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“Il paziente è l’anello di una lunga catena, punto nodale in una rete di interazione la quale è la vera sede dei processi che portano tanto alla malattia quanto alla guarigione”

(Di Maria e Lo Verso)

La Comunità Terapeutica Assistita SALUS è un struttura privata accreditata con il Servizio Sanitario Nazionale, sita a Gibellina, un piccolo Comune della Provincia di Trapani, comunità all’interno della quale ho svolto il mio tirocinio curriculare di Laurea specialistica nel periodo di Luglio/Ottobre 2015.

È una struttura residenziale convenzionata con l’ASP di Trapani e fa parte dei presidi dell’area del Dipartimento di Salute Mentale ed esplica funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative per utenti con esclusiva competenza psichiatrica, sia per il trattamento di

66 Ibidem 67 Ibidem 68 Ibidem 69 Ivi, p.207.

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situazioni di emergenza per cui non risulti necessario il ricovero ospedaliero, sia per assistenza dopo il ricovero ospedaliero o per l’attuazione di programmi terapeutico-riabilitativi che non possono essere assicurati dalla famiglia o condotti adeguatamente nel contesto abitativo di provenienza.

La SALUS si pone come mediatore fra realtà sociale e paziente, come luogo di passaggio in cui, tramite un percorso programmato e delle risposte adeguate ed efficienti al paziente ed ai suoi familiari, si cerca di restituire il paziente alla comunità sociale.

Il principale obiettivo, attraverso la riabilitazione, consiste nel riuscire al miglioramento della qualità della vita attraverso un processo che aiuti da un lato a realizzare il massimo delle potenzialità funzionali psico-fisiche, affettive e relazionali e dall’altro ad adattarsi alle limitazioni connesse alla disabilità attraverso interventi medici, pedagogici e sociali affinché la persona affetta da disabilità psichiche possa fare buon uso delle sue residue abilità fisiche, emotive, intellettive e sociali che gli consentano di vivere, apprendere, lavorare nella comunità con il minimo sostegno da parte delle professioni di aiuto.

La C.T.A. SALUS si impegna costantemente a favorire l’accesso degli utenti alle cure rispettando alcuni principi quali l’uguaglianza poiché non viene consentita nessuna discriminazione per motivi di sesso, razza, etnia, religione o condizioni psico- fisiche e socio- economiche diverse; l’imparzialità da parte del personale sanitario ed amministrativo nel rispetto dei principi della dignità umana; la continuità nell’erogazione dei servizi; l’efficienza dei servizi e l’efficacia delle scelte; la partecipazione all’attività assistenziale viene garantita al paziente ed ai suoi familiari, assicurando la possibilità di accesso alle informazioni sanitarie riferite alla propria persona delle quali si può richiedere copia in qualsiasi momento.

La struttura è ubicata in una zona periferica del paese, ma comunque vicinissima al centro abitato trattandosi di un piccolo paesino, quindi vicina ai diversi servizi quali bar, supermercati ed altri servizi commerciali; è molto grande e costruita su un unico piano, in quanto si tratta di una vecchia scuola elementare, ma risulta ben organizzata in 4 macro aree destinate agli uffici amministrativi, all’area riabilitazione e cura compresa infermeria e sala medici, l’area dedicata alle camere degli ospiti e quella dedicata ai servizi quali cucina, lavanderia, mensa, depositi e palestra, è dotata inoltre di grandi spazi esterni utili alle diverse attività riabilitative e ricreative ed è circondata da molto verde.

Le figure professionali presenti presso la CTA SALUS sono 2 medici specialisti, di cui uno assolve la funzione di direttore sanitario; 2 psicologi, 1 pedagogista clinico, 1 assistente sociale, 7 animatori, 7 infermieri professionali, 2 assistenti amministrativo, 1 addetto alla lavanderia, 5 ausiliari.

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Ciascun paziente gode dell’assistenza del medico di base per quanto concerne la salute fisica, mentre per tutto ciò che riguarda l’ambito psichiatrico resta in carico alla Comunità.

La comunità opera e privilegia il lavoro d’équipe, valorizzando l’interscambio, ma rispettando ciascuno le professionalità dell’altro. L’équipe si fa carico delle diverse necessità della comunità per realizzare un ambiente accogliente per gli ospiti nel quale ciascuno possa ritrovare un proprio spazio, e spazi in comune dove ritrovarsi insieme agli altri riconoscendo la propria identità; coinvolge attivamente gli ospiti in una relazione clinico- riabilitativa che consenta al gruppo di lavoro di interagire con i pazienti ridando senso alla loro quotidianità e offrendo sostegno alla famiglia degli ospiti.

L’ammissione del soggetto da ricoverare in C.T.A. è preceduta dalla proposta motivata dall’Azienda Sanitaria Locale del territorio di residenza tramite il DSM e dall’acquisizione del consenso informato da parte del soggetto da ricoverare.

Il ricovero viene autorizzato normalmente per un periodo non superiore a dodici mesi salvo proroghe successive in relazione ai risultati conseguiti o ad ulteriori necessità; entro tre giorni la direzione sanitaria della C.T.A. provvederà a dare comunicazione dell’avvenuto ricovero al Dipartimento che ha disposto il ricovero, ma ogni paziente può risiedere in comunità 18 mesi prorogabili per altri 6 in accordo con il DSM di riferimento qualora segue un programma terapeutico riabilitativo a carattere intensivo o 36 mesi prorogabili per altri 12 qualora segua un progetto terapeutico riabilitativo a carattere estensivo. Questa è una novità apportata dal DPR della Regione Sicilia nel 2014 riguardante le linee guida del Piano Regionale di salute mentale, infatti, fino al 2014 i pazienti potevano restare in comunità non oltre i 30 mesi.

Qualora si effettui una proroga, questa deve essere comunicata 20 giorni prima della scadenza del periodo di degenza autorizzato, informando il DSM del territorio di residenza del ricoverato, specificando l’ulteriore durata.

Al momento dell’ingresso in comunità viene redatta la cartella clinica individuale, comprendente una parte anagrafica, la scheda sociale, l’anamnesi, l’esame obiettivo generale e neurologico, l’esame psichiatrico e il diario. La cartella può essere implementata dagli esami psicodiagnostici, dagli esami di laboratorio e strumentali, dal progetto riabilitativo, da scale di valutazione e attività funzionali individuali.

Dopo un primo periodo di osservazione e dopo aver esperito le prime indagini sociali e cliniche, l’équipe, elabora il PTI ovvero il progetto terapeutico riabilitativo individuale che comprende la diagnosi sociale e clinica, l’indicazione della terapia farmacologica e di sostegno sociale e di riabilitazione, i risultati attesi, la durata presumibile dell’intervento, la data di verifica degli interventi e di verifica dei risultati raggiunti per una eventuale ridefinizione degli

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obiettivi per favorire il reinserimento sociale e la restituzione alla famiglia o per organizzare un trasferimento in comunità alloggio o altre strutture idonee.

Durante la degenza, i pazienti, hanno facoltà di uscire dalla struttura liberamente o accompagnati dagli operatori, salvo limitazioni imposte dall’Autorità Giudiziaria in caso di soggetti sottoposti a misure di sicurezza.

Possono essere accordati permessi brevi al fine di mantenere aperti i canali di comunicazione con la realtà sociale circostante o per favorire le relazioni interpersonali con i congiunti, per frequentare corsi di aggiornamento lavorativo o per consentire di svolgere l’attività lavorativa esercitata prima dell’ammissione in Comunità. Nel caso in cui vengano concordati permessi prolungati che comportino il pernottamento fuori dalla struttura, ne viene data comunicazione al DSM di riferimento.

Fin dalla mia prima giornata di tirocinio ho avuto l’impressione di entrare a fare parte di una squadra che lavorasse sodo in base alle proprie competenze, ma con coordinazione senza mai valicare ciascuno la professionalità dell’altro, collaborando per l’effettiva riabilitazione del paziente. Nonostante avessi già conseguito la laurea triennale e nei precedenti tirocini curriculari fossi già entrata in contatto con realtà disagiate, le paure erano comunque tante, era una realtà che non conoscevo e non mi ero mai approcciata a questo tipo di disabilità. Nonostante avessi ormai ben chiaro quello che era il lavoro dell’assistente sociale ed i principi e valori ispiratori di questo mestiere, non posso negare che la preoccupazione e forse il pregiudizio in relazione a questo tipo di disabilità fosse tanto, anche io, come il resto dei cittadini, sono inserita in una società che è insita di pregiudizi, di preconcetti e di rappresentazioni sociali, la tendenza a stigmatizzare non è altro che “una strategia adattiva utile alla sopravvivenza” (Haghighat, 2001) e non nascondo che la mia convinzione più grande era che, nonostante si potessero riabilitare questi paziente, la possibilità di recuperarli era minima, ero convinta che mi avrebbero trasmesso poco, che forse, rispetto agli altri tirocini, questo sarebbe stato quello che mi avrebbe formata e gratificata di meno ed è stato questo che fondamentalmente mi ha convinta ad affrontare questo tipo di realtà, la curiosità e la necessità di ampliare il mio bagaglio di conoscenze in merito ai tantissimi casi sociali che l’assistente sociale affronta. Mai scelta fu più giusta.

È con immenso piacere che in pochissimo tempo ho potuto ricredermi su tutte quelle che erano le mie convinzioni in merito alla loro riabilitazione e alla capacità di recupero e soprattutto sulla capacità di ampliare anche la mia intelligenza emotiva. È con tanta emozione ed anche malinconia che sto affrontando questo lavoro, è stato anche un modo per ringraziare i pazienti che ho incontrato nel mio percorso di tirocinio e tutti gli operatori e l’équipe

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professionale che mi hanno permesso di crescere in questo campo. Porto con me tutti giorni il ricordo dei loro sguardi, dei loro racconti, delle loro storie.

Ho acquisito la possibilità di ampliare ancora di più la mia visione della vita, e della realtà dei fatti, mi hanno aiutata a crescere e soprattutto a non perdere mai la speranza, a comprendere che c’è sempre una possibilità anche nei casi e nei momenti più bui, certe volte è difficile e si può fallire, ma tante altre si può riprendere a risalire la vetta della vita. Ho avuto modo di vedere la fatica di chi lavora in questi contesti, di cogliere con mano le difficoltà che comunque si celano dietro il lavoro di équipe.

L’aver avuto la possibilità di abbattere tutte le mie paure ed i miei pregiudizi, ha alimentato ancora di più in me la voglia di favorire il reinserimento sociale di questi soggetti per quanto potessi fare nel mio piccolo. Ho preso consapevolezza che come me, anche tutti i cittadini di Gibellina ed in generale di tutti i contesti sociali ed abitativi, se correttamente informati e se messi nella condizione di entrare a contatto con queste realtà potessero abbattere anche loro il muro del pregiudizio e favorire l’abbattimento dello stigma che costituisce un grosso peso per tutti coloro i quali soffrono di disabilità psichiche.

La mia tutor è stata una grande guida e oltre ad avermi insegnato le armi del mestiere in questo campo, mi ha trasmesso la passione insita in lei ed in tutti i suoi colleghi e collaboratori nell’aver lottato per la trasmissione di una cultura dell’accettazione di questa malattia. Mi ha raccontato che, quando la SALUS doveva essere aperta a Gibellina, in paese c’è stato un gran subbuglio ed una ribellione da parte della comunità che aveva materialmente paura di una realtà che non conosceva direttamente, ma che gli era stata trasmetta attraverso i mezzi di comunicazione spesso infettati da pregiudizi e stigma e che fu proprio questo che spinse tutti a volere con grande forza la nascita di questa comunità in quel territorio. Tutto ciò che non conosciamo ci fa paura ed è anche normale, ma una volta conosciuto non facciamo altro che arricchire il nostro bagaglio culturale anche con quello che ci sembra diverso, tutti siamo diversi ed è proprio la diversità che colora la vita e la realtà che viviamo.

Le attività proposte ed effettuate all’interno della C.T.A. SALUS sono tante, ma tanti sono gli eventi ed i progetti attuati per l’integrazione sociale dei pazienti.

Prima di dedicarmi però a questo aspetto vorrei esprimere concretamente in merito al ruolo dell’assistente sociale quali sono stati i compiti da me svolti all’interno della comunità sotto la guida e la supervisione della mia tutor:

- Contatti con il territorio (Enti Locali, ASL, associazioni ed enti privati) per ottenere un continuo aggiornamento sulle risorse presenti nel territorio ed utili al processo riabilitativo dei singoli pazienti. Rapporti con il Tribunale ed in modo particolare con l’U.E.P.E e giudici tutelari poiché vi erano pazienti sottoposti a misure alternative alla detenzione; altro aspetto che

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mi ha particolarmente arricchita e mi ha dato modo di verificare direttamente come la malattia psichica se non correttamente trattata possa portare i soggetti a mettere in atto azioni violente come sfogo alla loro rabbia repressa e alla loro incapacità di dare un senso al grande trambusto che avviene nella loro mente.

- Raccolta della domanda di ammissione dei pazienti provenienti dal DSM. In genere la domanda di inserimento avviene sia in maniera informale che formale, ovvero, inizialmente è preceduta da una telefonata da parte dell’assistente sociale del DSM che verifica l’eventuale disponibilità dei posti e che ci fornisce dei dati generali sul potenziale paziente; qualora vi fosse la disponibilità da parte della struttura, il DSM, procede con la richiesta scritta di ricovero per un periodo determinato di tempo. A questa richiesta si accompagna una relazione clinica, firmata dal medico-psichiatra responsabile dell’ambulatorio e dall’assistente sociale che ha seguito il caso, in cui viene descritta la storia personale e clinica del paziente, viene fornita una diagnosi psichiatrica e gli obiettivi raggiungibili tramite l’inserimento.

- Trasmissione della domanda a tutta l’équipe per l’approfondimento e la valutazione del caso. Ho avuto, in questo modo, la possibilità di partecipare alle riunioni di équipe durante le quali si è discusso e ci si è preparati all’arrivo del nuovo paziente.

- Accoglienza del nuovo paziente che solitamente avviene con il medico psichiatra e lo psicologo e l’assistente sociale, i quali adottano un atteggiamento emotivo accogliente. Nel corso del primo colloquio, a cui ho avuto modo di assistere, si prendono in considerazione diversi elementi aspetto fisico, abbigliamento, capacità cognitive e relazionali, modalità di comunicazione, consapevolezza dello stato di malattia, motivazione ad intraprendere questo percorso terapeutico-riabilitativo. Gli educatori o l’infermiere poi accompagnano il paziente a visitare la comunità e stabiliranno se è opportuno sistemarlo in una stanza singola o assieme ad un altro ospite “compatibile”

- Compilazione della cartella sociale contenente le generalità del paziente, notizie riguardanti la sua storia personale e familiare, la condizione economica, titolo di studio, stato civile, eventuale invalidità civile, dati di eventuali figure di riferimento, diagnosi psichica. Ho avuto più volte modo di compilare suddetta cartella sia grazie ai dati forniti dalla relazione del DSM sia interloquendo direttamente con il paziente, riuscendo fin da subito ad instaurare una relazione, certo a questo livello ancora da costruire e nutrire.

- Elaborazione del Progetto Terapeutico Riabilitativo Individuale assieme all’équipe. Ho avuto l’occasione di partecipare alle riunioni di questo tipo in cui è stata valutata chiaramente la relazione di invio, si è cercato di ricostruire una ipotesi di intervento, nonché un progetto che tenesse conto dei limiti, ma anche delle potenzialità del paziente. Ho avuto l’opportunità di compilare assieme all’équipe tale progetto avendo modo di notare come effettivamente tenesse

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conto di diverse aree, dalla autonomia personale, all’assunzione dei pasti, alla gestione del denaro, alla gestione dei rapporti con la famiglia di origine, con gli operatori, con gli ospiti della comunità e di tutte le abilità e gli interessi. Come in precedenza esposto il PTI può avere carattere intensivo ed estensivo. Quello a carattere intensivo è rivolto a pazienti con gravi compromissioni del funzionamento personale e sociale che necessitano di interventi da attuare precocemente per prevenire il cronicizzarsi della disabilità. Solitamente sono pazienti che hanno una storia con diversi ricoveri in SPDC. Quello a carattere estensivo è rivolto a pazienti con gravità moderata, ma persistente e invalidante. All’interno del progetto sono inoltre previste le valutazioni in itinere dei risultati raggiunti per poter definire eventuali proroghe che insieme alla mia tutor ho avuto occasione di effettuare. Mi sono personalmente occupata, dietro supporto della mia tutor, della stesura delle relazioni da inviare al DSM per la richiesta di proroga del ricovero del paziente presso la comunità e per il passaggio da carattere intensivo ad estensivo,

ciò mi ha dato l’opportunità innanzitutto di misurarmi con uno strumento con cui noi

assistenti sociali dobbiamo lavorare, inoltre, di riuscire a focalizzare quali fossero gli

aspetti da evidenziare all’interno della relazione riuscendo ad avere un quadro chiaro

sulla condizione psico- relazionale del paziente e di effettuare personalmente un

colloquio con il paziente per delucidargli la sua situazione e permettergli di firmare il

consenso informato.

- Contatti con la famiglia del paziente che viene avvisata del progetto del proprio familiare e con cui avvengono contatti diretti almeno una volta al mese. Il coinvolgimento della famiglia nel progetto riabilitativo del paziente costituisce un momento di fondamentale importanza e delicatezza poiché favorisce il crearsi di una rete di supporto tra il paziente, la famiglia e l’équipe terapeutica; agevola la comprensione dei bisogni; evita la frammentazione e favorisce l’integrazione tra il mondo istituzionale e familiare. Solitamente la famiglia è portata ad assumere atteggiamenti di passività, rinuncia, indolenza a causa dei numerosi fallimenti e delle ricadute dei propri familiari soprattutto in situazioni croniche; si creano insomma, come abbiamo spesso modo di sottolineare, nel nostro ambito lavorativo “le profezie che si auto avverano”, il paziente le percepisce e diventano causa di fallimento. All’opposto anche le eccessive aspettative possono portare all’aumento del disagio nel paziente portando alla svalutazione del trattamento terapeutico. Ciò che quindi ho avuto modo di osservare è che la famiglia deve sempre essere protagonista, insieme al paziente, di tutto il progetto in modo da facilitare e aumentare la collaborazione anche con l’equipe e rendere più accettabile e gestibile la malattia favorendo la presa di consapevolezza da parte del paziente.

- Elaborazione, assieme all’équipe ed al servizio pubblico inviante, del progetto di dimissioni. Una volta ultimato il percorso riabilitativo e raggiunti gli obiettivi prefissati si

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elabora, come esposto in precedenza, un progetto di dimissione che segue o la via del rientro in famiglia o l’inserimento in altra struttura come una comunità alloggio, casa di riposo, gruppo appartamento in base alle singole esigenze del paziente. Nell’elaborazione del progetto conclusivo, assieme alla mia tutor abbiamo contattato sia la struttura più idonea, sia gli altri Enti che si occuperanno del paziente una volta dimesso dalla C.T.A. Fondamentale è stata anche in questa fase la collaborazione con i familiari o con altre figure di riferimento con le quali è stato elaborato un programma comune di obiettivi per il futuro per ridurre soprattutto il rischio di recidive, infatti, bisogna sempre focalizzare e potenziare quelle che posso essere definite “risorse sane” della famiglia avvisandola sulla fase in cui è giunto il proprio familiare, la terapia necessaria alla sua patologia, renderli consapevoli del fatto che il proprio familiare ha continuamente bisogno di sostegno e supporto e quindi bisogna ridurre quelle che sono le loro aspettative sia per evitare un eccessivo coinvolgimento sia per evitare l’isolamento di quest’ultimo. I colloqui finali a cui ho assistito mi hanno resa partecipe di uno dei momenti fondamentali dei percorsi del paziente, poiché in queste occasioni è stata data ai familiari la possibilità d esprimere eventuali dubbi e paure e noi abbiamo avuto modo di osservare ancora una volta le dinamiche familiari invitando la famiglia, in alcuni casi, a fare fronte ad eventuali pecche. Purtroppo non sempre le dimissioni sono così semplici come può sembrare, infatti, ho assistito a dei casi in cui la famiglia ha visto l’inserimento in C.T.A. del proprio familiare come una occasione per liberarsi di quest’ultimo e poter vivere tranquilli non riuscendo ad accettare il fatto che il percorso riabilitativo ha un termine e quindi, vi sono sati casi, in cui non è stata disponibile a riaccettarlo al suo interno e ci siamo dovuti attivare per poter cercare una struttura alternativa alla C.T.A. misurandoci con tutte le difficoltà che, almeno in Sicilia, ci sono ovvero la mancanza di queste strutture e la difficolta degli Enti Locali ad intervenire economicamente a favore di questi soggetti.

- Riunioni di equipe per le verifiche in itinere in seguito alle quali ogni tre mesi bisogna