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L’incomunicabile e l’etica: il dolore e gli altri

Parte 3: Il dolore

3.4 L’incomunicabile e l’etica: il dolore e gli altri

“Nessun linguaggio può pretendere di comprendere questo dolore del mondo”544. Il dolore è fondamentalmente incomunicabile, crea una distanza

invalicabile, ma allo stesso tempo esso è il destino comune. Come cerchiamo di rappresentarsi ciò che vive l'altro? È impossibile sentire davvero il dolore dell’altro, allo stesso modo in cui è impossibile essere nel suo corpo. La pelle è una barriera che separa dolore da dolore, corpo da corpo. L'uomo è impotente a “dire con precisione questa intimità torturante. Le parole mancano di un peso di carne545”.

Allo stesso tempo però un dolore condiviso conduce ad un sentire comune: esso è uno straordinario collante sociale, molto più potente del piacere o della gioia. Come sostiene Natoli546, con la produzione collettiva di

grandi immagini del dolore, questo diventa comunicabile ed è possibile elaborarlo. È il caso ad esempio del cristianesimo e della martirologia.

Il dolore, scrive Charbonneau547, “lascia ciascuno solo, senza altra

espressione che il suo lamento. Il dolore ci ritira bruscamente dalla comunità viente. Chi soffre si allontana dal mondo comune”.

Il lamento, traduce una emozione, ma è anche un messaggio molto particolare indirizzato all’altro, perché “taglia la comunicazione, trasformando l’altro in semplice ricevitore e ricettacolo548”. Il dolore smonta e

infne distrugge il linguaggio, il quale si riduce, nelle situazioni più estreme, a suoni inarticolati. L’angoscia al limite può essere comunicata meglio, anche perché si possono trovare vie di sfogo nell’agire, essa può anche diventare

544 Maldonato, in Callieri, 2001. 545 Le Breton, 2010, p. 47. 546 Natoli,1986.

547 Charbonneau, in Granger, Charbonneau (a cura di), 2009, p.18. 548 Granger, in Granger, Charbonneau (a cura di), 2009, p.13.

contagiosa. Solo il dolore è così personale da non poter essere comunicato, creando una distanza invalicabile. Si noti che spesso per esprimere il proprio dolore si usano metafore che prendono a prestito il lessico della tortura.

La sofferenza inoltre chiama a sé il pudore, a volte anche la vergogna. Non si espone la propria sofferenza a sconosciuti, ma essa risulta spesso intollerabile anche alle persone più care. Il dolore autorizza più facilmente il rifuto sociale, soprattutto in una società, come la nostra, che non integra più in sé né la morte, né il dolore. Scrive Ricoeur549: “Soffrire è sempre soffrire

troppo. A quel punto il paradosso del rapporto all’altro è meso a nudo. Da un lato sono io che soffro e non l’altro, i nostri posti sono insostituibili; dall’altro lato, malgrado tutto, a dispetto della separazione, la sofferenza […] è appello all’altro, richiesta impossibile da esaudire”.

L’uomo sofferente è anche più in-sofferente, ha i nervi scoperti e qualsiasi piccola cosa può precipitare la sua situazione psicologica già precaria. Anche questo rende diffcile il compito di chi gli sta accanto. Alcune malattie, inoltre, fanno nascere nell’individuo il sentimento di essere fsicamente indegno, quando non repellente.

Il dolore vissuto non si vede, se non c’è una alterazione corporea, esso non oltrepassa i limiti del mio involucro corporeo. Una ferita invece è visibile chiaramente. Gli autolesionisti infatti si feriscono, non si fanno “soltanto” male: deve esserci una lesione che appare. Ci sarebbero altri modi di farsi male che non comportano segni visibili, ma la “scelta” (che non è affatto una scelta) cade sulla ferita e sul sangue.

Il dolore può mettere in scacco l’incontro con l’altro, ma il legame sociale rimane un elemento determinante per il vissuto del dolore. Per questo la gestione sociale del dolore rimane fondamentale. Proprio perché il dolore è un’esperienza universalmente condivisa, esso è sempre una domanda, ancorché muta, verso l’altro: esso chiama sempre l’altro in causa.

Accedendo al dolore altrui, possiamo provare empatia, attraverso analogia interna550 o possiamo anche incappare in un voyerismo di esistenza.

Possiamo fare diventare la sofferenza racconto, anche se non è possibile ricordare fno in fondo una sofferenza vissuta. Ad ogni modo lo sguardo dell’altro sul mio dolore, la presenza dell’altro può essere determinante. Pensiamo all’effcacia dei placebo, ad esempio, ad una madre che consola un bambino, pensiamo anche alle varie tradizioni popolari in termini di guarigione, che spesso vedono la presenza del “tocco terapeutico”, un contatto fsico che sarebbe fonte di guarigione.

“La forza del legame intenzionale intersoggettivo […] non può accettare di essere defnitivamente rotto”551. Questo porta il discorso sulla tematica di

dolore ed etica. Come sostiene Charbonneau, ogni spazio interumano è centrato sulla condivisione patica552. In ogni sofferenza singola si ripropone la

sofferenza che tutti hanno vissuto o prima o poi vivranno. Anche in questo senso la sofferenza chiama sempre in causa lo spazio intersoggettivo. Se non ci si può avvicinare al dolore fsico dell’altro, forse ci si può avvicinare alla sua sofferenza morale, perché inevitabilmente la sofferenza dell’altro ci chiama. Possiamo provare pena, empatia, disgusto, colpa (se ne siamo causa), ma molto diffcilmente possiamo restare indifferenti; allo stesso moto possiamo diminuire o aumentare quella sofferenza, dare un senso o toglierlo. Perché non c’è più grande sofferenza di quella che viene negata, nascosta, non ascoltata.

Il dolore solleva molteplici questioni etiche, come quelle sull’uso degli analgesici o dell’eutanasia. Si può scegliere un trattamento medico piuttosto che un altro perché c’è una morale implicita che lo sostiene553. Così pure la

dignità del dolore non è uno stato, ma una relazione sociale. Essa dipende

550 Tesi husserliana e scheleriana.

551 Garelli in Granger, Charbonneau (sous la direction de), 2009, p.43.

552 Charbonneau, G. Pour une pathétique. Phénoménologie, herméneutique et psychopathologie de la

strettamente dalla reazione degli altri al mio dolore. Il rischio di sentirsi “un peso” per gli altri è sempre grande. La presa in carico del dolore non può non considerare il carico di sofferenza emotiva.