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Il dolore e i dolori: dalla cultura al dolore “necessario”

Parte 3: Il dolore

3.5 Il dolore e i dolori: dalla cultura al dolore “necessario”

Il dolore si declina in una infnità di dolori, dall’ipocondria, al fachirismo, all’autolesionismo, al dolore di un piercing, al dolore durante una performance di body art, durante un parto, durante la tortura. La relazione al dolore e al corpo sofferente è diversa, come diversi sono i dolori e le culture che li accolgono.

La sofferenza è una narrazione soggettiva, perché “la cultura interiorizzata fa corpo all’individuo”554. L’atteggiamento di fronte al dolore non è mai

standardizzato, mille variabili sono in gioco: la società, la cultura, le relazioni, l’educazione, la religione. Il dolore è intimo, ma è anche legato alla situazione, a come e dove e quando sono nel mondo. È per questo che per comprendere il dolore non possiamo cercare solo nell’anatomia o nella psicologia, ma in tutta la storia della persona. Eschilo diceva che il dolore è un errore della mente, che il sapere vero (e quindi l’ampliamento della coscienza) vince sul dolore. La nostra coscienza è impregnata di cultura e la cultura ha il fondamentale ruolo di relativizzare ogni esperienza, quindi anche quella del dolore.

Un primo, importante esempio, è il rapporto tra dolore e religione. Scrive Bowker in relazione all’induismo: “Fondamentalmente la sofferenza è parte dell’universo dell’essere. Può essere estremamente benefca, in particolare se è la premessa di un miglioramento, o se è il coltello che separa gli uomini dal loro attaccamento a oggetti senza valore... Ciò spiega perché l’ascetismo, una

553 Le Breton, 2006, p.34. 554Le Breton, 2006, p.117.

privazione accettata volontariamente, è così importante nell’Induismo. È una parte del processo della messa in prospettiva della sofferenza... La sofferenza è il processo dell’essere divorato e, come tale, è la relazione tra i due principi confittuali dell’universo, la spinta alla vita e la spinta alla morte”555.

Come si può notare l’atteggiamento verso il dolore è molto lontano da quello che tiene invece il cristianesimo, dove l’accento è messo sul valore di redenzione e penitenza del dolore. La distruttività del dolore viene commutata in una forma di purifcazione e di educazione556. Il paradosso del

dolore nel cristianesimo è che, nel redistanziamento da esso, si impedisce che divenga sofferenza morale557. “Come conseguenza della sua

rappresentazione del mondo, il cristianesimo ha inventato una simbolica antalgica che per molto tempo ha permesso ai credenti di resistere ai loro mali, in un’epoca in cui i mezzi farmacologici per lottare contro il dolore non esistevano558». Non è un caso quindi che i paesi cattolici utilizzino in

proporzione molti meno analgesici rispetto a quelli protestanti, che sono invece all’avanguardia nella lotta contro il dolore. L’apologia del dolore che porta avanti il cristianesimo, soprattutto nella sua versione cattolica, è una forma di dolorismo che è praticamente sconosciuta nel mondo islamico559 ed

ebraico. Per il cristianesimo il dolore è inevitabile e necessario, poiché è la colpa per il peccato originale, ma non è certo un valore in sé. Come osserva Le Breton560 la sofferenza è una sorta di alchimia che “transmuta l’anima” e la

avvicina a Dio. Questo però rende la sofferenza desiderabile e addirittura

555 Bowker, 1970. p. 207, citato in Favazza, 2011 (1987). 556 Le Breton, 2010, p.36.

557 Le Breton, 2010, p.37. 558 Le Breton, 2010, p.37.

559 Anche l’autolesionismo va di pari passo e pare sia sconosciuto nel mondo islamico, ma non ci sono ancora sufficienti studi a riguardo.

fonte di gioia. Papa Benedetto XIV scrisse che: “Con l’eccezione dei martiri, la Chiesa venera e conferisce la santità solo a coloro che sono stati zelanti nella mortifcazione della carne e dei sensi”561.

C’è un risvolto interessante e leggermente perverso in questa teoria della sofferenza che avvicina a Dio. Come fa notare Le Breton562, l’asceta, il

mistico, la la persona “stigmatizzata”, “accumula un credito per l’eternità. Così spraffatto, Dio deve antropologicamente (se non teologicamente) profondere la sua benevolenza sulla persona verso cui è obbligato”.

Le Goff563 affronta il tema del dolorismo cristiano che si diffonde nel

Medioevo con i fenomeni delle stigmate e della autofagellazione. “Le stigmate”, scrive Le Goff, “sono i segni delle ferite inferte a Cristo durante la Passione”. Esse “costituiscono un aspetto del crescente movimento di identifcazione fsiologica con il Cristo sofferente che, a partire dal XIII secolo, tende a divenire un sigillo di santità»564. Ad ogni modo, come

sottolinea lo storico, “[l]a fagellazione, riferita anch'essa alla passione di Cristo, incontrò quasi sempre durante il Medioevo l'ostilità della Chiesa. […] La fagellazione non entrò a far parte delle pratiche ascetiche monastiche dell'Occidente, e il suo parziale insuccesso dimostra che l'esempio di Cristo sofferente non doveva spingersi sono ad una martirizzazione estremizzata del corpo”565.

Il dolore come è inteso dal cristianesimo, può rientrare tra gli “usi sociali” del dolore. Il cristiano, mentre soffre, partecipa al sacrifcio di Cristo e in questo modo gli rende onore, quasi “sdebitandosi”. Le sofferenze di Cristo sono infatti testimonianza viva del suo amore per gli uomini. Esiste poi la

561 Citato in Favazza, 2011 (1987), p. 37. 562 Le Breton, 2006, p.183.

563 Le Goff, 2007 (2003). 564 Le Goff, 2007 (2003), p.42. 565 Le Goff, 2007 (2003), p.43.

tortura, di cui parleremo meglio tra un po’, perché il corpo della tortura, il rapporto al corpo nella giustizia566 può essere vicino all’immaginario

autolesionista. Il dolore infitto può essere educativo: esso è un principio di potere e di intimidazione. Come osserva Le Breton567 la libertà di provocare

dolore è l’archetipo del potere su una società o su una persona. La correzione attraverso il dolore, in uso in passato in alcuni sistemi educativi, passava attraverso il castigo corporeo. Tutti questi usi del dolore, nota Le Breton, si alimentano della disparità di forza tra gli individui e fanno emergere la “banalità del male” nella condizione umana568. “L’arte di fare

soffrire l’altro per costringerlo, umiliarlo o distruggerlo, è inesauribile nelle sue realizzazioni”.

È curioso come tecniche abitualmente impiegate nella tortura diventino, nell’agito dell’autolesionista, delle tecniche per curarsi. In questo caso non ci si procura il dolore per il dolore stesso, ma perché esso si opponga ad un’altra sofferenza, ben più atroce. Paradossalmente questo dolore ricompone la persona.

Ma non è così nella tortura proriamente detta. Qui invece il dolore infitto “ha di mira lo spezzare il sentimento di identità569”, fno ad annullare

completamente la resistenza e la possibilità stessa di poter lottare. La tortura è una sorta di inondazione psicosensoriale, senza possibilità di pause o di fltri. Essa cancella la vittima distruggendone la personalità. Il torturatore ha il potere assoluto sul corpo, sull’intimità, sulla dignità, su tutto il mondo della vittima, che diventa un mondo interamente impastato di orrore e terrore. Il corpo viene alienato, privato di libertà, umiliato, svilito, macinato,

566 Cfr. Foucault, 1993 (1975). 567 Le Breton, 2006.

568 Le Breton, 2006, p. 18. 569 Le Breton, 2006, p.197.

stigmatizzato fno a perdere completamente la sua umanità. Nel corpo, è l'uomo che deve essere spezzato, in ogni modo utile.

Il dolore nello sport è invece un dolore profondamente diverso, è un dolore a cui si dà il proprio consenso e che si controlla attivamente, è un dolore a cui ci si “allena”. Molti atleti dicono che per ben riuscire nel loro sport “bisogna saper soffrire”. Ma qual è il punto fondamentale del dolore sportivo ? Come scrive Le Breton, l’atleta è assolutamente e direttamente padrone della pena che si infigge e della durata della stessa: gli può in ogni momento sospendere uno sforzo che giudica troppo intenso.570 Il dolore è

sotto il diretto controllo dell’atleta, gli fornisce un limite e allo stesso tempo una spinta al suo superamento. Simbolizza il contatto fsico col mondo571.

Come osserva Le Breton, questo tipo di dolore mette alla prova la forza di carattere, in una sorta di lotta intima contro la sofferenza. La persona si scontra col mondo e con le sue risorse personali. Le Breton riporta le parole di un pugile: “Se non puoi colpire, vieni colpito, un modo di sapersi ancora in vita”572.

Il dolore iniziatico è quello dei riti di passaggio, che hanno la funzione esenziale di creare e mantenere la comunità. Stiamo qui parlando dei riti delle società tradizionali, ma nei gruppi di pari degli adolescenti ritroviamo almeno in parte anche questa funzione, quando si parla di tatuaggi o piercing. Il rito doloroso fa da collante sociale : un dolore condiviso lega molto più di quanto non lo farebbe qualsiasi altro evento piacevole573. La

prova dolorosa forgia il carattere e testa la forza di volontà e la maturità.

570 Le Breton, 2006, p.205. 571 Le Breton, 2006, p.206. 572 Le Breton, 2006, p.207. 573 Le Breton, 2006, p. 211.

Riporta Favazza574 che in quelle cerimonie dove sono presenti fenomeni di

autoferimento spesso gli iniziati entrano in uno stato alterato di coscienza, una sorta di trance e quando ne escono sostengono di non aver sentito alcun dolore e di non essere coscienti delle loro ferite. Potenza della comunità? Fakir Musafar scrive: “Non senti il dolore, il corpo lo sente, e tu lo osservi registrando o provando la sensazione. Allora non si tratta più di dolore. Se puoi imparare a separare la tua coscienza e la tua attenzione dal tuo corpo, allora puoi fargli qualsiasi cosa e non sentire la sofferenza”575.

Il dolore trasfgura la persona, la modifca anche fsicamente, e questa modifcazione ha un forte valore simbolico. Nasce un uomo nuovo, consapevole di aver superato una prova importante. Il dolore è “l’inchiostro della legge comune scritta sul corpo dell’iniziato”576. Esso è “una incisione

del sacro […] che pone un marchio sulla pelle, sotto forma di memoria indelebile di cambiamento. Esso apre un mondo al di là della percezione che provoca” 577.

Esistono molti altri dolori. Altri esempi signifcativi sono il dolore nella body art. Qui esso è semplicemente indifferente e non ci si ferma di fronte ad esso. Esiste il dolore estremamente ambiguo del parto; esiste il dolore nel masochismo, altro dolore ambiguo perché profondamente intrecciato col piacere e l’eccitazione sessuale. È da sottolineare però che, al di là delle sue fantasie, il masochista578 non ha una soglia del dolore più alta o una alterata

percezione dello stesso579: anche qui è il vissuto emotivo che fa la differenza.

574 Favazza, 2011 (1987), p. 79. 575 Le Breton, 2002, p.94. 576 Le Breton, 2006, p.209. 577 Le Breton, 2006, p.216.

578 Trovo importante non confondere l’autolesionismo con il masochismo, per quanto alcuni comportamenti sessuali estremi, come quelli legati allo strangolamento, all’asfissia e alla stimolazione elettrica, possano essere estremamente auto-lesivi fino ad essere letali.

Esistono poi dei dolori che verrebbe quasi da defnire “necessari”. Al di là del dolore cronico, che diventa parte integrante della vita di una persona, abbiamo, peraltro su un piano completamente diverso, l’ipocondria. Il dolore ipocondriaco assicura una pre-occcupazione per sé e quindi una provvisoria identità e ricompattazione attorno ad un problema. Ci si preoccupa per le componenti del corpo, forse alla ricerca inconsapevole di una unità peduta. Nell’iponcondria si concentrano tutte le proprie preoccupazioni in una specifca area: la ipotetica malattia fsica è un modo per limitare ad un solo punto una emorragia che è invece diffusa in tutta la vita.

Il dolore che dà senso, il dolore per esistere persiste anche presso individui non religiosi, che subiscono l’impronta morale del dolore come pena da superare. Soffro, dunque sono580, è l’identità che ne ricavano. È

come se il dolore fornisse una autorizzazione ad esistere.

Esistono persone che si fanno spesso involontariamente male, che si auto- causano incidenti a ripetizione, in modo non cosciente e deliberato. “Al limite infiggere a sé stessi un involucro reale di sofferenza è un tentativo di restituire la funzione di pelle contenente non esercitata dalla madre o dall’entourage”581. Non necessariamente si tratta di dolore fsico da incidenti

causali, ma si tratta di malattie, oppure di fallimenti di vita, di abbandoni, che incoscientemente cercano per autorizzarsi ad esistere.

Esiste poi tutto un flone che possiamo riassumere con termini quali patetismo, estetica della morte, estetica del corpo sofferente582. Siamo

nell’ambito del’estetica della distruzione, dell’isteria triste583 o cupa, della

580 Le Breton, 2006, p.185.

581 Le Breton, 2006, p.185. Sono i cosiddetti pain prone patients.

582 Rimando al testo di Ugolini (Ugolini, 2009). Si tratta di un testo sull'iconografia della distruzione corporea e dei profondi motivi di questa rappresentazione del corpo ferito, lesionato "auto-distrutto".

valorizzazione della sofferenza dell’esistenza584. Il pessimismo dell’esistenza

porta a costruirsi una identità sofferente. L’estetica è legata alla patetica attraverso la moda dei vampiri che è in voga oggi presso gli adolescenti, moda che, è da notare, rimanda direttamente al consumo e allo scambio di sangue. L’estetica della morte è abbastanza diffusa tra gli adolescenti: la tanatologia è spesso legata ad ambienti gotici, così come è tra gli adolescenti che troviamo spesso quell’isteria triste e cupa585 che porta ad amare le cose

che soffono, ai comportamenti ordalici, agli stati limite. Ma cosa si cerca con questi atteggiamenti?

Vi è una seduzione essenziale della barbarie, particolarmente nell’adolescenza: l’adolescente è quel barbaro che uccide il bambino dei suoi genitori. E lo uccide ad esempio attraverso droghe o tatuaggi. La distruttività è in fondo vita ed eros, un eros che porta alla morte, morte che in questo senso diviene vita per eccellenza.

Da citare in questo contesto il libro Polina 1880 di Pierre Jean Jouve586. Il

romanzo, ambientato a Torino, narra di una personalità passionale fno all’eccesso, fno a cercare di soffrire, al limite col misticismo. Vi si mescolano sensualità e morte, amore carnale e mistico. La protagonista, personalità potentemente passionale e torturata, è affascinata da immagini religiose di corpi martoriati e sanguinanti, avrà una relazione adultera e poi una esperienza mistica, ma darà scandalo anche in convento. La passione amorosa sarà così travolgente da rifutare il matrimonio e infne uccidere l’oggetto del suo desiderio, per poi tentare di uccidersi. Dopo essere stata in prigione, fnirà la sua esistenza conducendo una vita povera e serena.

La dimensione mistica dell’amore si intreccia in questo testo con la volontà di soffrire e di offrire questa sofferenza a qualcuno. È signifcativo

584 Cfr. Cioran.

585 Mi richiamo sempre alle riflessioni di Charbonneau. (Charbonneau, 2007). 586 Jouve, 1959 (1925).

infatti che il tema dell’amore carnale si leghi a quello dell’amore mistico, il tema del soffrire al far soffrire.

Scrive Nietzsche in Genealogia della morale: “la sofferenza, la malattia, la bruttezza, il danno volontario, la mutilazione, le mortifcazioni, il sacrifcio di sé sono cercati allo stesso modo di un godimento”587. Ci si compiace della

derelizione. L’odio del mondo e di sé si esprime in una sorta di lamento depressivo. Il desiderio qui non è di modifcare il corpo, ma semplicemente quello di soffrire: vogliamo avere male.

Questa isteria di sofferenza, o isteria cupa, può nascondere una depressione latente oppure dell’impulsività, oppure una estetica ordalica del tutto per il tutto, comune agli stati borderline. Scrive Charbonneau, parlando della situazione esistenziale delle persone isteriche: “Isteria cupa signifca che il mondo è sempre nero, non è portatore di alcun avvenire, e che, coscienza infelice, non fa che esprimere questa condizione d'essere. Possiamo chiamarlo lo stile barocco nero.”588 Prosegue Charbonneau: “La

cupezza può avere il viso del pessimismo mondano, del disincanto o del discorso eccessivo che deplora la decadenza generalizzata.” Nella moda gotica adolescenziale è centrale l'immagine di morte e in questo espressionismo “nero” la sofferenza si ubriaca di sé stessa. Il gotico fantastico può giungere al cinismo, all’iperrealismo pseudodepressivo. Ma, è utile ricordarlo, l’estetica della miseria si ferma dove comincia la vera miseria.

Il dolore del tatuaggio è un dolore “non importante”, un dolore rispetto al quale si passa oltre, godendosi anche il piacere del fatto che la mente riesca a padroneggiare il proprio corpo. Le Breton589 riporta i racconti sul dolore

del piercing : “Il momento della penetrazione nella carne è paragonato anche a una droga naturale al 100 %, dà l’impressione di librarsi in aria, anche se si

587 Cit. in Jonkeere, 2009, p.24. Nietzsche sta parlando qui della vita ascetica. 588 Charbonneau, 2007, p.68.

ridiscende velocemente”. E ancora: “È una sensazione di apertura del corpo e di comunicazione con l’ambiente. È abbastanza terribile da vedere perché è comunque un’incisione abbastanza profonda e si vede il corpo che si apre”.

Il dolore dell’autolesionismo è invece quel dolore che affronteremo nel prossimo capitolo, il vero cuore pulsante (e sanguinante) di tutto questo lavoro. Vedremo che da un certo punto di vista non sarà un dolore così diverso dagli altri di cui abbiamo parlato, dall’altro per la sua funzione è piuttosto paradossale. Il dolore in questo caso serve come strategia di adattamento, è un dolore omeopatico, è un dolore che dà una scossa tale da riportarci al mondo e ad una qualche forma di equilibrio. Come afferma Le Breton, l'attacco al proprio corpo sembra l'ultimo tentativo disperato di mantenersi al mondo, di fare presa sull’esistenza.