. Tali principi danno forma a un ordine morale e a un ordine economico basati sullo stesso specifico equilibrio di sviluppo. Non c’è nessun bisogno di un’autorità politica esterna à la Hobbes per
garantire il legame sociale: tale legame è dato dalla necessità della felicità altrui e della cooperazione di un gran numero di persone.
110P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista,
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2.4 La nascita delle società commerciali. Ricostruzione storica e corso