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Una delle malattie mentali che certamente ricopre una vasta fetta dei disturbi psichici, sia in termini di gravità che in termini terapici, è la Schizofrenia. Essa, secondo il DSM V viene considerata la più devastante tra le malattie mentali a causa della precocità dell’esordio, della gravità dei sintomi e della precoce cronicizzazione che compromettono rapidamente diverse aree del soggetto, da quelle lavorative a quelle relazionali e affettive che lo portano ad isolarsi.

La schizofrenia è una patologia distruttiva che intacca la struttura dell’Io, nel senso della dissociazione, ma che non comporta la disintegrazione totale e definitiva del desiderio, c’è sempre del desiderio nello schizofrenico, anche se si manifesta in modo distruttivo, m questo permette nella pratica di poter fare qualcosa e sfruttare positivamente questo desiderio22.

I sintomi della schizofrenia includono disturbi di percezione quali allucinazioni soprattutto di tipo uditivo in cui il paziente afferma di sentire una voce o un suono nella sua testa, alterazione del pensiero, del linguaggio, della comunicazione, del comportamento; numerosi sono anche i deliri come quelli di persecuzione in cui la persona crede di essere perseguitata o spiata, deliri bizzarri per cui la persona ad esempio crede di essere mossa o manipolata da qualcuno, deliri di lettura del pensiero per cui la persona crede che gli altri gli leggano nel pensiero o che glielo possano sottrarre e ancora deliri di colpa o somatici per cui la persona crede di aver contratto una grave malattia come l’AIDS.

La caratteristica più rilevante della schizofrenia è il disturbo del pensiero che compromette fortemente la capacità di quest’ultimo rendendo spesso i suoi messaggi incomprensibili, deragliando, dando delle risposte poco consone o poco correlate alla domanda che gli viene posta. Nei pazienti schizofrenici si osservano quindi alterazioni del comportamento che portano anche ad un deterioramento della cura ed igiene personale, un appiattimento affettivo o un disinteresse totale verso ciò che lo circonda. Nei pazienti schizofrenici una causa molto frequente di morte è, per tutte queste ragioni, il suicidio. I deficit principali dei pazienti schizofrenici riguardano l’attenzione, infatti, il paziente si distrae facilmente interrompendo spesso le attività; la memoria, infatti, il paziente ha difficoltà a concentrarsi su particolari eventi della sua vita e comunicarli e l’apprendimento compromesso dai disturbi dell’attenzione.

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La schizofrenia può essere connotata da componenti biologiche infatti numerosi studi hanno dimostrato che i parenti dei pazienti schizofrenici possono avere una maggiore incidenza della malattia.

Tra i fattori di rischio, una buona influenza è data anche dall’ambiente familiare, è stata osservata un’influenza dell’ambiente familiare in cui si può notare l’instaurarsi di un legame comunicativo e di un clima emotivo distorto. Diversi studi hanno dimostrato che all’interno di queste famiglie vi sono atteggiamenti eccessivamente coinvolgenti e spesso critici nel rapportarsi con il malato con una conseguenza sulle recidive. Quindi un’importanza cruciale sta avendo la qualità di vita del paziente sia in termini abitativi che di relazioni familiari.

La schizofrenia comprende dei sottotipi che possono essere classificati in base alla sintomatologia: tipo paranoide che presenta allucinazioni di tipo uditivo con frequenti deliri di persecuzione e l’esordio rispetto agli altri tipi di schizofrenia; tipo catatonico presenta un’alterazione psicomotoria che può comportare immobilità motoria o l’assunzione di posture inappropriate o bizzarre o la tendenza a ripetere o imitare le posture o le parole di un’altra persona; tipo disorganizzato di cui si denota una disorganizzazione del linguaggio e del comportamento che portano il soggetto ad essere incapace nello svolgere attività quotidiane; tipo residuo che ha avuto almeno un episodio di schizofrenia, può essere presenti a fasi alterne ma comunque vi è una buona possibilità di remissione dei sintomi.

Una delle aree sempre in più rapida evoluzione è la farmacoterapia dei disturbi mentali; la terapia farmacologica nasce con l’intento di modificare o correggere i comportamenti, i pensieri o gli stati dell’umore patologici agendo sul sistema nervoso centrale.

Le terapie farmacologiche, in psichiatria, iniziano a svilupparsi dalla metà dell’800, periodo in cui si usavano principalmente morfina e cocaina a scopi terapeutici e di cui sono stati poi mostrati diversi effetti collaterali oltre alla scarsa efficacia che hanno portato poi all’abbandono clinico di queste sostanze.

Agli inizi del XX secolo vennero introdotti i barbiturici come farmaci dotati di capacità calmante e sedativa, ma solo a partire dagli anni ‘50 si assiste alla introduzione di molecole, tra cui il litio, di cui viene mostrata una buona efficacia. È stata quindi introdotta la clorpromazina che aveva un effetto sedativo ed era in grado di calmare i deliri e le allucinazioni nei pazienti schizofrenici, poi venne introdotto l’aloperidolo e alla fine degli anni 50 le benzodiazepine con proprietà ansiolitiche.

I farmaci possono essere raggruppati in basi al loro scopo.

I farmaci ansiolitici e ipnotici comprendono i barbiturici con effetti sedativo- ipnotici, ma con effetti negativi sul sistema nervoso centrale in termini di depressione e alterazione della coscienza tanto che sono stati del tutto sostituiti dalle benzodiazepine che hanno un effetto

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ansiolitico rilassante sul sistema nervoso centrale e il loro uso è riservato a pazienti che hanno una grave sintomatologia ansiosa poiché a lungo andare possono causare disturbi cognitivi o produrre dipendenza con sintomi di astinenza alla sospensione; le benzodiazepine possono essere ad emivita lunga quindi più di 30 ore(diazepam) , ad emivita intermedia tra le 10 e le 30 ore (lorazepam) e ad emivita breve cioè meno di 10 ore (triazolam)23.

I farmaci antidepressivi hanno la capacità di essere facilmente assorbiti dopo la somministrazione e tra questi la più nota è la paroxetina molto efficace nella terapia del disturbo depressivo e nel disturbo ossessivo- compulsivo; in passato si usavano anche i farmaci IMAO molto efficaci nei disturbi quali attacchi di panico o disturbi dell’alimentazione, fobia sociale o disturbo ossessivo- compulsivo, il suo uso adesso è stato molto ridotto a causa degli effetti collaterali.

I farmaci antipsicotici agiscono su sintomi quali delirio, allucinazioni, agitazione psicomotoria; capostipite di questo gruppo di farmaci è la clozapina che favorisce la riabilitazione dei pazienti schizofrenici che non rispondono alle normali cure dei neurolettici, si è inoltre dimostrata efficace in quanto riduce la sfera aggressiva dei pazienti ed è efficace anche con coloro i quali sono affetti da disturbo di personalità come il disturbo borderline.

I farmaci stabilizzanti dell’umore invece comprendono il litio e quello più comunemente usato è il carbonato di litio inizialmente utilizzato per il trattamento della mania e poi per i disturbi dell’umore e risulta utile anche nei disturbi del comportamento.

Questi farmaci insieme ad una nuova e maggiore sensibilità nei confronti dei disturbi psichiatrici ha consentito a moltissimi pazienti di vivere in maniera decisamente migliore accanto ai loro familiari senza dover rinunciare al loro ambiente di vita. La maggiore sensibilità è inoltre riservata all’area della riabilitazione psichiatrica.

Prima di entrare nel merito è interessante sottolineare che le disabilità psichiche dei pazienti compromettono diverse aree come la cura del sé, la gestione della vita domestica, del denaro, del tempo libero, le relazioni sociali, familiari e affettive ed è inoltre importante evidenziare l’aspetto della cronicità poiché tendenzialmente la maggior parte dei pazienti che usufruiscono di trattamenti riabilitativi sono i pazienti cronici.

Il modello che maggiormente consente di comprendere la cronicità è quello biopsicosociale che integra l’aspetto psicosociale e biologico in modo da consentire la comprensione dell’esordio, del decorso e dell’esito del disturbo utilizzando quattro elementi: vulnerabilità, stress, adattamento e competenza24. Secondo questo modello l’area della vulnerabilità può

essere rappresentata dalla incapacità di soddisfare i propri bisogni, di relazionarsi con gli altri e

23 Ivi, p. 447.

24 G. Invernizzi, C. Bressi, Manuale di psichiatria e psicologia clinica, McGrawHill, Milano 2011, p.

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quindi avere delle limitazioni nella sfera emotiva. E su queste aree agisce lo stress in grado di causare un disturbo psichico, posto ciò, la cronicizzazione è determinata dalle conseguenze di questi episodi come i ricoveri con i conseguenti problemi familiari, disoccupazione, demoralizzazione e l’individuo inizia a scontrarsi con ripetuti fallimenti come se si trattasse di un circolo vizioso. Il paziente diventa cronico anche nel momento in cui chi lo circonda decide di non investire più su di lui e da un punto di vista istituzionale inizia ad avere una serie di recidive che lo portano costantemente a contatto con i servizi psichiatrici bloccando i processi di riabilitazione. Nella prospettiva biopsicosociale i problemi sono frutto di processi complessi e collegati tra loro, ovvero, le origini biologiche, l’ambiente di vita, le persone che si incontrano. L’approccio biopsicosociale implica l’ascolto e la relazione con questi soggetti. Suddetta cronicità può riversarsi anche sugli operatori che assistendo ai continui fallimenti del paziente non riescono più ad essere propositivi e promuovere i cambiamenti nel paziente ed essere vittima del cosiddetto burnout.

Obiettivo della riabilitazione è quindi quello di prevenire questa cronicizzazione promuovendo la salute mentale degli individui. Prevenire in psichiatria significa capire i “fondamentali” della persona sfruttando le risorse presenti, altrimenti, ogni intervento diventa illusorio La prevenzione può essere di tipo primario quando prevede interventi finalizzati proprio all’eliminazione dei disturbi psichici intervenendo sull’ambiente di vita della persona, nella sua sfera familiare, economica, affettiva, lavorativa; di tipo secondaria quando interviene direttamente sul disturbo psichico nel momento in cui esordisce, ad esempio la cura del disturbo attraverso il ricovero; di tipo terziaria è rappresentata da tutti gli interventi messi in atto nella fase acuta ed è proprio in questa fase che si colloca il processo riabilitativo poiché il paziente viene aiutato a recuperare le abilità perdute.

Riabilitare il paziente psichiatrico significa sostenerlo e supportarlo rispondendo ai suoi bisogni e facendolo aderire al progetto terapeutico attraverso interventi sia specifici, quindi rivolti al paziente, sia integrati creando una relazione con il suo ambiente circostante nella direzione dell’acquisizione dell’autonomia.

L’obiettivo è quello di migliorare le qualità di vita del paziente trattandolo come persona e stimolando la sua autostima e partecipazione al processo riabilitativo in maniera quanto più attiva possibile.

Secondo quanto definito dall’OMS la riabilitazione si riferisce in modo specifico a quel campo di azioni e interventi volti ad alleviare la menomazione, la disabilità e gli handicap negli individui con disturbi mentali e a migliorare, nei limiti del possibile, la loro vita.

Secondo lo studioso Ciompi la riabilitazione deve favorire il reinserimento sociale e l’autonomizzazione dei disabili psichici gravi in particolare modo nell’ambito abitativo e

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lavorativo, quindi destinatario dell’intervento non è solo il paziente ma tutto il suo ambiente di vita. Gli operatori devono sostenere e affiancare il paziente nel suo percorso per migliorare la sua qualità di vita recuperando quella parte sana che in ogni paziente, anche il più compromesso, è sempre presente.

La riabilitazione è costituita da un insieme di tecniche che fungono da supporto alla terapia, tra queste le attività ricreative di vario tipo; dopo aver identificato la disabilità del paziente, attraverso la riabilitazione, si ha la possibilità di tracciare un progetto terapeutico individualizzato da espletare all’interno di appositi centri, di verificare i progressi ed i risultati ottenuti attraverso appositi modelli.

I modelli maggiormente in uso sono: i modelli di social skill training, il modello di potenziamento dei comportamenti socialmente competenti, il modello Ciompi e i modelli psicoeducativi25.

I modelli di social skill training sono modelli diretti al rinforzo delle prestazioni e delle abilità sociali del soggetto come l’autogestione, gestione dello spazio abitativo e delle attività lavorative; questo tipo di modello si basa sui concetti di vulnerabilità e stress partendo dal presupposto che i soggetti possono reagire in maniera diversa ai vari eventi della vita, da quelli più banali legati alla quotidianità a quelli più complessi quali traumi o lutti per cui, attraverso questo modello, si cercano di potenziare le abilità sociali che sono spesso compromesse da un apprendimento inadeguato durante l’adolescenza, da isolamento o scarsa interazione con l’ambiente, da mancanza di incoraggiamento o di stimoli positivi o in casi più gravi da deliri o allucinazioni con il conseguente uso di farmaci che non consentono al soggetto di utilizzare le abilità possedute.

Il modello di potenziamento dei comportamenti socialmente competenti ha l’obiettivo di contrastare la cronicità del paziente attraverso la valutazione dei comportamenti adottati da questo nel suo ambiente di vita e delle relazioni sociali e familiari; i continui fallimenti del paziente e le sue frustrazioni oltre ad avere ripercussioni negative su lui stesso, hanno degli effetti devastanti anche sugli operatori che cercano di aiutarlo dando vita a quella spirale viziosa di cui prima. Il soggetto comincia ad essere rifiutato e ad isolarsi sempre di più e così si apre la strada verso la cronicizzazione. Il programma riabilitativo deve intervenire in quelle che sono considerate le aree principali quali abitazione, lavoro, famiglia e amici, cura personale, spazio sociale attraverso attività di gruppo che offrono al paziente l’opportunità di decodificare i modelli comportamentali degli altri e quindi grazie al feedback che riceve, di modificare i suoi; attraverso il rapporto con gli altri il paziente acquisisce una visione più ampia e oggettiva della

25 Ivi, p. 544.

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sua modalità di relazione arrivando anche a comprendere quali sono le dinamiche che stanno alla base del suo disagio.

Il modello Ciompi si basa sulla concezione secondo cui per avere effetto il modello riabilitativo deve puntare sulla rete sociale del paziente tra cui la famiglia, da quanto tempo il paziente è escluso dal mondo del lavoro e considerare la personalità di quest’ultimo. Secondo Ciompi fattore importante per garantire la riabilitazione sono le aspettative della famiglia e del paziente e infine degli operatori. Aspettative che, per una buona riuscita della riabilitazione, devono essere positive.

I modelli psicoeducativi sono finalizzati ad accrescere la consapevolezza dei familiari in merito alla patologia del paziente in modo da far collaborare quest’ultimo alla cura e alla terapia ed evitare le ricadute. Secondo questo modello bisogna quindi migliorare le risorse sane della famiglia, ridimensionare le aspettative della famiglia e gli atteggiamenti ostili nei confronti del paziente; si offre quindi alla famiglia la possibilità di collaborare a domicilio partecipando a lavori di gruppo.

Gli interventi riabilitativi di cui sopra, tendenzialmente, sono rivolti a pazienti cronici, pazienti che avendo un disturbo mentale piuttosto grave sono incapaci a mantenere adeguate relazioni con gli altri e spesso hanno difficolta addirittura a distinguersi dagli altri con una conseguente alterazione della capacità di comunicazione, per cui, il modello riabilitativo deve intervenire a favore del Sé corporeo, espressivo e verbale. In relazione al Sé corporeo possono essere utilizzate tecniche che favoriscono l’espressività corporea come la danzaterapia, per quanto riguarda il Sé espressivo sono utili l’arteterapia, teatroterapia, laboratori di fotografia, infine per il Sé verbale sono importanti le attività di gruppo, la terapia familiare, la psicoterapia.

Affinché si possa parlare di buona riuscita della riabilitazione, oltre alle tecniche e ai modelli di cui sopra, fondamentale importanza riveste la capacità degli operatori di rapportarsi al paziente; si deve assolutamente evitare che l’operatore svolga una funzione assistenziale, l’operatore non deve mai sostituirsi o soffocare l’autonomia del paziente, ma deve guidarlo verso una buona ripresa, deve essere in grado di captare i cambiamenti che avvengono nel paziente, deve essere empatico “condividendo” i sentimenti del paziente. Altro aspetto fondamentale è il coinvolgimento della famiglia al fine di migliorare l’integrazione, di agevolare la comunicazione e la comprensione dei bisogni onde evitare la definitiva rottura della rete familiare.

Si potrebbe allora parlare di modello integrato poiché agisce sia sul contesto familiare e sociale che sul paziente, ma anche perché di notevole importanza è il lavoro di équipe che ne sta alla base in cui tutti gli operatori tra cui psicologo, farmacologo, terapeuta, educatore, assistente sociale creino un mix tra saper essere e saper fare ciascuno in base alle proprie competenze.

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Nell’ambito della riabilitazione pilastro fondamentale è il progetto riabilitativo che consta essenzialmente di tre fasi: presa in carico e strutturazione del progetto, attuazione del progetto e verifica.

La prima fase è di fondamentale importanza poiché è grazie a questa che si strutturerà poi il progetto terapeutico personalizzandolo il più possibile in base allo specifico paziente. Nella fase di presa in carico vi sono degli elementi che vanno presi in considerazione come la storia anamnestica del paziente che permette di raccogliere tutti i dati sulle relazioni che il paziente ha intrapreso nella corso della sua vita, gli eventi esistenziali che hanno avuto una certa rilevanza nella sua storia di vita; la storia psicopatologica in relazione ai sintomi dell’esordio della psicopatologia nonché i numeri dei ricoveri e la loro durata e gli interventi terapeutici; la valutazione delle aree deficitarie cioè le aree in cui il soggetto è inabile attraverso questionari, colloqui diretti con il paziente o anche con i familiari che permettono non solo di evidenziare le aree deficitarie ma anche quelle sane; la storia del paziente nella sua famiglia analizzando eventuali conflitti o alleanze; analisi del contesto di vita del paziente; analisi delle aspettative del paziente, della famiglia e degli operatori. Infine l’équipe procederà alla strutturazione del progetto.

Nella seconda fase si passa all’attuazione del progetto in base alla struttura e alle possibilità offerte da quest’ultima, con cadenze temporali si verificherà l’andamento del progetto ed i risultati raggiunti ed in base a ciò che viene rilevato si procede o si effettuano eventuali modifiche.

Non occorre andare avanti in maniera obbligatoriamente lineare, ma bisogna sempre assistere i bisogni della persona e deve essere favorito un ascolto attento affinché si possa garantire la riabilitazione. Non bisogna prevaricare la persona e renderla passiva annullando le sue possibilità di scelta, poiché, questa sarebbe un’idea errata di tutela. Un elemento che sicuramente va riparato e favorito è l’autodeterminazione sia nelle scelte ordinarie della vita quotidiana, sia in quelle straordinarie per il superamento di traumi o perdite gravi.

Significa “stare accanto” ai pazienti nei loro percorsi tortuosi di ripresa, sostenendo e incoraggiando i loro successi, ma anche accettando le loro ricadute o battute d’arresto.

Lavorando con persone che esprimono grande sofferenza, con malati psichici gravi, noi operatori sociali pur facendo fatica, dobbiamo orientarli verso la salute e l’equilibrio compensando tutte le loro mancanze. Dobbiamo quotidianamente affrontare le problematiche dei servizi spesso carenti di risorse, ma dobbiamo essere consapevoli che siamo portatori di un cambiamento. Ci ritroviamo pazienti con vissuti molto difficili e drammatici in termini di violenza, abbandono, traumi, lutti ed è lì che bisogna lavorare affrontando i percorsi pregressi per poterli elaborare e affrontare poi la vera patologia.

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Oggi c’è una nuova generazione di pazienti psichiatrici, si tratta soprattutto di persone molto giovani con comportamenti violenti, con atteggiamenti prevaricatori e ribelli, ragazzi che hanno alle spalle esperienze che li hanno indeboliti psicologicamente come problemi familiari e soprattutto legati al lavoro che, oggi più che mai, ci costringe a vivere in una condizione di estrema precarietà ed insicurezza destabilizzandoci. Crescono i disturbi alimentari ed i disturbi legati alle tossicodipendenze. Il compito dell’operatore è allora quello di fare intravedere un cambiamento possibile e compatibile con lo stato di salute mentale del paziente. Lavorare e fare terapia con questi pazienti significa accompagnarli pian piano nel loro percorso spesso insito di parecchia sofferenza costruendo un progetto di cambiamento.

Un progetto che possibilmente consenta alla persona con disabilità psichica di acquisire un “ruolo sociale”. Uno dei progetti maggiormente utilizzati è il reinserimento lavorativo. La possibilità di svolgere un’attività lavorativa che consenta di vivere autonomamente permette alla persona di sentirsi parte integrante della società in cui vive, aumentano i contatti sociali, aumenta l’autostima e si riduce la patologia ed il ricorso ai servizi psichiatrici. L’attività lavorativa aiuta la persona a scandire e ad organizzare il tempo a sentirsi cittadino attivo e appartenente al gruppo dei colleghi. Dà al soggetto la possibilità di costruirsi una vita, una vita nonostante la malattia.

In un buon percorso di riabilitazione, non si può non prendere in considerazione quello che è il contesto familiare del paziente. La famiglia è il luogo in cui il soggetto ha le maggiori