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Il documento bergamasco dell’

L’impiego dell’appellativo Teutisci per designare, in modo collettivo, un gruppo di persone, è attestato una sola altra volta nella documentazione italica dell’età carolingia, un’attestazione, però, avvicinabile solo in parte alla situazione trentina, poiché manca l’accostamento ai Langobardi. Gli altri pochi documenti 238; Reindel, Bayern vom Zeitalter cit., Die politische Entwicklung cit., pp. 194- 195; Wolfram, Die Geburt cit., pp. 195-196.

(416) DD Ludowici Germanici, n. 2, 830 ottobre 6, e nn. seguenti, fino all’833; cfr. Reindel, Bayern im Karolingerreich cit., p. 236; Reindel, Bayern

vom Zeitalter cit., Die politische Entwicklung cit., pp. 192-194; H. Beumann, Die Bedeutung des Kaisertums für die Entstehung der deutschen Nation im Spiegel der Bezeichnungen von Reich und Herrscher, in Aspekte der Nationenbildung cit., p. 329; Beumann, Unitas cit., p. 546; Wolfram, Die Geburt

cit., p. 195. Sull’adozione fino all’833 della titolazione “re dei Bavari” e sulla sua sostituzione con quella di “re dei Franchi orientali”, in corrispondenza con la ribellione dei figli contro il padre Ludovico il Pio, si veda H. Wolfram,

Lateinische Herrschertitel im neunten und zehnten Jahrhundert, in Intitulatio

cit., II, pp. 105 ss.

(417) Reindel, Bayern im Karolingerreich cit., I, p. 238; cfr. Wolfram,

segnalati, come appresso constateremo, non appaiono in merito utilizzabili.

Il documento bergamasco dell’816, nel quale appare l’appella- tivo Teotischi (418), costituisce il primo documento italico ed anche il primo in assoluto nel suo genere (419), poiché le testimo- nianze di età carolingia, che iniziano dal penultimo decennio del secolo VIII, provengono da fonti normative (420) e da fonti narra- tive, storiche (421) e letterarie o grammaticali (422), e da privilegi regi (423).

Nell’816 (424), in un luogo indeterminato, probabilmente a Bergamo o nel Bergamasco, Audelinda, vedova di Auteramo, conte di Bergamo (425), concede alla chiesa di S. Alessandro l’u- sufrutto della curtis di Paltaringo – località non identificata (426) –, che ella aveva prima riservato a se stessa, in sostituzione del censo da lei dovuto per altre curtes, non menzionate singolarmen- te, situate nella iudiciaria di Bergamo (427).

Il contenuto del documento non è chiaro: non si capisce, ad (418) Doc. dell’anno 816, citato sotto, nota 424.

(419) Notiamo, per inciso, che esso è stato preso in considerazione dalla storiografia tedesca dopo la segnalazione effettuata dal Hlawitschka, Franken cit., p. 144.

(420) Cfr. sopra, t. c. note 372-373 per i concili e nota 374 per i capitolari. (421) Cfr. sopra, t. c. note 376 e 381.

(422) Cfr. sopra, t. c. note 377 e 379. (423) Cfr. sotto, t. c. note 606-607.

(424) Le pergamene degli archivi di Bergamo (a. 740-1000), a cura di M. Cortesi, Bergamo, 1988, n. 9, 816 luglio 19: l’edizione del documento è stata curata da M. L. Bosco.

(425) Hlawitschka, Franken cit., p. 144.

(426) A. Mazzi, Corografia bergomense nei secoli VIII, IX e X, Bergamo, 1880, p. 355.

(427) Il termine iudiciaria è anche in questo caso un’eredità longobarda: cfr. Jarnut, Bergamo cit., p. 91, e sopra, t. c. nota 77.

esempio, se le curtes erano in origine della chiesa vescovile o di Audelinda, che le avrebbe donate «pro anima sua». Nel primo caso saremmo in presenza dell’acquisizione di grosse aziende fondiarie da parte del conte, al quale sarebbero state concesse per ovvi motivi di politica locale, rispondente del resto alle consuetu- dini praticate in ambiente carolingio, che prevedono l’assegnazio- ne di rendite e beni cospicui ai funzionari comitali, ricavati dai beni fiscali o da quelli delle chiese maggiori, come appunto sono le chiese vescovili (428). La sostanza del discorso non cambiereb- be di molto, ai nostri fini, anche nel secondo caso: saremmo in presenza di un’acquisizione rapida di ampi beni da parte del conte nell’ambito del territorio a lui affidato, un fenomeno questo docu- mentato anche altrove, pur se non appare di tanta ampiezza patri- moniale (429).

I primi tre dell’elenco dei boni homines, che presenziano all’at- to, sono caratterizzati in modo collettivo con l’appellativo Teotischis homines, una lettura (430), si badi, che differisce da quella proposta (428) I beni potrebbero essere stati assegnati al conte per ordine regio, secondo una prassi ampiamente attestata nella prima età carolingia: Ganshof, Che

cos’è cit., p. 43. In tale modo i conti od altri grandi personaggi dell’aristocrazia

franca potevano usufruire di consistenti benefici patrimoniali, senza che venisse instaurato fra loro e il rettore dell’ente ecclesiastico un rapporto diretto di vassal- laggio, che nel caso specifico sarebbe apparso tanto più ostico in quanto avrebbe comportato la commendazione di un appartenente ad un gruppo ‘etnico’ domi- nante nei confronti di un appartenente al popolo dei vinti Longobardi, al quale vanno ascritti i vescovi bergamaschi dei primi decenni del secolo IX (Jarnut,

Bergamo cit., p. 33).

(429) Ad esempio, i conti carolingi a Verona: Castagnetti, Il Veneto cit., pp. 54-55.

(430) Le due ultime lettere di Teotisckr nell’edizione di M. L. Bosco, citata sopra, nota 424, si debbono leggere la k come h con legamento di i, la r come una

s finale: si confronti questa s, ad esempio, con la s finale delle parole comis (r. 1), Paltaringus (r. 5), Papiensis (r. 10) e regis (r. 11). La nostra lettura concorda con

nelle edizioni precedenti del Porro Lambertenghi (431) e del Colombo (432), utilizzate dalla storiografia, ed anche da quella pro- posta nell’ultima edizione (433).

Dall’indizio costituito dalla presenza dei tre testimoni Teotischi e da quello dell’investitura per manicias (434) ovvero quella proposta da Brühl, Deutschland - Frankreich cit., p. 202, nota 157.

(431) CDLang, n. 92: «Teotisch ...»; il documento è stato segnalato da Hlawitschka, Franken cit., p. 144, nota 3, che considera, tuttavia, superata questa edizione da quella curata da Colombo, citata alla nota seguente; l’edizione del Porro Lambertenghi è stata utilizzata da Jarnut, Bergamo cit., p. 32, p. 91, nota 93, e p. 160.

(432) A. Colombo (ed.), Cartario di Vigevano e del suo comitato, Pinerolo, 1933, n. 1: «Teotiksan ...», interpretata da Hlawitschka, Franken cit., p. 144, come Teotiskiani. Cfr. anche J. Ehlers, Schriftkultur, Ethnogenese und

Nationsbildung in ottonischer Zeit, in Frühmittelalterliche Studien, 23 (1989), p.

306, nota 19.

(433) Doc. citato sopra, nota 399, p. 17, rr. 9-10: « ... presentia bonorum hominum qui supter manu posuerit vel propria manu sua nomen suum supscripse- rit, id est Borno, Gero, Rigmund, Teotiskr[...] ho|mines [...] ...», con la segnala- zione di due lacune, rispettivamente di mm. 5 e mm. 10. Dall’osservazione della riproduzione fotografica della pergamena originale, compresa nelle tavole annes- se all’edizione dei documenti bergamaschi, non sembra che la segnalazione della prima lacuna, quella che maggiormente ci interessa, sia corretta: tra la lettera finale r di Teotiskr – ma la lettura esatta è Teotischis (cfr. sopra, nota 430) – e la prima sillaba di ho|mines, della quale si legge solo la parte inferiore della lettera

h, non sussiste alcuna lacuna, a meno che non si sia voluto supporre un segno

eventuale di abbreviazione, non segnalato però nell’apparato critico.

(434) Hlawitschka, Franken cit., p. 144, nota 3, che ravvisa nella traditio

per duas manicias un elemento della prassi giuridica degli Alamanni, cita in

merito due documenti, distanti nel tempo: il primo è un placito dell’820, nel corso del quale il conte Ucpaldo, del quale non è detta la nazionalità, forse alamanna (cfr. sotto, t. c. nota 557), investe «per manicia sua» il rappresentante del mona- stero nonantolano (Manaresi, I placiti cit., I, n. 31, 820 marzo 31); il secondo concerne una vendita a Legnago, effettuata da Alamanni per beni nel Ferrarese «per duas manicias» (L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, voll. 6,

con un paio di guanti (435), il Hlawitschka ha dedotto la prove- nienza originaria del conte e della moglie dai territori a nord delle Alpi. Del primo indizio tratteremo; per quanto riguarda il secon- do, possiamo concordare con l’autore, dal momento che, pur essendo le maniciae impiegate anche in formulari di tradizione longobarda, esse vengono consegnate non dal donatore o dal ven- ditore al destinatario, ma quale launechild (436) dal beneficato al donatore (437).

Milano, 1739-1742, II, p. 135, doc. 936 marzo 10, Legnago, riedito ora in I. Marzola (ed.), Le carte ferraresi più importanti anteriori al 1117, Città del Vaticano, 1983, n. 2): del formulario giuridico-simbolico il notaio ricorda solo, alla fine, l’atto della levatio e della consegna al notaio di pergamena, calamaio e penna, cui si aggiungono le due maniciae. Solo il secondo documento suggerisce un nesso tra l’investitura per manicias e la nazionalità alamanna, nesso però che altri documenti, come quelli citati alla nota seguente, prospettano anche con la nazionalità franca.

(435) Sulla corrispondenza di maniciae, termine poco usato invero nelle for- mule, con il guanto – wanto, wantus – o i guanti del formulario franco-alamanno, si veda G. Petracco Sicardi, La formula salica di investitura nell’età matildica e i

suoi antecedenti storici, in Studi matildici, III, Modena, 1978, pp. 260-261, che

utilizza il documento del 936, citato alla nota precedente. Documenti milanesi coevi, che concernono due fratelli, Ernosto, vassallo imperiale, e Hunger, proba- bilmente franchi, mostrano la presenza di maneria – l’equivalenza con maniciae risulta dal confronto dei due formulari – e maniciae fra gli oggetti simbolici dei formulari di tradizione transalpina: CDLang, n. 102, 823 luglio 31, e n. 127, 836 febbraio = MD, I/1, n. 62. Altri due documenti, di uno dei quali è attore, però, un Franco, sono segnalati da Castagnetti, Minoranze etniche cit., p. 165, nota 35, doc. dell’anno 970/971, concernente un Alamanno, e p. 86, nota 92, doc. del 944, concernente un Franco. Il confronto con la documentazione veronese coeva con- ferma l’equivalenza fra wanti e maniciae.

(436) Sull’istituto del launechild si veda sotto, t. c. note 564-568, con cita- zione dei documenti dall’ultimo decennio del secolo VIII ai primi decenni del secolo IX.

Dopo i tre Teotischi, seguono, fra i boni homines, due preti (438) e alcuni laici, connotati dalle località di provenienza. L’ultima in ordine di apparizione è Pavia. Le altre località sono Basilica Nova, Vicongena e Zavanarci: la terza è situata nella iudiciaria di Pavia, nel cui ambito erano forse poste anche le prime due, che non sono, invero, presenti in altra documentazione bergamasca, per quanto finora consta (439). Basilica Nova potrebbe, in questo caso, essere identificata con Basilica Bologna, ora nel comune di Giussago, che appare nella documentazione medioevale con il nome di Basericanova (440) e Basilica Nova (441).

La presenza di boni homines pavesi potrebbe indicare relazio- ni e interessi specifici della famiglia comitale a Pavia e nel territo- rio pavese, oltre a quelli generali derivanti dall’essere Pavia la capitale del regno. Forse anche i tre Teotischi risiedevano in questo

mento di età longobarda (L. Schiaparelli [ed.], Codice diplomatico longobardo, voll. 2, Roma, 1929-1933, II, n. 212, 767 dicembre 6). Anche nei placiti, nei quali la consegna del launechild può sancire l’avvenuta restituzione del bene conteso, l’oggetto, solitamente un capo di vestiario, può essere costituito da un paio di

maniciae: Manaresi, I placiti cit., I, n. 21, 807 febbraio 22, Rieti, e n. 28, 814 feb-

braio, Spoleto; ibidem, n, 67, 865 gennaio, Milano, con riferimento ad un atto di donazione dell’842. Ancora, si vedano un documento milanese dell’833 (CDLang, n. 118, 833 ottobre 25 = MD, I/1, n. 55) e un altro più tardo (CDLang, n. 214, 861 marzo = MD, I/2, n. 104).

(438) Il nome del primo prete, mancante per una lacuna, può essere integra- to con il primo dei due preti sottoscrittori, Iacobus.

(439) Le tre località non sono prese in considerazione da Mazzi, Corografia cit.

(440) E. Barbieri, C. M. Cantù, E. Cau (edd.), Le carte del monastero di San

Pietro in Ciel d’Oro di Pavia. Il fondo Cittadella (1200-1250), Milano, 1988, p.

351 dell’Indice.

(441) E. Barbieri, M. A. Casagrande Mazzoli, E. Cau (edd.), Le carte del

monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia. II. (1165-1190), Milano, 1984, p.

territorio, da maggior o minor tempo; ma la segnalazione della località di provenienza non era una consuetudine generalizzata, tanto meno nel caso presente, dal momento che le tre persone erano già state individuate con un’altra connotazione, pur di natura diversa.