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L’assistente sociale nei servizi di salute mentale

È interessante evidenziare come la figura dell’assistente sociale, nonostante le difficoltà nell’affermarsi come figura professionale a tutti gli effetti, si sia insediata nell’ambito sanitario ed in particolare modo nell’ambito dei servizi di salute mentale, divenendo figura indispensabile per il raggiungimento del benessere psicofisico dei soggetti affetti da patologie mentali e per il loro reinserimento sociale.

Negli anni in cui vigeva la Legge n.36 del 1904 e quindi esistevano i manicomi come strutture che accoglievano coloro i quali erano affetti da malattia mentale, le uniche figure professionali previste erano i medici, gli infermieri ed il personale di sorveglianza che aveva il compito di custodire la società da coloro i quali erano ritenuti pericolosi per se stessi e per gli altri.

Bisogna quindi attendere gli anni 50’ perché la figura professionale dell’assistente sociale faccia la sua comparsa con la funzione di tutelare le categorie svantaggiate.

All’interno di un ospedale psichiatrico, il primo ufficio di Servizio Sociale è stato creato nel 1951 a Venezia e nel 1953 a Milano, il ruolo degli assistenti sociali era ancora marginale, più che altro complementare a quello del medico, il servizio sociale era un servizio aggiuntivo.

Il fine del lavoro sociale, all’interno dell’ospedale, era quello di ridare e salvaguardare il senso di dignità umana dei ricoverati, di favorire la cooperazione e la solidarietà tra di loro,

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contribuire a diminuire la paura ed il sospetto nei confronti dell’ospedale psichiatrico in modo da potervi fare ricorso volentieri ed inoltre, garantire i contatti con l’esterno anche se insito di pregiudizi ed in virtù di questo l’assistente sociale doveva favorirne i contatti.

Nel 1957 viene affidato all’assistente sociale il compito di amministrare i sussidi economici erogati dalle Province per le attività assistenziali nei confronti degli infermi di mente per i quali è prescritto il ricovero in ospedale psichiatrico quindi, svolgevano attività di carattere prevalentemente burocratico.

Alla fine degli anni 60’, in seguito alla Legge 18 Marzo 1968 n.431 Provvidenze per l’assistenza psichiatrica, fu introdotta la volontarietà dei ricoveri, la possibilità di dimissioni, i primi centri di igiene mentale con il compito sia di prevenire attraverso le visite ambulatoriali, sia di riabilitare i pazienti una volta usciti dagli ospedali psichiatrici e l’introduzione ufficiale della figura dell’assistente sociale e dello psicologo all’interno delle strutture psichiatriche, potenziando la prevenzione attraverso l’indagine sociale poiché, adesso, non è più la società che deve essere salvaguardata dalla follia, ma è il malato che deve essere salvaguardato dai danni che anche in maniera indiretta la società può tramandargli; in particolar modo le nuove disposizioni recitavano: “Ogni ospedale psichiatrico deve avere un direttore psichiatra, un medico igienista, uno psicologo, un primario, un aiuto e almeno un’assistente. Deve avere il personale idoneo per un’assistenza sociale e sanitaria specializzata per ogni 100 posti letto33”,

“Al centro di igiene mentale e ai servizi da esso dipendenti sono assegnati di regola un pedo- psichiatra, uno psicologo, un medico, assistenti sociali, infermieri, personale ausiliario34”.

Vengono così riconosciuti ufficialmente nell’équipe psichiatriche figure professionali quali psicologi e assistenti sociali per comprendere, riabilitare e reinserire.

Con la Legge 180/78 viene riconosciuta l’indispensabilità di questa figura nonostante permangano le difficoltà a definire il suo campo d’azione, ma ci si rende conto che una mancata definizione di questo possa avere degli effetti negativi nel lavoro d’équipe e che invece andava favorito l’interscambio tra individuo e dimensione pubblica e privata e la figura deputata a fare questo era certamente quella dell’assistente sociale.

L’assistente sociale quindi lavorava con i singoli pazienti dimessi dagli OPG e con i loro familiari al fine di favorire la comunicazione, il reinserimento sociale e debellare tutti i fattori pregiudizievoli presenti all’esterno.

Il servizio sociale quindi, si proponeva di dare un contributo diagnostico sulla situazione familiare e terapeutico attraverso interventi diretti con il paziente, di rendere efficace l’utilizzazione delle risorse presenti nella comunità favorendo i collegamenti tra l’individuo ed

33 G. Civenti, A. Cocchi, L’assistente sociale nei servizi psichiatrici, NIS, Roma, 1994, p. 50. 34 Ibidem.

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altri Enti, contribuendo alla politica di programmazione assistenziale in virtù della conoscenza dei problemi socio-ambientali35 seppur inizialmente con parecchie difficoltà poiché, il ruolo

dell’assistente sociale, era ancora troppo esiguo.

All’interno dell’équipe di un istituto psichiatrico, compito dell’assistente sociale era quello di riconoscere concretamente le richieste ed i bisogni del paziente, studiando il caso e focalizzandosi sulla situazione socio-ambientale di quest’ultimo, effettuare insomma una diagnosi sociale attraverso un’indagine ambientale che si basava su visite domiciliari e colloqui per poi effettuare una diagnosi d’équipe e concordare gli interventi da attuare, iniziò anche a diffondersi l’idea di quanto fosse fondamentale intervenire in ambito extraospedaliero promuovendo una cultura dell’accettazione che abbassasse le barriere del pregiudizio e consentisse un efficace reinserimento sociale dei pazienti.

Gli assistenti sociali iniziarono a lavorare per lo sviluppo dell’assistenza psichiatrica approfittandone anche per rafforzare il proprio ruolo ed iniziando ad operare attivamente sul territorio in modo da prepararlo “all’accoglienza” del paziente.

L’istituzione psichiatrica iniziò ad aprirsi al territorio senza rimanere legata esclusivamente alle attività terapeutiche all’interno dell’ospedale, la maggiore attenzione rivolta al territorio non si basa adesso esclusivamente sulle dimissioni e sul reinserimento del paziente, ma anche sulla prevenzione e sensibilizzazione. È proprio in tema di prevenzione che l’assistente sociale assume un ruolo principale nel definire le linee e la direzione in cui dovesse andare la prevenzione mediando il rapporto tra il sevizio psichiatrico ed il territorio.

Il servizio sociale ha rivisto nuovamente il processo di aiuto, ha messo a punto dettagliatamente diversi modelli di intervento, investendo sul territorio, inteso principalmente come luogo di risorse istituzionali e sociali, a tal proposito, si cercò di creare servizi alternativi quali centri diurni, comunità alloggio, terapeutiche, ma si dovette attendere la fine degli anni 80’ affinché ci fosse veramente una svolta in questa direzione, in seguito all’attuazione della legge 180 si lavorava principalmente con il singolo tramite modelli socio-educativi per favorire il suo reinserimento.

L’assistente sociale può incoraggiare il soggetto ad esplorare la realtà esterna al servizio, permettendogli di utilizzare le agenzie presenti sul territorio quali distretti socio-sanitari di base, patronati, sindacati ed usufruire dei supporti offerti dalla famiglia; qualora il paziente non sia autonomamente in grado di accedere a queste risorse, l’assistente sociale, può aiutarlo mediando il suo rapporto con gli organismi istituzionali consentendogli di sfruttare tutte le risorse disponibili e favorendo il processo di integrazione territoriale.

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L’assistente sociale può, inoltre, integrare il mondo interno del paziente sostenendolo concretamente, ma non nei suoi conflitti interiori la cui elaborazione spetta al terapeuta o allo psicologo, ma favorendo la capacità di prendere decisioni, fare programmi, organizzarsi, incoraggiando la sua capacità a risolvere problemi, acquisendo informazioni dirette circa i bisogni e le esigenze dell’utente. L’assistente sociale entra in contatto sia con i limiti ed i deficit causati dalla patologia mentale, che con le capacità da potenziare e che consentano di formulare una buona ipotesi operativa, ma anche di stabilire il grado di protezione di cui ha bisogno il paziente.

La presenza dell’assistente sociale nella sanità fu comunque sancita dalla Riforma Sanitaria (Legge 833/78) e dal punto di vista professionale una tappa importante è costituita dal DPR n.14 del 15 Gennaio 1987 con cui viene decretato il riconoscimento giuridico della professione di assistente sociale, stabilendone la formazione esclusivamente in ambito universitario36.

Una delle definizioni più chiare ed esaustive dell’assistente sociale è quella redatta dalla Commissione nazionale di studio per la definizione dei profili professionali e dei requisiti di formazione degli operatori sociali in cui si legge: “L’assistente sociale è un operatore sociale che, agendo secondo i principi, le conoscenze ed i metodi specifici della professione, svolge la propria attività nell’ambito del sistema organizzato delle risorse messe a disposizione dalla comunità, a favore di individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno, aiutando l’utenza nell’uso personale e sociale di tali risorse, organizzando e promuovendo prestazioni e servizi per una maggiore rispondenza degli stessi alle particolari situazioni di bisogno e alle esigenze di autonomia e responsabilità delle persone, valorizzando a questo scopo tutte le risorse della comunità37”; da questa affermazione si evince quindi che

l’assistente sociale si rivolge sempre a persone, gruppi o famiglie che hanno particolari bisogni e di cui bisogna individuare immediatamente le caratteristiche per adeguarsi alle loro richieste e riuscire a capire in che direzione andare, si evince che bisogna sempre essere ben a conoscenza dell’organizzazione del proprio servizio e delle risorse disponibili per poterle sfruttare al meglio ed infine, che bisogna sempre, soprattutto in équipe, riconoscere la propria specificità professionale per poter lavorare in modo integrato e redigere un buon programma terapeutico.

La crescita del servizio sociale gli ha permesso, nel caso specifico della psichiatria, di guardare con maggiore attenzione al tema della riabilitazione come messa in contatto dell’utente con il territorio e con il suo ambiente di vita per l’acquisizione delle capacità legate alla quotidianità, compiti che principalmente dovevano essere svolti dall’assistente sociale la quale, si è più volte trovata ad assolvere compiti e funzioni limitate e parziali a causa della eccessiva

36 Ivi, p. 58.

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medicalizzazione e burocratizzazione, rimanendo una professione residuale; ad esempio si chiedeva loro di reperire le risorse ma non di effettuare una valutazione sociale, di guidare il progetto terapeutico con l’équipe, ma non di esserne il coordinatore, tutto questo dovuto non solo al tardo riconoscimento di questa professione, ma anche alla confusione che ancora generava l’idea di prevenzione e riabilitazione e cura, la difficoltà, l’incapacità di posizionare l’assistente sociale nel rapporto tra Enti e servizi psichiatrici, inoltre, negli anni si era principalmente lavorato individualmente con i pazienti senza creare una connessione con il territorio.

In tale condizioni, l’assistente sociale viene pervasa da un senso di frustrazione ed inutilità, è costretta ad abbandonare il proprio specifico ruolo per assolvere funzioni più di tipo psicoterapeutico spesso indistinguibile da altre figure professionali, poiché fondamentalmente non ha alle spalle un supporto, un contesto organizzativo che consenta di garantire un effettivo spazio a questa professione e non continuare ad essere subordinato a quello del medico psichiatra e degli altri operatori.

L’assistente sociale, invece, si configurava come subordinato, come colui che svolge meramente compiti esecutivi, prestazioni per singoli casi, visto spesso come ultima spiaggia per la risoluzioni di casi ritenuti gravi, non riuscendo di conseguenza a dare risposte adeguate.

L’impiego scorretto che veniva fatto dell’assistente sociale chiaramente alimentava i loro sentimenti di frustrazione e rabbia che li portavano all’abbandono e al ritiro e al bisogno di lavorare separatamente e non in équipe, a volte impiegate come mere segretarie per lo svolgimento esclusivo di pratiche burocratiche, altre volte impiegate nelle situazioni di urgenza nella ricerca di un alloggio o di posti di lavoro, insomma richieste di risposte spesso impossibili. Con il trascorrere degli anni il servizio sociale è riuscito pian piano ad affermarsi e a farsi riconoscere come portatore di un bagaglio teorico proprio, con principi e strumenti propri che gli consentono di lavorare in rete, con équipe e comunità, con una buona conoscenza del territorio e dei servizi che ne possono essere attivati nella direzione della inclusione sociale.

In particolare modo con la legislazione più recente (DLG. 229/99) che introduce il concetto di prestazioni socio-sanitarie definite come: “Tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitamente prestazioni sanitarie azioni di protezione sociale in grado di garantire la continuità tra le azioni di cura e riabilitazione”. Tale normativa coinvolse a pieno titolo la professione dell’assistente sociale che si occupa di rilevazione e valutazione del bisogno emergente per la realizzazione di un piano di lavoro integrato che deve produrre il progetto assistenziale individuale come specificato dalla Legge 328/00 ed all’art. 22 stabilisce che tra i servizi che lo Stato è obbligato a garantire ai cittadini vi è il Servizio Sociale professionale che riconosce la centralità delle

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competenze e delle funzioni dell’assistente sociale, professionista che si prende cura del disagio dell’individuo, della famiglia e della comunità e coniuga il mandato professionale stabilito dalla legge e dal codice deontologico.

Nonostante questo, ancora oggi, le difficoltà non sono poche soprattutto in ambito sanitario dove il ruolo dell’assistente sociale tende ad essere subalterno e debole.

Oggi, inoltre, i servizi sociali si scontrano con altre problematiche non indifferenti legate al cambiamento della società, alla perdita del lavoro, alla mancanza di occupazione, alla povertà, alle dipendenze, alla instabilità delle condizioni abitative, alla crescita delle famiglie monogenitoriali con una minore capacità di autoprotezione, all’aumento delle richieste di assistenza per non autosufficienti, all’aumento di una vulnerabilità generale che ha effetti non indifferenti sulla salute mentale.

Sulla base di questo, più che mai oggi, il lavoro con l’utente non può prescindere da quello con la famiglia, con la rete amicale, o di tutti coloro i quali sono vicini al singolo.

Nella relazione di aiuto l’assistente sociale svolge un’importante funzione di advocacy, mediazione, negoziazione, finalizzata alla promozione ed alla tutela dei diritti della persona con problemi di salute mentale e alla sua partecipazione a tutte le opportunità presenti nella comunità38.

Il lavoro sociale si concretizza nel territorio e nel contesto di vita della persona in modo da poter concretamente cogliere le risorse presenti e poterle potenziare e rispondere alla complessità dei bisogni.

La presenza dell’assistente sociale nei servizi del dipartimento di salute mentale permette di prevenire i rischi di psichiatrizzazione e ospedalizzazione della malattia mentale39.

Tra l’assistente sociale e l’organizzazione di appartenenza si crea una “relazione dinamica” in cui l’operatore si fa interlocutore dell’istituzione nei confronti dei cittadini, contribuendo direttamente a personalizzare le risposte e a garantire l’accessibilità a tutti, a salvaguardare le globalità con cui i problemi vengono vissuti, ad elasticizzare le risposte in base alla dinamicità dei bisogni (Elisabetta Neve, 2008).

Con l’introduzione della volontarietà dei ricoveri oggi la persona che accusa un malessere ha la possibilità di recarsi direttamente dal suo medico curante e quest’ultimo, qualora lo reputi opportuno, può metterlo in contatto con i sevizi di salute mentale oppure può direttamente rivolgersi al CSM in cui, tra l’altro, c’è sempre un servizio disponibile per i casi ritenuti urgenti e fissare un appuntamento.

38 A. Perino, I luoghi del servizio sociale, Volume II, Roma, 2013. 39 Ivi, p. 28.

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Nel corso dell’incontro con la persona che ha ravvisato il disturbo, il medico psichiatra dovrà essere in grado, tramite un’approfondita visita e valutazione, se oltre al quadro clinico sono da prendere in considerazione anche aspetti socio-economici e relazionali per cui è necessario coinvolgere l’assistente sociale in favore di un trattamento non solo farmacologico, ma integrato.

Qualora l’assistente sociale venisse coinvolta, si confronterà con tutta l’équipe multiprofessionale per decidere tempi e modalità in cui incontrare il paziente e la sua famiglia. La diagnosi sociale verrà discussa insieme all’équipe per meglio decidere il percorso terapeutico-riabilitativo da intraprendere sempre nell’ottica di integrazione sia con i servizi sanitari che con quelli sociali.

L’assistente sociale che intraprende un percorso riabilitativo con il soggetto, opera per garantire la sua autodeterminazione, la valorizzazione delle sue abilità residue, la ricerca ed il rafforzamento di nuove capacità che gli consentano poi di definire la tappe successive.

L’obiettivo principale è quello di recuperare e rafforzare la capacità di occuparsi di sé, della propria salute, della propria casa del proprio denaro, del tempo libero, di ripristinare la capacità di sostenere gli impegni familiari e lavorativi, di assumersi nuovi compiti e responsabilità40,

aiutare il paziente a fare fronte ai normali obblighi e responsabilità sociali e familiari.

Affinché il paziente possa realmente recuperare la capacità di gestire la propria quotidianità, l’assistente sociale deve promuovere risorse e reti della comunità, ad esempio in modo da garantirgli un alloggio dopo le dimissioni, reperire delle risorse economiche, favorire la ricostruzione delle relazioni con il vicinato, quindi un intervento professionale orientato non solo al recupero del soggetto, ma a tutto il suo ambiente di vita. È proprio questa duplice capacità che dà la possibilità all’assistente sociale di conferire valore al suo lavoro, ciò che veramente identifica la sue potenzialità è la capacità di mettere in atto un vero processo di aiuto ed inoltre considerare sempre questa inscindibilità del soggetto dal suo ambiente sociale.

Questo tipo di intervento consente l’effettiva attuazione degli obiettivi prioritari del Progetto Obiettivo 1998-2000, ovvero:

 Assicurare la presa in carico e la risposta ai bisogni delle persone affette da disturbi mentali gravi che presentano disabilità tali da compromettere l’autonomia e l’esercizio dei diritti di cittadinanza e che sono ad alto rischio di cronicizzazione ed emarginazione;

 Assicurare la definizione e la realizzazione di progetti emancipativi che ne ricostruiscono il tessuto affettivo, relazionale, sociale tramite interventi integrati;

40 Ivi, p. 40.

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 Assicurare l‘integrazione tramite l’apporto di altri servizi sanitari, socio-sanitari e di altre risorse del territorio in particolare per quanto riguarda le attività lavorative, abitative e relazionali.

L’Assistente sociale dopo aver preso in carico il paziente deve aver valutato i principali aspetti di cui prima e quindi, i cambiamenti avvenuti dopo la comparsa dei sintomi della malattia e verificato le competenze acquisite dal soggetto; deve sempre tenere in considerazione il punto di vista del soggetto in relazione alla sua situazione di disagio, in relazione alla descrizione che fa di sé, del suo modo di affrontare i problemi con le difficoltà del passato e del presente. È indispensabile che l’assistente sociali annoti tutto ciò che la persona riferisce in merito alle sue impressioni, stati d’animo, cambiamenti, miglioramenti o nuove difficoltà e che tutto ciò corrisponda ad una specifica data all’interno della sua scheda sociale in modo da poter fare delle verifiche periodiche ed evidenziare eventuali progressioni o regressioni.

Per fare ciò, uno strumento principale utilizzato dall’assistente sociale, è il colloquio sia con il paziente che con i familiari, il quale consente di arrivare a conoscere direttamente i problemi sociali del paziente, di poter approfondire la natura del bisogno, poter studiare diversi aspetti della problematica, tutti elementi utili che consentono di individuare il vissuto del paziente, ma in modo particolare consente di creare le condizioni per lavorare con quest’ultimo che deve riuscire ad accettare l’aiuto. L’assistente sociale, che lavora in ambito psichiatrico, può mettere inizialmente da parte anche aspetti che evidenziano un disagio sociale per poter prima creare le condizioni che consentano di attuare l’intervento più idoneo alla situazione e poter informare correttamente l’interlocutore sulla reale consistenza dei problemi.

Durante i primi incontri l’assistente sociale raccoglie le informazioni principali dell’utente, quindi i colloqui avranno una durata certamente maggiore anche se non bisogna dimenticare che i colloqui devono avere una durata definita anche per evitare che cali l’attenzione dell’utente, ma anche dell’assistente sociale stesso che potrebbe perdere di vista l’obiettivo principale e qualora vi siano argomenti da approfondire è necessario rimandarli agli incontri successivi anche per avere la possibilità di iniziare ad elaborare il primo materiale raccolto. Deve essere prestata attenzione durante il colloquio anche al comportamento, all’uso che l’utente fa dello spazio, la postura che assume, ma anche il tono che conferisce alla conversazione.

Tutti questi aspetti consentono all’assistente sociale di fare una vera e propria diagnosi sociale, è in grado di verificare così i punti di forza ma anche punti di maggior resistenza su cui bisogna effettivamente lavorare e puntare per garantire un buon percorso di aiuto volto alla riabilitazione sociale e verificare altre ipotesi di intervento.

Le funzioni principali della diagnosi sociale consistono nell’avere un valore informativo poiché consente di condividere le informazioni raccolte sul funzionamento psichico del paziente