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Il ruolo del servizio sociale nella disabilita' mentale: l'esperienza in una C.T.A. in Sicilia

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Academic year: 2021

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Ai miei genitori e a mia sorella per aver continuato a credere in me e avermi dato, ancora una volta e nonostante i sacrifici che questo comportasse, l’opportunità di proseguire negli studi.

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Ringrazio il mio relatore Gabriele Tomei per il supporto fornitomi durante la redazione della mia tesi, per la guida nella scelta del materiale e per i consigli fondamentali che hanno permesso l’evoluzione di questo lavoro.

Ci tengo a ringraziare la professoressa Elisa Matutini che, interessata e sensibile al tema da me trattato, mi ha supportata, consigliata ed indirizzata anche nella scelta dei testi consentendomi inoltre di effettuare un’esperienza comparativa presso l’Associazione Alba di Pisa, dandomi l’opportunità di arricchire il mio bagaglio culturale ed esperienziale.

Ringrazio la C.T.A. SALUS di Gibellina per essere stata fonte di ispirazione e di arricchimento culturale e professionale e linfa vitale per la stesura della mia tesi, per avermi accolta fin dal mio primo giorno di tirocinio facendomi sentire a casa.

Un ringraziamento particolare va a Loredana Fontana, colei che mi ha permesso concretamente di svolgere questa esperienza, esempio umano e professionale, professionista nel settore e non solo, guida che mi ha seguita, indirizzata e supportata trasmettendomi tutti i valori della professione di assistente sociale. Aiuto concreto nella stesura di questa tesi, mi ha lasciata un bagaglio emozionale, professionale e culturale che proteggerò e porterò sempre con me cercando di non dimenticare mai i valori che mi ha trasmesso e la dedizione e la passione che si devono celare dietro il nostro lavoro.

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INDICE

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO 1 1. Evoluzione della malattia mentale: cenni storici e terapia 8

1.1. Dal mondo correzionario dell’età classica alla nascita del manicomio 8

1.2. L’epoca della riforma: la 180 e l’organizzazione psichiatrica 11

1.3. La salute mentale oggi 15

1.4. Stigma e malattia mentale 19

1.5. Lavorare contro lo stigma 25

1.6. L’evoluzione della malattia 28

1.7. Disturbo psichico e riabilitazione 31

CAPITOLO 2 2. Psichiatria e servizio sociale 43

2.1. Integrazione socio-sanitaria e ruolo del servizio sociale 43

2.2. L’assistente sociale nei servizi di salute mentale 54

2.3. Équipe multiprofessionale e lavoro di rete 67

CAPITOLO 3 3. Inclusione sociale dei disabili mentali 74

3.1. Inclusione sociale e lavorativa 74

3.2. L’Associazione di volontariato Alba di Pisa 83

CAPITOLO 4 4. Comunità Terapeutica Assistita: struttura tra terapia e riabilitazione 87

4.1. Salute mentale in Sicilia 87

4.2. C.T.A. finalità e funzioni 91

4.3. C.T.A. SALUS Gibellina: la mia esperienza 94

4.4. Attività tecnico-riabilitative svolte presso la C.T.A. SALUS 102

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4.4.2. Laboratorio allena-mente 106

4.4.3. Laboratorio di carnevale “su la maschera” 107

4.4.4. Laboratorio di equitazione ed ippoterapia 109

4.4.5. Progetto la Corrida 111

4.4.6. Valutazione e scelta delle attività tecnico-riabilitative 115

4.5. Casi trattati presso la C.T.A. SALUS 116

4.5.1. Il caso di Rosalia: Disturbo Borderline di Personalità 116

4.5.2. Il caso di Salvatore: Schizofrenia paranoidea 132

CONCLUSIONI 137

APPENDICE 141

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INTRODUZIONE

La stesura di questa tesi nasce dalla voglia di raccontare alcuni aspetti di una realtà molto ampia e delicata che porta con sé i segni di un passato crudele e a volte spietato: la realtà della disabilità mentale, di chi da questa patologia è affetto e di chi, in quest’area, spende tempo ed energie; l’interesse per questo tema è frutto anche della mia esperienza di tirocinio curriculare previsto dal mio piano di studi dell’Università di Pisa, presso una Comunità Terapeutica Assistista: la C.T.A. SALUS di Gibellina in provincia di Trapani.

L’intento è quello di riuscire a ridare voce a coloro i quali, per anni, sono rimasti relegati tra le mura dei manicomi stigmatizzati come folli, ridare voce a tutte quelle famiglie che erano viste come elemento marginale nel percorso psichiatrico del loro parente, riuscire a dimostrare come si sia arrivati all’attuale organizzazione dei servizi di salute mentale, come sia concretamente cambiato il modo di considerare coloro i quali sono affetti da patologie mentali e cosa si fa, concretamente, in termini di reintegrazione, lotta allo stigma e riabilitazione.

Il presente elaborato può quindi essere considerato il prodotto della mia esperienza professionale sul campo arricchita da una ricerca teorica sull’evoluzione della malattia mentale, sull’evoluzione degli strumenti di cura e riabilitazione e sulle figure preposte a questo, con particolare attenzione alla figura dell’assistente sociale e quindi al ruolo e alle funzioni, maturate negli anni, dal servizio sociale all’interno della salute mentale.

Nello specifico, considerata l’ampiezza del tema, degli ambiti e dei numerosi servizi, mi sono soffermata particolarmente su una struttura residenziale di riabilitazione, grazie ad una ricerca di tipo qualitativo, attraverso l’osservazione partecipante e calandomi direttamente nella realtà studiata, analizzandola nel suo naturale svolgersi e cercando anche di valutare il contesto con gli occhi del soggetto studiato.

L’analisi è stata arricchita ulteriormente da un’esperienza comparativa presso l’Associazione Alba di Pisa, grazie alla quale ho potuto rilevare e raccogliere altri aspetti della riabilitazione e della reintegrazione sociale del disabile mentale, attraverso progetti di inclusione socio-lavorativa.

La tesi, nella prima parte, si propone di riportare l’evoluzione della malattia mentale dall’età classica, durante la quale si parlava più specificatamente di follia, come comportamento delittuoso, immorale e criminale, che richiedeva sorveglianza, punizione e non cure in cui, il folle, era visto come un soggetto pericoloso da allontanare e da cui difendersi. La nascita del manicomio come luogo di cura in cui, isolando il malato, attraverso

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trattamenti non più violenti come nel passato, gli si permetteva di riordinare i propri comportamenti. La pazzia, così, diviene a tutti gli effetti una malattia.

Le conoscenze scientifiche contemporanee in materia ci dicono chiaramente che in realtà gli elementi sopra citati non bastano a curare e trattare il malato mentale; per questa ragione si ritiene fondamentale la reintegrazione del soggetto affetto da disagio psichico nel tessuto sociale e il trattamento della malattia, non solo da un punto di vista fisico e clinico, ma mediante interventi che abbraccino tutte le sfere dell’ambiente di vita del malato mentale, attraverso un modello bio-psico-sociale.

Una figura rilevante e di spicco che, certamente, ha segnato la storia della salute mentale denunciando i manicomi e gli strumenti in esso utilizzati e denunciando ad ampia voce e a largo respiro le modalità con cui si consideravano i malati mentali è Franco Basaglia.

Franco Basaglia, con la Legge 180, ha emanato la chiusura dei manicomi ed è stato uno spartiacque tra la vecchia realtà manicomiale ed una nuova psichiatria orientata alla riabilitazione, al reinserimento dei malati mentali in famiglia o in strutture idonee e dedicate. In seguito egli è stato promotore della nascita dei nuovi servizi di salute mentale, istituendo il DSM (dipartimento di salute mentale) ed un nuovo assetto organizzativo che comprendesse il CSM (centro di salute mentale), il CD (centro diurno) l’SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura) e le SR (strutture residenziali).

Il lavoro di tesi si pone inoltre l’obiettivo di evidenziare un altro aspetto devastante con cui la malattia mentale si è misurata negli anni, ovvero, lo stigma, che ha segnato negativamente la vita dei pazienti psichiatrici e delle loro famiglie, con l’auspicio di trasmettere l’impegno e gli strumenti utilizzati per la lotta a questo tipo di fenomeni.

Nella seconda parte della tesi si cerca di delineare il ruolo del servizio sociale nella salute mentale, seguendo un filo conduttore che parte dall’iniziale separazione dell’ambito sanitario e sociale nei confronti dell’intervento di salute mentale, fino all’attuale integrazione socio-sanitaria. Oggi il diritto alla tutela della salute si interseca con il bisogno di assistenza e l’area socio-sanitaria incorpora il sociale; prima con la Legge 833/78 e poi con il D.Lgs n.229/99 che ha provveduto a dare all’integrazione socio-sanitaria una definizione specifica, è stato possibile distinguere tra prestazione sanitaria a rilevanza sociale e prestazione sociale a rilevanza sanitaria; il tutto coronato poi dalla Legge 328/00 Legge quadro per la realizzazione di interventi e servizi sociali, che ha definito i LEA in ambito sanitario ed i LIVEAS in campo socio-assistenziale. La figura dell’assistente sociale, in tempi recenti è divenuta indispensabile in questo settore. Ad essa in un primo momento erano attribuite competenze subordinate a quelle di tipo medico, riguardanti prestazioni meramente

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esecutive. Oggi questa figura professionale viene riconosciuta come in grado di svolgere una corretta diagnosi sociale attraverso colloqui e visite domiciliari, in grado di valutare ogni singolo caso per una corretta definizione degli interventi grazie alla capacità di individuare risorse sia interne al soggetto, che esterne, inerenti il territorio e come figura coordinatrice di tutte le altre professioni ed istituzioni attraverso il lavoro di rete.

La terza ed ultima parte del lavoro ha carattere sperimentale e vuole mostrare concretamente com’è possibile lavorare con i disabili mentali, quali sono le attività tecnico-riabilitative idonee e come si possa concretamente parlare di inclusione e reintegrazione sociale, con il reale abbattimento dello stigma in relazione alla mia esperienza presso una Comunità terapeutica assistita. In merito all’inclusione sociale ci si sofferma sull’inclusione socio-lavorativa dei disabili mentali, attraverso borse lavoro, cooperazione sociale di tipo B, sostegno all’impiego e fattorie sociali, a tal proposito viene presa in esame l’esperienza dell’Associazione Alba di Pisa, in cui mi sono personalmente recata e dall’incontro con la presidente e la psicologa ho potuto constatare quanto abbiano lottato per l’abbattimento dello stigma e per un’effettiva e concreta integrazione dei soggetti con patologia psichiatrica ed ho, in merito, riportato alcune esperienze da loro portate avanti.

Ampio spazio viene dedicato alla mia esperienza di tirocinio presso la C.T.A. SALUS, mettendo in luce le attività da me concretamente svolte come assistente sociale, riportando le attività tecnico-riabilitative svolte dai pazienti, evidenziandone obiettivi e finalità. La tesi si conclude con la presentazione di due casi, poiché hanno suscitato in me un interesse particolare e di cui ho messo in luce la patologia, le problematiche ad essa correlate, gli interventi e la valutazione.

Il fine complessivo dell’elaborato è quello di mettere in luce gli aspetti più salienti sul come è stata considerata la malattia mentale, dagli albori ad oggi, cercando di evidenziare i punti di forza, i traguardi ed i cambiamenti raggiunti, ma anche le debolezze ed i punti critici, sui quali bisogna ancora lavorare e che necessitano di ulteriori cambiamenti.

“Ci sono volte in cui la mente riceve un tale colpo da nascondersi nella follia. Ci sono volte in cui la realtà non è altro che sofferenza. E per fuggire a quella sofferenza, la mente deve lasciarsi alle spalle la realtà” P.Rothfuss

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CAPITOLO 1

1. Evoluzione della malattia mentale: cenni storici e terapia

1.1.

Dal mondo correzionario dell’età classica alla nascita del manicomio.

Non è trascorso poi così tanto tempo da quando l’Occidente ha accordato alla follia uno statuto di malattia mentale1. Tutte le storie della psichiatria hanno da sempre dimostrato che il

folle era un “posseduto” preso all’interno del chiuso circolo di significati religiosi e magici, che non venne mai riconosciuto come malato mentale e non ebbe modo di ricevere sostegno medico.

A partire dall’Alto Medioevo quando Luigi VIII stabilisce per la Francia il regolamento dei lebbrosari secondo il quale, in seguito ad una cerimonia di separazione, questi venivano definitivamente esclusi dalla società e per farsi riconoscere dovevano indossare un campanaccio al collo, ne vennero recensiti più di duemila. A partire dai primi del 1600 la lebbra “si ritira” e ciò che resta sono i valori e le immagini che erano state affibbiate al personaggio del lebbroso, nonché, le strutture ad essi dedicate, le quali saranno in seguito occupate dai poveri e dai vagabondi. Alla lebbra succedettero le malattie veneree, ma i venerei furono accolti negli ospedali ed in poco tempo la malattia si insediò tra quelle che esigevano una cura.

Un fatto curioso da ricordare fu quello della “Nave dei Folli” da cui trasse spunto lo scrittore Sebastian Brant nel redigere la sua opera Sultifera navis e a cui Michel Foucault dedicò un capitolo del suo libro Storia della follia nell’età classica.

Durante il Rinascimento la Nave dei Folli era un battello guidato da mercanti o marinai che trasportava i folli da una città all’altra o in campagne lontane, non a caso, quest’ultimi, avevano spesso una esistenza vagabonda permettendo così, alla città di cui erano originari, di purificarsi dalla loro presenza. Alcuni di loro venivano frustati pubblicamente e poi inseguiti e cacciati dalla città a colpi di verga2 come se si trattasse di un vero e proprio rito insito di significati: da

un lato affidarli a queste navi significava allontanarli dalla città, abbandonarli all’incertezza della sorte e al proprio destino, dall’altro, l’acqua era vista come simbolo di purificazione.

Intorno al XVII la follia inizia ad essere legata alle grandi case di internamento le cosiddette workhouses come principale esperienza classica della follia. Precisamente nel 1656 viene fondato l’Hopital General a Parigi con il compito di accogliere e mantenere coloro che si presentano da soli chiedendo aiuto, ma anche coloro che sono inviati dall’autorità giudiziaria, nonché, i poveri invalidi, i disoccupati, i mendicanti. Struttura che, a prescindere dal nome, non

1 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 75. 2 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2012.

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nasce certo con l’intento di curare come istituzione medica, ma come una struttura semi giuridica che rappresenta il mondo dell’esclusione per cui vi si entra in quanto non si può e non si deve più fare parte della società in quanto incapaci di esserne una risorsa e per evitare che queste strutture diventassero ospedali vi si raccomandava di cacciarne i malati contagiosi. L’obiettivo dell’internamento era evitare che il disordine dei folli creasse uno squilibrio sociale. È all’interno di queste strutture, che si diffonderanno presto in tutta Europa, che nasce davvero l’esperienza dell’internamento. Si pretende di poter eliminare la follia isolandola.

A differenza del Medioevo, adesso, l’internato viene preso a carico da queste strutture, ma a scapito della sua libertà individuale.

Un decreto della Sorbona del 1665 proclamava: “Proibiamo in modo assoluto a tutte le persone di ambo i sessi, di ogni provenienza ed età, di qualsiasi condizione ed estrazione e in qualunque stato possano essere, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili, di mendicare nelle città e nei sobborghi di Parigi, né nelle case o nelle strade, né altrove in pubblico o in privato, di giorno o di notte…sotto pena di frusta per coloro che contravvengono per la prima volta, e per la seconda di galera contro gli uomini e i ragazzi e di bando per le donne e le ragazze”.

Qualche anno dopo, la Salpetriere ospiterà donne e bambini e la Bicetre gli uomini adulti, alla Savonnerie ragazzi tra gli otto e i tredici anni.

Anni dopo iniziano a nascere le case di internamento in Inghilterra nei centri più industrializzati con l’intento di dar lavoro a coloro i quali sono stati rinchiusi e renderli utili alla società in termini di produzione. In realtà la loro scomparsa all’inizio del XIX ha segnato il loro fallimento in quanto considerate prive di efficacia.

Il gesto dell’internamento ha creato certamente un’alienazione in cui il folle si è trovato con altre figure, dai poveri ai criminali, dissidenti politici, omosessuali, coloro che avevano tentato il suicidio. Se in un primo momento si può parlare di esclusione e di alienazione, in un secondo momento si fa certamente largo l’idea della correzione, bisogna essere preparati attraverso il castigo e la penitenza per cui non si potrà essere accettati dagli Hopitale senza un certificato di punizione e attraverso questo verranno ammessi anche coloro i quali sono affetti da malattie veneree. Il morbo venereo, allora, assume il carattere di impurità senza essere considerato malattia vera e propria. Ma per riuscire a comprendere fino in fondo le terapie della follia alla fine del XIX secolo bisogna puntualizzare quale era l’idea di purificazione: se bisogna curare il corpo per fare scomparire la malattia ed il rischio di contagio, bisogna anche castigare la carne percuotendola perché è questa che ci lega al peccato, quindi cura in favore del corpo ma a spese

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della carne.3 Inizia così ad esservi un forte legame tra repressione, coercizione e possibilità di

meritarsi la salvezza.

Nell’età classica la follia è strettamente legata alla sragione come accezione assolutamente negativa e contraria alla ragione; non ci troviamo di fronte ad autori di reato, ma ad ogni forma sociale che si scontra con la lucida razionalità seicentesca.

La fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX hanno visto il compimento del grandissimo movimento di riforma conclusosi con la nascita dell’asilo moderno o per meglio dire del manicomio.

A tal proposito non si può non menzionare l’importante contributo di Pinel fondatore della psichiatria moderna e che divenne direttore del manicomio di Bicetre e della Salpetriere, il suo intento era spezzare le catene dei folli dando spazio al trattamento morale, il quale, doveva tenere conto di un approccio terapeutico personalizzato con dedizione e passione conoscendo approfonditamente il singolo paziente e l’influenza ambientale nella genesi della malattia. Ciò ha segnato sicuramente una grande rottura con il passato.4

Per Pinel, il folle, era un incapace di fronteggiare i propri istinti e gli strumenti “terapeutici” maggiormente utilizzati furono le docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamenti, purghe, oppio, ecc. Iniziò ad esservi una netta distinzione tra coloro i quali erano ricoverati all’interno degli ospedali per cui, i criminali, andarono in carcere ed i folli vennero ricoverati in manicomio dove dovevano essere curati e la cura era l’internamento con la presenza costante di un medico. In realtà, in questo modo, i folli furono avviati ad un isolamento senza fine, gli si precludeva qualsiasi possibilità di riabilitazione. L’istituzionalizzazione rendeva priva di speranza la vita del malato finendo per peggiorare la situazione, compromettendo la sua libertà, la sua individualità e le sue abilità sociali.

All’inizio del 900’ comparvero sulla scena la psicologia e la psicanalisi ed iniziarono a diffondersi le prime teorie di Freud che cercò di affrontare il disturbo mentale prestando attenzione alla psiche del malato sostenendo che questo potesse tornare ad uno stato di normalità attraverso l’ipnosi per mezzo di cui il paziente riesce a portare alla luce elementi di sé e della propria coscienza che non sono più visibili e che creano uno scompenso psichico.

Via via, con l’evolversi della medicina e con la scoperta che i disturbi psichici potessero essere attribuiti ad una origine biologica, i presupposti positivi di Pinel vennero meno e nell’attesa di scoprire le cause fisiche dei vari disturbi mentali, i manicomi divennero sempre più freddi e disumani.

3 M. Foucault, Storia della follia nella età classica, Rizzoli, Milano2012.

4 A. De Ruggero, Lo specchio rimosso: individuo, società, follia da Goffman a Basaglia, Franco Angeli,

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Cominciò a farsi strada nei primi anni 60’ del 900’ il movimento dell’antipsichiatria che accusava la scienza di soffermarsi solo su fattori organici trascurando l’origine sociale dei disturbi. L’antipsichiatria si fonda su alcuni elementi legati al concetto di maltrattamento e coercizione che l’individuo subirebbe nel contesto socioculturale e nel suo ambiente di vita: in famiglia dove vengono limitate le potenzialità del bambino e dell’adolescente; nella società dove ogni forma di protesta o di ribellione è etichettata come follia; nelle istituzioni dove i trattamenti messi in atto impediscono all’individuo di liberarsi da questi condizionamenti.

L’antipsichiatria non nega il disagio mentale e la sofferenza che in alcuni casi può portare il malato mentale a mettere in atto comportamenti irrazionali ed incomprensibili, ma sostiene che tutto ciò non può essere considerato esclusivamente il risultato di una malattia, bensì anche di influenze negative che derivano dall’ambiente. La critica mossa da questo movimento nasce dal considerare che spesso i disagi mentali vengono interpretati in maniera troppo rigida utilizzando le basi genetiche come unica causa dei disturbi psichici, ma in realtà non si possono non prendere in considerazione i fattori ambientali, sociali e familiari. Si rifiuta l’idea che i disturbi mentali vadano curati come qualsiasi altra malattia fisica, il movimento antipsichiatrico si oppone a forme di trattamento costrittivo, combattendo le tecniche fino a quel momento utilizzate per il trattamento dei soggetti devianti. Le cure somministrate nei manicomi del passato vennero considerate vere e proprie violenze sulle persone fragili che in realtà andavano tutelate e di cui si doveva favorire il reinserimento sociale.

Il nuovo approccio cercò di sfidare lo stigma e la discriminazione ed ha contribuito certamente al rinnovamento dell’assistenza psichiatrica portando alla luce i danni prodotti dai manicomi.

I manicomi dovevano essere aboliti.

1.2.

L’epoca della riforma: la 180 e l’organizzazione psichiatrica

“…la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici,

venti anni fa era impossibile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzare voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro: è che ora si sa che cosa si può fare. Noi, nella nostra debolezza in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare.”

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Il pensiero rivoluzionario di Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, fa da sfondo ad un’importante revisione degli ospedali psichiatrici e ai trattamenti da essi adottati; è il fondatore della concezione moderna della salute mentale.

Laureatosi nel 1949, Basaglia nel 1961 si trasferisce a Gorizia, città nella quale fu vincitore di un concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico. Fu proprio lì che ebbe il forte impatto con la dura realtà del manicomio e con le terapie in essi adottate, dalla camicia di forza, all’elettroshock, alla lobotomia. Ciò che colpì veramente Basaglia, oltre allo sdegno di fronte alle condizioni nelle quali versavano i degenti e il clima di violenza e sopraffazione a cui erano sottoposti, fu che l’istituzione colpiva la vera forza della follia. Basaglia ritrova nei ricoverati l’uomo svuotato e privo di ogni energia5. Basta dare uno sguardo ad una delle opere di Basaglia

quale L’istituzione negata per renderci conto di ciò che abbia spinto Basaglia a mettere veramente in discussione tutta la realtà manicomiale. Dice Basaglia: “Negli ospedali psichiatrici è d’uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare a gabinetto. In caso di necessità l’infermiere sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è così lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un “dispetto” nei confronti del personale curante o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia.” E ancora: “In un ospedale psichiatrico ad un malato agitato viene fatta la “strozzina”. Chi non conosce l’ambiente manicomiale ignora di che cosa si tratti: è un sistema molto rudimentale -in uso un po’ ovunque- di fare perdere coscienza al malato, soffocandolo. Gli viene buttato sulla testa un lenzuolo, spesso bagnato, -così da non permettergli di respirare- che si avvita strettamente all’altezza del collo: la perdita di coscienza è immediata.”6

Ciò che certamente accomuna queste testimonianze è la violenza di chi esercita il “potere” nei confronti di chi ne è esclusivamente succube. Basaglia definisce queste istituzioni come istituzioni della violenza che distruggono il malato mentale che vede evolvere lo stato della sua malattia in base al tipo di rapporto che instaura con lo psichiatra. Basaglia individua diversi tipi di rapporto: un rapporto di tipo aristocratico che si basa su un rapporto reciproco fra il ruolo del medico ed il ruolo sociale del malato; un rapporto di tipo mutualistico in cui viene a sfumare la reciprocità e a detenere le redini del rapporto è maggiormente il medico; un rapporto istituzionale in cui prevale assolutamente il potere del medico. Basaglia descrive quindi il manicomio come un’istituzione totale in quanto contenitore della follia che viene meno ad ogni

5 M. Colucci, Franco Basaglia e la clinica psichiatrica, 2003.

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forma di cura e riabilitazione; ciò che si osserva nel manicomio non è il prodotto diretto della patologia ma dell’istituzione stessa.

Ecco che Basaglia mostra come l’internato sia un uomo senza diritti, soggetto al potere dei medici e come effettivamente la sua esclusione dalla società dipenda fondamentalmente non dalla malattia in sé quanto da come i medici e l’istituzione abbiano influito sul rapporto che questi hanno instaurato con la società stessa.

Fu così che, proprio all’interno dell’ospedale di Gorizia, Basaglia comincia una vera rivoluzione andando nella direzione in cui il malato potesse ottenere rispetto, dignità e una nuova libertà.

La follia, secondo Basaglia, non doveva essere vista come un deficit, bisognava rifiutare assolutamente l’idea del malato accomodante che si sottomette all’autorità del medico. Eliminò così tutti i tipi di contenzione fisica, le terapie di elettroshock, furono eliminati i cancelli che evidenziavano lo stato di detenzione in cui vivevano i malati dandogli la possibilità di passeggiare all’aperto, iniziò a negare la realtà manicomiale e a parlare di comunità terapeutica; in un primo momento Basaglia si soffermò a fare terapia con i meno adattabili ed i più aggressivi, proprio per dimostrare che l’aggressività non va contenuta, né limitata, ma bisogna che trovi sfogo la sua libera espressione, evidenziando come spesso questa non dipenda tanto dalla malattia in sé, ma dall’essere considerati ingiustamente “non uomini” in quanto relegati in manicomio.

La comunità terapeutica nasce quindi come antitesi al principio di autorità di cui si parlava prima, come luogo in cui l’aspetto medico e sociale possono incontrarsi e fondersi consentendo al malato di comprendere cosa è la malattia e perché la società lo ha escluso andando nella direzione della riabilitazione.

Dopo l’esperienza di Gorizia, Basaglia, diviene direttore del manicomio di Trieste nel quale istituì laboratori di teatro e pittura. È interessante a tal proposito ricordare la scenetta teatrale messa in campo proprio all’ospedale di Trieste e ricordata con il nome del protagonista, un enorme cavallo di legno e cartapesta denominato Marco Cavallo. Un cavallo pieno di significati che portava con sé i bisogni, i sogni e le richieste dei malati ma anche degli infermieri e di tutti coloro che lavoravano e collaboravano all’interno dell’ospedale. Il cavallo uscirà per le vie del paese e verranno distribuiti volantini che spiegheranno le motivazioni che stanno alla base di questa profonda agitazione, ciò che vi si sottolinea è che, nonostante l’impegno, le condizioni materiali dei ricoverati risentono della mancanza di servizi igienici adeguati, vestiti, cibo decente, le condizioni di lavoro degli infermieri sono disagiate a causa dell’eccessivo lavoro e dei salari irrisori e che manca qualsiasi prospettiva futura per i degenti che così rischiano di

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rimanere nella condizione di esclusi e assistiti.7 Marco Cavallo vuole essere il simbolo di lotta

contro ciò che rappresenta il manicomio in Italia e per tutti quelli che soffrono della vita manicomiale; dietro al cavallo i matti a correre contenti e a confondersi con le gente che si aggrega per negare l’emarginazione e per accogliere chi, fino a quel momento, era stato ingiustamente isolato. Marco Cavallo ha portato ad un rovesciamento simbolico: rappresentò da un lato uomini e donne fragili in attesa di essere liberati e dall’altro la società che avendoli rifiutati e rinchiusi appariva come crudele, egoista e priva di ogni comprensione della diversità.

Basaglia andò oltre, iniziò a sentire l’esigenza che la psichiatria dovesse riconoscere e ammettere di aver fallito limitandosi alla segregazione e all’esclusione del malato mentale; secondo Basaglia il manicomio andava chiuso.

Il 13 maggio 1978 fu approvata in Parlamento la Legge 180 di riforma psichiatrica.

La 180 si è posta in Italia come spartiacque tra la vecchia psichiatria di stampo manicomiale e la nuova psichiatria orientata al reinserimento dei malati mentali nella famiglia o entro strutture dedicate8. La legge conosciuta come “legge Basaglia” richiede una nuova visione della

malattia mentale e una nuova considerazione della diversità, la riforma, divenne strumento per la denuncia di ogni forma di discriminazione nel rapporto sociale con l’altro.

La legge 180 per favorire il reinserimento del malato ha puntato, inoltre, su un sentimento di colpevolizzazione di chi invece questo non lo voleva, come la famiglia che aveva voluto disfarsi del malato mentale e del quale ora doveva occuparsi per tenerlo lontano dai soprusi che all’interno dell’ospedale psichiatrico aveva dovuto subire.

Al posto dell’ospedale psichiatrico, la legge 180, ha istituito il DSM ovvero il dipartimento di salute mentale territoriale di cui si parlerà più avanti prevedendo strutture territoriali quali centri di salute mentale, case famiglia, comunità terapeutiche o riabilitative, servizi di diagnosi e cura, anche se, l’obiettivo principale della legge 180 era il reinserimento del malato mentale in famiglia.

All’interno della legge 180 c’è tutto il pensiero di Basaglia che ha portato allo stravolgimento delle strutture psichiatriche in merito soprattutto alla organizzazione psichiatrica. Si passa dal controllo sociale degli ospedali psichiatrici prima delle legge con l’obiettivo di rendere passive e obbedienti le persone ospedalizzate tramite sistemi di contenzione, controllandole e contenendole dai loro stati di agitazione o in caso di violazione delle regole che hanno portato alla cronicizzazione del malato e ad un deterioramento della carriera psichiatrica, a centri in cui si accettano le origini deliranti del paziente.

7 R. Carli, R.M. Panicci, La cultura dei servizi di salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano 2011, p.

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1.3.

La salute mentale oggi

La legge 180 sancisce la fine del manicomio e impone il ribaltamento della logica su cui si deve fondare l’assistenza psichiatrica. La preoccupazione del legislatore non è più solo quella di difendere la società dal folle creando una barriera tra l’una e l’altro, ma predisporre strutture e servizi diffusi sul territorio che oltre alla funzione di cura devono svolgere anche prevenzione e riabilitazione.

Ne consegue un contributo importante per il superamento della paura nei confronti del folle che era visto fino a quel momento come pericoloso e che cosi aveva determinato e tenuto in piedi la custodia dei folli attraverso il manicomio.

Si passa così dalla necessità della custodia alla garanzia di un trattamento sanitario obbligatorio in modo da garantire che il soggetto non sia allontanato dal suo ambiente di vita; se in passato con la Legge n°36 del 1904 dopo un mese di osservazione del malato, scattava il procedimento giudiziario che internava definitivamente il paziente, adesso, l’Articolo 2 della Legge 13 Maggio 1978 n°180 ACCERTAMENTI E TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI PER MALATTIA MENTALE recita che : “ La proposta di TSO può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentono di adottare tempestive ed idonee misure extra ospedaliere”.

Il ricovero deve essere condiviso da due medici, disposto dal sindaco e convalidato dal giudice tutelare in modo da preservare il carattere transitorio e a tempo determinato dell’intervento. Il TSO consiste quindi in un accompagnamento coatto presso i reparti psichiatrici, solitamente, in SPDC. Il sindaco può emanare l’ordinanza di TSO solo in presenza di due certificazioni mediche che attestino le seguenti condizioni: 1. La persona si trova in uno stato di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; 2. Gli interventi proposti vengono rifiutati; 3. Non è possibile adottare tempestive misure extra-ospedaliere. Le tre condizioni devono essere presenti contemporaneamente e certificate da un primo medico che può anche essere il medico di famiglia e convalidate da un secondo medico appartenente ad una struttura pubblica. Le certificazioni devono essere motivate nella situazione concreta quindi in maniera sostanziale e non in maniera meramente formale. Dopo il ricovero in SPDC non si può condurre il soggetto in altre strutture contro la sua volontà. Il sindaco ha l’obbligo, entro 48h dal ricovero, di inviare il provvedimento di TSO al Giudice che deve convalidarlo entro 48h dopo averlo ricevuto pena la decadenza. Una volta ricoverato il soggetto è chiaramente privato di alcuni diritti come la sua libertà di scelta e la sua libertà individuale, ma restano comunque alcuni diritti inalienabili: - il soggetto può fare ricorso al sindaco contro il TSO ed il sindaco può

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rispondere entro 10 giorni, fatto assolutamente paradossale poiché il ricovero ha una durata di 7 giorni prorogabili per altri 7; - il soggetto ha il diritto di essere informato sulle terapie che gli vengono somministrate; - il TSO non giustifica qualunque forma di violenza fisica e questa, eventualmente, può essere denunciata alla magistratura; - il soggetto ha il diritto di comunicare con chi ritiene più opportuno.

In caso di proroga, il responsabile del reparto, deve comunicarlo al sindaco diversamente viene dimesso o il ricovero può trasformarsi in atto volontario.

La legge 180 è stata quindi un modello e un punto di riferimento per molti paesi. La peculiarità però dell’Italia, rispetto agli altri paesi, è stata piuttosto nella carenza di risorse; in Italia la spesa sanitaria per la salute mentale è molto più bassa rispetto agli altri paesi europei.

Subito dopo l’approvazione della legge 180 si è pensato che con l’eliminazione del manicomio si sarebbe eliminata anche la cronicità della malattia mentale, in realtà, così non è stato poiché, nonostante dall’ambito manicomiale ci si sia spostati all’ambito territoriale, resta comunque l’esigenza di affrontare la cronicità con mezzi e tecniche diverse.

Diversi anni dopo la promulgazione della legge 180 ci si rende conto che coloro i quali non avevano conosciuto i manicomi, ma direttamente le comunità terapeutiche in realtà non guarivano e non appena venivano dimessi il carico rimaneva alle famiglie con la conseguenza che i malati sviluppavano un sentimento di fallimento e frustrazione e la famiglie avevano serie difficoltà nel farsi carico di questo peso.

Le politiche, adesso improntate su una nuova concezione di salute mentale, devono garantire condizioni di vita soddisfacenti ai soggetti affetti da questo disturbo sia attraverso aiuti economici e materiali, sia dandogli la possibilità di vivere in comunità o in residenze transitorie protette e semi-protette, favorendo l’inserimento lavorativo in base alle proprie capacità e inclinazione e l’accesso a contesti di socializzazione; adesso non si deve puntare più sulla segregazione come in passato, ma favorire quanto più possibile il reinserimento nel tessuto sociale.

Nel 1978, dopo che è stato istituito il SSN (servizio sanitario nazionale) con legge 833/1978, il servizio sanitario è diventato un servizio pubblico.

La legge 833 si fondava su principi quali: interventi in materia di prevenzione, cura e riabilitazione; eguaglianza dei cittadini di fronte al SSN; tutela della salute quale fondamentale diritto dell’individuo; programmazione nazionale delle attività sanitarie; coinvolgimento dei cittadini nell’attuazione del servizio mediante l’istituto della partecipazione9.

9 R. Carli, R. Maria Paniccia, La cultura dei servizi di salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano

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Il progetto obiettivo 1998-2000 che porta il significativo titolo “Un patto per la salute” evidenzia due obiettivi principali: il miglioramento della qualità della vita e l’integrazione dei soggetti con malattie mentali; la riduzione dell’incidenza dei suicidi nella popolazione a rischio10. Con esso viene istituito il DSM (dipartimento di salute mentale), ovvero l’insieme

delle strutture e dei servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda di cura e assistenza e si occupano della tutela della salute mentale nell’ambito territoriale definito dall’ ASL, opera inoltre per rimuovere qualsiasi forma di discriminazione, stigmatizzazione ed esclusione nei confronti delle persone portatrici del disagio e del disturbo mentale e per garantire tutto ciò si preoccupa dell’aggiornamento e della formazione di tutte le figure professionali.

Il DSM è dotato di servizi quali: CSM (centri di salute mentale), CD (centri diurni), SR (strutture residenziali), SPDC (servizi psichiatrici di diagnosi e cura), DH (Day hospital).

Il CSM è la sede in cui l’équipe degli operatori si organizzano e coordinano gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale nel territorio di competenza in cui si realizza la vera e propria presa in carico.

In particolare svolge attività di accoglienza e analisi della domanda per rispondere alla crisi e mettere in atto cure farmacologiche e sostegno terapeutico, interventi ambulatoriali per verificare l’andamento del programma terapeutico e interventi domiciliari per conoscere le condizioni di vita della persona, interventi di prevenzione attraverso le cooperative o gruppi di autoaiuto, consulenza specialistica alle strutture residenziali o alle comunità alloggio.

Il CD è una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutiche-riabilitative, dotato di una propria équipe che attraverso appositi progetti consente di apprendere abilità nella cura di sé attraverso attività e relazioni interpersonali individuali e di gruppo. Esso può essere gestito, attraverso apposite convenzioni, dal DSM.

Le SR sono strutture extra-ospedaliere in cui si svolge una parte del programma terapeutico-riabilitativo per utenti di esclusiva competenza psichiatrica che garantisce opportunità emancipative attraverso programmi di formazione e di inserimento lavorativo. Per prevenire forme di isolamento e favorire lo scambio sociale, generalmente, queste strutture sono collocate in zone urbanizzate e accessibili, con adeguati spazi esterni. L’accesso e la dimissione dei pazienti avviene in conformità con il programma individualizzato e periodicamente verificato dagli operatori del DSM e della struttura.

L’SPDC è un servizio ospedaliero dove vengono attuati trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori, è parte integrante del dipartimento di salute mentale e vi operano psichiatri e

10 G. Invernizzi, C. Bressi, Manuale di Psichiatria e Psicologia clinica 4e, McGrawHill, Milano 2012, p.

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infermieri. L’équipe dopo la valutazione specialistica e dopo aver prestato le prime cure e tamponato una situazione di emergenza, può attivare il CSM di competenza per la presa in carico.

Il DH si occupa di prestazioni diagnostiche e terapeutico riabilitative generalmente all’interno dell’ospedale effettuando trattamenti farmacologici.

Oltre a definire la cornice organizzativa e strutturale dei servizi di salute mentale, per verificarne il funzionamento e l’efficacia bisogna prendere in considerazione alcuni indicatori di qualità per il servizio di salute mentale quali la percentuale dei casi trattatati che vengono ricoverati nei reparti psichiatrici acuti, il numero dei pazienti con più di un ricovero l’anno nei reparti psichiatrici, il numero di richieste di ricovero da parte dei medici. Tutto ciò è ritenuto fondamentale perché viene meno il forte legame tra un sistema sociale egoista e una psichiatrica sadica che caratterizzava l’ospedale psichiatrico del passato che preferiva l’istituzionalizzazione del paziente.

Condizione necessaria affinché si possa favorire l’attuazione dei programmi di ciascun servizio di salute mentale è la continua formazione e il continuo aggiornamento degli operatori ed un sistema in grado di rilevare e valutare i risultati degli interventi effettuati, un sistema informativo dipartimentale ed una carta dei servizi per la salute mentale che consenta di comprendere le modalità di accesso ed i servizi erogati.

Infine, ma non per questo meno importante, merita un accenno la questione degli OPG ovvero gli ospedali psichiatrici giudiziari in passato legati al Ministero della Giustizia che negli anni ’70 sostituivano i vecchi manicomi criminali. In seguito alla legge 180 e quindi all’abolizione definitiva dei manicomi, si iniziò a lottare anche a favore della chiusura degli OPG. Nel 2011 ne viene disposta infatti la chiusura a decorrere da Marzo 2013, chiusura poi prorogata ad Aprile 2014 ed infine ad Aprile 2015. Nonostante l’indignazione di molti, tra cui i diversi movimenti “Stop OPG”, in Italia ne restano ancora quattro, precisamente a Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto; gli altri furono trasferiti nelle cosiddette REMS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) con l’obiettivo di ottenere la libertà vigilata in modo da poter tornare presso le loro famiglie, continuando il progetto terapeutico con la Asl di riferimento. Contro le REMS si battono ancora in molti per la loro chiusura in virtù dei principi ispiratori della legge 180 quali il rispetto della persona sofferente e la fiducia nella curabilità dei disturbi.

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1.4.

Stigma e malattia mentale

“Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri” Alda Merini

Sulla base di quanto esposto sopra e alla luce dell’excursus su come i malati mentali siano stati trattati nel corso degli anni, non si può non fare riferimento alla concezione dello stigma e a quanto questo abbia effettivamente influenzato la “carriera” del malato mentale, quale sia stata l’influenza sulla malattia e quanto effettivamente lo stigma abbia potuto portare alla cronicizzazione della malattia mentale; d’altronde gli effetti negativi dello stigma verranno poi presi in considerazione dallo stesso Basaglia nella definizione della legge 180 e costituisce uno dei motivi principali per cui la nuova istituzione psichiatrica, definita dallo stesso, sia principalmente volta all’integrazione e al reinserimento del malato mentale nel tessuto sociale.

La legge n°36 del 1904 definiva il malato come “pericoloso a se stesso e agli altri e portatore di pubblico scandalo” ciò ha certamente rafforzato lo stigma fino ai giorni nostri.

Per lunghi anni la malattia è stata giustificazione di ogni sopraffazione, l’immagine che il malato mentale fosse irrecuperabile ed incurabile ha portato a doverlo gestire solo socialmente senza considerare la malattia in sé, si è instaurato un rapporto che non aveva nulla di terapeutico ma che si preoccupasse esclusivamente di oggettivarlo come malato mentale e come fonte di disturbo sociale. Attraverso la trasmissione di ideologie che si basavano sulla incurabilità ed incomprensibilità si è costruito il castello del pregiudizio.

L’immagine stereotipata agisce di modo che una volta assunto lo stigma di malato mentale, qualsiasi comportamento viene interpretato come sintomo di malattia11.

I primi ad introdurre il concetto di “stigma” furono i greci che utilizzavano questa parola per definire quei segni che venivano incisi nel corpo di chi doveva essere immediatamente riconosciuto in quanto schiavo, criminale o comunque persona che non andava frequentata anzi allontanata soprattutto se la si incontrava in luoghi pubblici.

Oggi questo termine viene utilizzato nella sua accezione classica, ma lo si usa non tanto per indicare uno specifico segno fisico, quanto una minorazione che suscita repulsione o apprensione.

Negli anni 60’ gli studiosi Becker, Lemert e Goffman analizzano a fondo i meccanismi sociali di stigmatizzazione attraverso un orientamento teorico che si occupa dei comportamenti devianti, noto come Labelling theory ovvero teoria dell’etichettamento la quale si preoccupa di definire quanto e come l’etichettamento e la stigmatizzazione possano favorire la devianza. Il deviante non è essenzialmente colui che devia una norma, ma colui che con le sue azioni si

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imbatte nelle norme che stigmatizzano una sua trasgressione, quindi, sono le norme a seconda dei contesti, della cultura e delle leggi che realizzano la percezione sociale del deviante.

La Labelling theory opera una distinzione tra devianza primaria e secondaria, ritenendo la devianza primaria come una condotta deviante che prescinde dalle reazioni sociali e psicologiche, ma consiste nell’allontanamento del soggetto da valori e norme, la secondaria invece è effetto della reazione sociale alla devianza primaria e comporta effetti psicologici poiché il oggetto percependosi deviante si identifica in esso ed in caso di disturbo mentale è proprio la devianza secondaria che porta al coinvolgimento dei servizi e all’ospedalizzazione.

Secondo la Teoria del Costrutto Sociale di cui Goffman è il maggiore rappresentante, sostiene che l’essere etichettato come malato di mente ed essere ricoverato in un reparto psichiatrico altera l’identità sociale di una persona12 e di conseguenza l’individuo non riesce più

a svolgere il ruolo che la società si aspetta da lui; secondo Goffman questo dipende anche dalla discrepanza tra identità privata e sociale degli individui, i quali, non riescono a nascondere la loro sfera privata ed adattarsi alle convenzioni sociali venendo, di conseguenza, etichettati come devianti.

Questi studiosi hanno reso noto come paradossalmente siano proprio coloro i quali sono deputati alla riabilitazione e all’assistenza di questi soggetti a stabilizzare ruoli e identità devianti. Definendo la posizione del soggetto deviante come diverso nella società, automaticamente gli si dispone un’identità ed un’azione attinente, di conseguenza, lo stigmatizzato è portato ad interpretare pienamente il ruolo di deviante ed a rappresentare questa caratteristica come predominante del proprio Sé.

La devianza viene così intesa come un vero e proprio status da conferire agli individui che attraverso il processo di stigmatizzazione rafforzano le loro carriere devianti. Si assiste ad una sorta di profezia che si auto avvera e all’acquisizione della identità deviante.

Questa corrente non si preoccupa quindi di studiare ed analizzare gli aspetti soggettivi del deviante che lo hanno portato ad essere tale, quanto proprio alla costruzione sociale dei soggetti. È una corrente che si basa essenzialmente sull’interazionismo tra individuo e società. L’atto deviante non deriva dalla natura atipica dell’individuo ma dall’averlo considerato tale tanto da avergli attribuito caratteristiche che diventano stabili nell’individuo.

La devianza diventa quindi conseguenza dell’applicazione di etichette e sanzioni nei confronti dei trasgressori. Gli studiosi hanno infatti delineato una distinzione tra devianza primaria e secondaria; la prima si manifesta nel momento in cui il comportamento del deviante non desta preoccupazioni, non crea repulsioni da parte della società e non è soggetto a

12 P.Carozza, Dalla centralità dei servizi alla centralità della persona. L’esperienza di cambiamento di un

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stigmatizzazioni, la seconda, invece, si ha quando il comportamento del deviante causa disapprovazione e richiede un intervento esterno che potrebbe rivelarsi in alcuni casi riequilibrante e in altri fonte di stigmatizzazione e discredito.

Ciò denota come un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’etichetta lo giochino le istituzioni totali e le agenzie preposte al controllo e le norme vigenti. È chiaro quindi che la connotazione di deviante può variare nel tempo in relazione alla definizione normativa. Le teorie avanzate da questi studiosi quindi partano dal presupposto di non considerare nessun atto intrinsecamente deviante, ma è l’etichetta di deviante che lo rende tale.

Becker afferma che: “I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders”. La devianza dipende quindi dalle norme applicate da altri e dalle sanzioni previste nei confronti di chi viene considerato colpevole. È che chiaro che la relatività della devianza non può non farci riflettere sul fatto che queste norme possono essere frutto di chi in quel momento sta al potere e che ha dei particolari interessi.

Lo studioso Goffman ci invita quindi a riflettere su un aspetto importante ovvero che lo stigma può essere generato da un attributo o da uno stereotipo ed inoltre, un’azione che può essere considerata sbagliata e criticabile in un determinato contesto, può essere viceversa apprezzata in un altro. Nonostante ciò ci sono degli attributi che vengono considerati fonti di discredito a tutti i livelli.

Vi possono essere diversi tipi di stigma, quelli creati dalle deformazioni fisiche, quelli considerati conseguenza di una malattia mentale o condanne penali, uso di alcool, tentativi di suicidio ed infine quelli determinati dalla razza o religione.

La psicologia sociale inoltre, fa una distinzione tra stigma esterno ed interno ovvero self-stigma. Lo stigma esterno è determinato dagli stereotipi, pregiudizi e discriminazione; lo stereotipo è una conoscenza strutturata appresa dalla maggior parte dei membri della società nei confronti di altri membri che, nel caso delle persone con problemi di salute mentale, vengono considerate colpevoli della malattia e parassiti della società, ciò porta al pregiudizio nei loro confronti ed alla conseguente discriminazione. Il self-stigma, invece, può o meno dipendere dallo stigma esterno in quanto il soggetto potrebbe identificarsi con lo stigma esterno e quindi avere conseguenze negative riducendo la stima di sé ed ostacolando il raggiungimento di obiettivi personali ma, potrebbe invece identificarsi con gruppi che condividono un’identità stigmatizzata e condividendola la trasformano positivamente sviluppando strategia di resistenza allo stigma.

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Entrare a fare parte di una categoria considerata negativamente da altri membri della società può influire considerevolmente sul livello di autostima e suscitare fenomeni di identificazione negativa13.

L’essere etichettato produce una declassamento di status, l’essere riconosciuto come quel tipo di persona causa isolamento ed autosegregazione che intensificano lo status di deviante, che per altri versi però gli conferisce il diritto ad essere aiutati ed assistiti.

Queste caratteristiche ci spingono spesso a considerare coloro i quali le rivestono come “anormali”, diversi da noi, poiché si discostano dalle caratteristiche o dai comportamenti che noi ci aspettiamo, di conseguenza, mettiamo in atto una serie di discriminazioni che portano ad escludere quella persona dalla società in quanto ritenuta pericolosa o indesiderabile. Stigmatizzando il folle lo si condanna a perdere la sua dignità e la sua umanità classificandolo in base alla sua malattia e rinchiudendolo, privandolo di qualunque contatto con la società che non doveva essere contaminata, ma anzi purificata da questi soggetti.

La psichiatria ha giocato un ruolo importante nell’escludere il malato mentale, il malato è stato rinchiuso e isolato affinché la psichiatria potesse definire, codificare e classificare le malattie attraverso i sintomi.

All’interno dei manicomi, gli internati erano sottoposti ad una serie di umiliazioni e violazioni del sé che hanno comportato un brusco cambiamento nella visione che l’individuo ha di sé. La prima strategia messa in atto è stata la separazione dal mondo esterno e l’eliminazione del ruolo sociale, l’internato non ha più “un posto nel mondo”. L’individuo viene privato del suo aspetto abituale dei suoi beni personali andando incontro ad una vera e propria mutilazione personale, l’immagine di sé viene attaccata tanto che il soggetto non riesce a riconoscersi più ed essendo presentato come internato sarà considerato come persona degna di poca considerazione, aspetti che il soggetto interiorizza e spesso inconsapevolmente riveste.

Tutto ciò ha portato la persona ad interiorizzare di essere diversa, a sentirsi inadeguata, non desiderabile e nei casi più gravi come il caso dei pazienti psichiatrici a costruirsi un’identità sociale che non è altro che il rimando da parte della società e di chi li circonda. Una persona che si trova a fronteggiare un mondo che lo respinge14, ad interiorizzare gli stereotipi negativi

dell’ambiente che lo portano ad auto isolarsi e ad ampliare la discriminazione di cui si è vittima. Lo stigma diviene la cella che la società gli ha costruito intorno.

Quando lo stigma viene interiorizzato, soprattutto per coloro i quali sono stati ricoverati in una struttura psichiatrica, diventa gravoso riuscire ad abbandonarlo e reinserirsi nella società dopo le dimissioni.

13 G. G. Valtolina, Fuori dai margini, Franco Angeli, Milano, 2003. 14 E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Ombre corte, Verona 2012, p. 30.

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Diversi pazienti esprimono insicurezze ed ansie soprattutto quando devono cercare una nuova occupazione poiché il datore di lavoro deve comunque essere messo al corrente del loro stato di salute e possibilmente lo nascondono a colleghi ed amici, ma non si sentono mai perfettamente integrati per cui non appena hanno la possibilità di licenziarsi poiché sono riusciti a mettere qualche soldo da parte, lo fanno per poi trovare un’altra occupazione.

L’idea culturale che negli anni si è diffusa in merito alla malattia mentale ha certamente portato lo stigmatizzato ad affrontare situazioni del genere scoraggiandolo ad essere sincero. Il mondo della malattia mentale, a causa della scarsa informazione e a causa dei pregiudizi frutto di false credenze che la storia ha sempre affibbiato al malato mentale, ha portato quest’ultimo ad affrontare situazioni come la precedente.

Un ruolo rilevante lo hanno giocato, oltre al senso comune, anche i mezzi di informazione ed i mass media esasperando la diversità che fondamentalmente dovrebbe essere oggettiva, bianco è diverso da nero, ma passando il messaggio che qualunque male è colpa del diverso, favorendo così l’amplificazione e la stabilizzazione dei comportamenti devianti alimentando gli stereotipi sociali. Gli stereotipi quindi ricevono un sostegno continuo da parte dei mezzi di comunicazione di massa e nelle comuni conversazioni sociali; nei film televisivi che si occupano di malati mentali, questi entrano in scena con lo sguardo fisso e gli occhi vitrei, la bocca spalancata, mormorando frasi disconnesse, ridendo in modo incontrollabile e che compiono azioni bizzarre trasmettendo quindi uno stereotipo specifico di malato mentale. Leggendo anche i giornali o guardando i telegiornali si assiste quotidianamente a racconti di omicidi, suicidi e violenze che vengono spesso attribuiti a persone a cui è stata riscontrata una malattia mentale ed anche nelle conversazioni quotidiane pur senza volerlo e senza rendercene conto utilizziamo frasi del tipo “sei pazzo’” “sarebbe un manicomio” “ridevamo come matti”, “correva come un pazzo”15.

A tal proposito è utile menzionare l’idea di rappresentazione sociale di Moscovici il quale affermò: “le rappresentazioni sociali sono una serie di concetti, asserti, spiegazioni che nascono nella vita di tutti i giorni, attraverso le comunicazioni interpersonali e vengono create e ricreate dalle persone nel corso dell’interazione reciproca”.

Viviamo in un mondo sociale insito di rappresentazioni e secondo la psicologia sociale, noi percepiamo il mondo quale esso è, e tutte le nostre intuizioni, attribuzioni, visioni sono risposte a stimoli provenienti dall’ambiente fisico in cui viviamo. Tutte le informazioni che noi riceviamo sono comunque distorte da rappresentazioni poiché tutto ciò che noi vediamo, sia nelle persone che negli oggetti, è comunque influenzato dalle nostre abitudini, dalle immagini

15 P. Rutelli, A. Foschetti, L’apprendimento degli stereotipi familiari e sociali sulla malattia mentale,

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apprese dalla cultura che rendono ciò che vediamo così come è. Nessuna mente è libera dai condizionamenti prescritti attraverso le rappresentazioni, il linguaggio e la cultura16. Potremmo

essere in grado di riconoscere quindi, consapevoli di ciò, quelle che sono le nostre credenze, le nostre convenzioni, i nostri condizionamenti e riconoscendoli potremmo imparare ad essere slegati da certi vincoli, ma difficilmente riusciremo ad essere veramente liberi da tutti i pregiudizi. Le rappresentazioni ci vengono imposte, ci vengono inculcate senza che ce ne rendiamo conto ed entrano nella nostre mente influenzando la nostra quotidianità. È così che impariamo ad avere anche una visione distorta di quello che in realtà è un individuo con disturbo mentale, ci fa paura l’idea dell’ignoto, del diverso che minaccia la nostra idea di realtà e normalità che ci è stata imposta. Se veniamo a “contatto” con il diverso mettiamo in atto un’azione di ancoraggio17, ovvero classifichiamo e diamo un nome a qualcosa che per noi fino a

quel momento risultava sconosciuto, in parole povere lo etichettiamo e lo confrontiamo con un prototipo e ciò ci aiuta ad asserire che quella determinata cosa o persona appartiene ad una categoria. La funzione principale delle rappresentazioni sociali è quella di rendere familiare ciò che è estraneo, favorire gli scambi interpersonali e sociali e la costruzione di identità sociali collocando sempre gli individui all’interno di specifici gruppi sociali in modo da poterli riconoscere.

Posto ciò, la vita civile, la vita fuori da queste istituzioni produce ansia e preoccupazione di non potercela fare, tanto che una buona parte degli ex ricoverati fa nuovamente ritorno in istituto. L’internato dentro l’istituto si era alienato dalla società civile e questa alienazione si traduce nel non voler abbandonare l’ospedale e la sua condizione di malato. Una persona che porta l’etichetta di pazzo, malato di mente, schizofrenico, ha una più grande probabilità di rimanere segregato dalla società.

Tutto ciò ha degli effetti anche sulla famiglia, racconta la moglie di un malato di mente: “spesso l’occultamento diventa gravoso. Per evitare che i vicini sapessero il nome dell’ospedale in cui era ricoverato mio marito, dopo che aveva detto loro che si trovava sotto analisi con diagnosi sospetta di cancro, la signora G. doveva correre al suo appartamento per prendere la posta prima che la prendessero i vicini, come erano soliti fare. Ho dovuto rinunciare a far colazione con le donne degli appartamenti vicini per evitare le loro domande e prima di fare entrare gente in casa dovevo correre di qua e di là e far sparire tutto ciò che si riferisse all’ospedale in cui era ricoverato mio marito”18.

Gli stigmatizzati si trovano quindi a dover coprire la loro situazione di disagio, chiaramente nei casi in cui l’eventuale menomazione è fisica, la questione è più semplice, infatti, colui che

16 S. Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna 2005, p. 13 17 Ivi, p. 46.

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non ha una gamba può ricorrere all’uso della protesi, chi ha problemi di sordità può ricorrere all’uso dell’apparecchio e compensare questa mancanza, il malato mentale, invece, dovrà sempre fare i conti con la sua storia, con il suo passato o con eventuali ricadute portandolo spesso a non instaurare relazioni importanti, vivendo sempre nell’ombra per la paura del giudizio degli altri occultando il proprio stigma.

La paura della malattia mentale come assoluta irrazionalità e imprevedibilità sembra ancora essere presente, allora, nell’approcciarsi con chi è affetto da una malattia mentale, in virtù delle umiliazioni subite e delle etichette che gli sono state affibbiate, bisogna agire ed andare in direzione della salvaguardia della dignità umana.

Affinché le ferite delle umiliazioni e le offese subite possano essere risanate è necessaria l’approvazione, il riconoscimento e il rispetto di parte di chi circonda il malato mentale.

Come sostiene lo studioso Mead, l’immagine che ogni persona ha di sé si basa e si forma sulla continua riconferma da parte dell’altro e la storia della follia ci insegna che in passato questi soggetti hanno ricevuto esclusivamente forme di dispregio ovvero un riconoscimento negato19 ; le violenze e le umiliazioni subite in passato si basavano sulla negazione di diritti

fondamentali e le forme di maltrattamento subite hanno tolto a queste persone la possibilità di godere liberamente del proprio corpo, non erano liberi di difendersi e non essendo più padroni del loro corpo hanno perso la fiducia in se stessi ed in tutto ciò che li circondava.

1.5.

Lavorare contro lo stigma

Ciò che risulta rilevante nella carriera del malato mentale è quindi l’essere inserito in processi di disapprovazione, degradazione e isolamento. Nella società contemporanea è molto forte la tendenza a fare una netta distinzione tra devianti e non devianti in base alla biografia del soggetto, allo status e al luogo in cui è inserito. Il soggetto tende quindi a riproporre il comportamento che gli viene rimproverato e lo stigma che viene affibbiato.

I soggetti con disagio mentale hanno visto distrutti la possibilità di una immagine positiva di sé, la possibilità di potersi integrare con il tessuto sociale e la possibilità di essere riconosciuti come soggetti uguali agli altri; sono stati annientati lasciandosi andare giorno dopo giorno alle umiliazioni di chi voleva che fossero totalmente esclusi dalla società e chiaramente le conseguenze per la loro integrità psichica sono state ancora più devastanti.

Ricondurre coloro che sono affetti da un disagio mentale ad esperire esperienze totalmente diverse, a riacquisire nuovamente fiducia in se stessi, a renderli capaci di esprimere i loro sentimenti e bisogni e a nutrire atteggiamenti di stima verso se stessi identificando le proprie

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qualità e capacità è l’obiettivo dell’attuale lavoro sociale e della riabilitazione di cui si parlerà in seguito.

Alla base del lavoro sociale da svolgere con questi soggetti non deve certamente mancare il rispetto per poter varcare i confini della disuguaglianza conservando un reciproco rispetto che non deve essere esclusivamente sentito, ma che va fortemente dimostrato quotidianamente riconoscendo l’altro, cioè il malato mentale, in quanto portatore di diritti e doveri e principalmente in quanto persona con dei sentimenti e delle paure da rispettare e comprendere.

Ciascuno di noi si vede attraverso gli occhi degli altri e spesso agisce di rimando in base all’immagine che gli altri gli rimandano, questa forma di reciprocità è di fondamentale importanza nel lavoro con i malati mentali. Bisogna che l’operatore sociale, nell’approcciarsi con quest’ultimo, sia in grado di rimandare un’immagine positiva che stimoli il malato mentale a credere in se stesso e nelle proprie capacità, che si sappia voler bene, l’operatore deve essere in grado di alimentare quello che Rousseau chiama Amour de soi e Amour prope; l’amour de soi riguarda la cura di sé acquistando fiducia verso se stessi e riconoscendosi degni di rispetto, l’amour prope nasce dal desiderio di essere stimati dagli altri.

L’operatore sociale che sia uno psicologo o nel caso specifico un assistente sociale, è comunque calato nella società insita di preconcetti e pregiudizi e la sua rappresentazione della realtà sarà comunque influenzata dalla storia professionale e dalla routine quotidiana e nel momento in cui interviene con questi soggetti implica automaticamente la sua dimensione esistenziale e personale.

L’operatore sociale dovrà tenere conto dei diversi approcci alla devianza, ma nel momento in cui si trova calato nella pratica quotidiana non incontra la devianza, ma il deviante che è portatore di una sua carriera, di esperienze di stigmatizzazione, di rappresentazioni che gli sono state affibbiate. L’operatore deve comunque scegliere quale strada seguire, se considerare la devianza esclusivamente come una patologia da curare, come una diversità da preservare e rispettare, come opera esclusivamente della stigmatizzazione da parte delle istituzioni stesse.

Certamente il passaggio dall’utilizzo di un criterio diagnostico ad uno basato sulla valutazione, avvenuto negli ultimi anni, fa presuppore che vi sia più un approccio di stampo terapeutico-riabilitativo piuttosto che assistenziale, non a caso la valutazione consente di stabilire un progetto adeguato per ciascun individuo procedendo per obiettivi sulla base delle potenzialità comunque presenti nell’individuo e delle risorse a disposizione procedendo tramite le verifiche dei risultati attesi.

Sulla base di questo l’operatore deve essere in grado di interpretare e scegliere l’intervento più appropriato dopo aver decodificato le azioni dell’utenza deviante scegliendo la strategia migliore sia per l’utente che per l’operatore stesso.

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