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Merito e demerito nell’azione morale Le virtù della benevolenza e della giustizia

giustizia.

Nella seconda parte della Teoria, Smith riprende la distinzione anticipata nella prima parte su virtù e vizio e sul sentimento che precede il giudizio, per spiegare in cosa consistano merito e demerito di un’azione e i fini che questa si propone.

Meritevole è un’azione che porta a fare del bene, che sembra oggetto appropriato di gratitudine; al contrario, degna di punizione e biasimo è l’azione oggetto di sdegno.

Anche per quest’analisi la propriety rimane essenziale, poiché l’azione del

ricambiare presuppone sempre un grado di appropriatezza; inoltre, sia la gratitudine che il risentimento esigono che il soggetto attivo di tale azione sia colui che ha effettivamente goduto un beneficio (o subito un danno).

All’interno di questo schema il ruolo dello spettatore imparziale rimane centrale:

la ricompensa di chi è degno di gratitudine e la punizione meritata di chi è degno di essa devono essere tali da essere appropriate, se vogliono essere approvate dallo spettatore imparziale.

La distinzione tra semplice appropriatezza e senso del merito, viene così sintetizzata:

«Come il nostro senso dell’appropriatezza della condotta deriva da ciò che chiamerò una simpatia diretta per le affezioni e le motivazioni della persona che agisce, così il senso del

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suo merito deriva da ciò che chiamerò una simpatia indiretta per la gratitudine della persona sulla quale si agisce.»54

Per chiarire la differenza tra l’approvazione dell’appropriatezza di un’azione e l’approvazione del merito, Smith scrive una lunga nota alla fine della prima

sezione della seconda parte della Teoria in cui – dopo aver ribadito che il risentimento può essere approvato se «ridimensionato e attenuato fino al livello della simpatetica indignazione dello spettatore imparziale»55 – aggiunge che l’approvazione dell’appropriatezza esige che non si simpatizzi solo con l’agente,

ma anche che si percepisca la concordanza tra i suoi sentimenti e quelli di chi osserva.

Quanto all’approvazione del merito, è irrilevante l’atteggiamento di chi ha subito l’azione perché, una volta che lo spettatore riesce a provarela sua stessa gratitudine, egli approverà (o meno) solo l’azione dell’agente, non essendo necessaria una corrispondenza di sentimenti tra l’osservatore e chi è oggetto dell’azione.

Come già sottolineato, l’importanza che per Smith riveste il criterio dell’appropriatezza nella formazione dei giudizi da parte dello spettatore imparziale è il fil rouge su cui si articola l’intera Teoria: c’è un legame

strettissimo tra simpatia e appropriatezza; in cui la prima è intesa come mezzo di cui lo spettatore imparziale si serve per immaginarsi nella situazione altrui, mentre la seconda diviene canone di giudizio di quella situazione.

54 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, op. cit., p. 191. 55

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Il merito attribuito alle azioni benevole, come si è detto, sta nel fatto che la benevolenza è sempre libera, non può mai essere estorta, così come la mancanza di azioni benevole non arreca danni effettivi né produce mali reali.

L’individuo che, ottenuta benevolenza, non è riconoscente verso il proprio benefattore, è senza dubbio colpevole di ingratitudine; tuttavia l’unica sua colpa,

degna del biasimo e della disapprovazione dello spettatore imparziale, sarà l’inappropriatezza del suo egoismo. Di tutti i doveri della beneficenza, quello che

più si avvicina, nella filosofia smithiana, all’idea di obbligo morale è l’essere grato al proprio benefattore.

Al contrario, la violazione della giustizia procura un danno effettivo per motivi che sono naturalmente disapprovati e punibili. L’osservanza delle sue leggi non è lasciata alla libertà dei singoli, la loro inosservanza provoca un danno al prossimo per motivi che sono oggetto di risentimento da parte dello spettatore imparziale e degli altri uomini.

In questo senso, la giustizia è una virtù meramente “negativa”: la sua violazione porta all’essere puniti, mentre la sua osservanza non comporta nessun tipo di

merito:

«Colui che è semplicemente innocente, che non fa altro che osservare le leggi di giustizia nei riguardi degli altri, e non fa altro che astenersi dal nuocere ai suoi vicini, non può meritare altro che i suoi vicini a loro volta rispettino la sua innocenza, e che le stesse leggi siano religiosamente rispettate nei suoi riguardi.»56

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L’uomo, nonostante sia creato per vivere in società, a causa della sua natura

egoista, preferisce se stesso agli altri57; non ricevendo per questo suo atteggiamento, approvazione né dallo spettatore imparziale né dagli altri, è costretto a ridimensionare il proprio self-love su un livello accettabile dagli altri. Se desidera agire per ottenere l’approvazione della propria condotta da parte dello spettatore imparziale, egli dovrà «sottomettere l’arroganza del suo amore di sé, e

attenuarla fino a un punto che gli uomini possano condividere»58; solo in tal caso, gli altri potranno tollerare le sue passioni egoistiche, consentendogli di perseguire con zelo la propria felicità. Fino a questo punto, ogni volta che si metteranno nella sua situazione, la condivideranno immediatamente.

Se non dovesse tenere conto e violare sistematicamente le norme della vita civile e i diritti tutelati dalla giustizia, non verrebbe solo punito, ma andrebbe anche incontro al rimorso e alla vergogna, non potendo godere della simpatia del prossimo.

Potendo gli uomini vivere solo in società, essi necessitano dell’aiuto reciproco. Nel caso in cui questo non dovesse essere fornito da motivi disinteressati e benevoli, la società non ne verrebbe danneggiata, poiché essa sussiste tra uomini diversi, «come tra diversi mercanti»59, per il senso della sua utilità, dato che essa è tenuta in piedi dal comune accordo tra le parti; non esisterebbe se tutti coloro che ne fanno parte fossero sempre pronti a danneggiarsi.

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«Sebbene la rovina del nostro prossimo riesca a colpirci molto meno che una piccolissima nostra sventura, non dobbiamo mandarlo in rovina per impedire quella piccola sventura, né per prevenire la nostra stessa rovina. Non dobbiamo considerarci tanto secondo la luce in cui possiamo naturalmente apparire a noi stessi, quanto secondo quella in cui naturalmente appariamo agli altri.» Adam Smith, Teoria, op. cit., p. 205.

58 Adam Smith, Teoria, op. cit., p. 206. 59

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A questo proposito, il filosofo mette in evidenza, ancora una volta, le inclinazioni egoistiche della natura umana. «Sebbene gli uomini siano inclini alla simpatia – scrive – sentono così poco per un altro con il quale non sono in alcun particolare rapporto, rispetto a quanto sentono per loro stessi, […] hanno un tale potere di

danneggiarlo, e possono avere talmente tante tentazioni di farlo»60 che se non ci fosse il principio di giustizia ad arginare le loro pulsioni violente, ogni uomo sarebbe sempre pronto a danneggiare l’altro.

Constatare questa necessità ha portato a credere che le leggi della giustizia siano state approntate per arginare il risentimento. Nonostante ciò sia vero, il motivo principale per cui esse sono state create sta nel fatto che è direttamente in gioco l’utilità dell’interesse pubblico, e indirettamente le singole persone, che

subirebbero danni se il primo venisse meno. In questo senso, «la beneficenza è l’ornamento che abbellisce, mentre la giustizia è il principale pilastro che sostiene l’intero edificio sociale»61

; la moralità può essere articolata, come esperienza sociale, in diversi gradi, la giustizia invece non ammette nessun tipo di sfumatura:

«Le regole di giustizia possono essere paragonate alle regole di grammatica, le regole delle altre virtù alle regole date dai critici per ottenere uno stile compositivo nobile ed elegante. Le prime sono precise, rigorose e indispensabili. Le seconde imprecise, vaghe e ci danno solo un’idea della perfezione a cui dovremmo tendere, piuttosto che fornirci un’indicazione certa e infallibile per ottenerla.»62

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Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, op. cit., p. 212.

61 Idem, p. 211. È quasi superfluo sottolineare il chiaro riferimento di Smith all’articolazione della

giustizia secondo David Hume, di cui si è ampiamente discusso in questo lavoro. Supra, pp. 15-21.

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