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Dolore e mondo, dolore e senso

Parte 3: Il dolore

3.3 Dolore e mondo, dolore e senso

C’è un nuovo atteggiamento verso il dolore che è tutto moderno e che è da mettere in evidenza: l’algofobia. Scrive Le Breton524: “Al giorno d’oggi la

modernità trasforma la relazione di ciascun attore alla sua salute in questione puramente medica, il dolore ha perso per molti ogni signifcato morale o cultura; esso incarna lo spaventoso, l’innominabile. […] I sondaggi rivelano che la paura di soffrire suscita uno spavento nettamente superiore al fatto stesso di morire. Il dolore è oggi un non-senso assoluto, una pura tortura. Esso traduce l’irruzione di qualcosa che è peggio della morte in una società che non integra più né la sofferenza, né la morte come dati della condizione umana”. Come scrive Baudrillard: “Non è normale essere morti al giorno d’oggi, e questa è una novità”. Nella nostra società dolore e morte sono relegati in luoghi deputati e trattati da specialisti. Le questioni della salute e della malattia sono sottratte all’uomo comune e sono affdate all’apparato medico-tecnico. Questo impedisce di mettere in campo le proprie risorse

523 Le Breton, 2006, p.226.

morali o gli antichi sistemi di senso. In Confessions d’un chirurgien, Selzer525

racconta uno strano episodio della sua carriera, emblema di come la desolidarizzazione del dolore dalla trama culturale possa lasciare l’uomo senza risorse e senza punti di riferimento: “Un giorno, entrando in una camera, sorprese una donna recentemente operata, con un rasoio in mano, l’addome già lacerato e la mano immersa all’interno a frugare gli organi. Dopo essere stata di nuovo curata ed essere fuori pericolo, ella interroga il chirurgo: ‘Doveva fare molto male, vero? Voglio dire: se si fosse trattato del moi corpo, avrei avuto male. Ma non sento nulla !’ E all’improvviso so, comprendo ciò che ella andava a cercare al fondo di se stessa: il suo dolore”.

Esiste una sociologia della sofferenza che ha visto la nascita, nella seconda parte del XX secolo, dell’anestesia e dei farmaci antalgici, che hanno rivoluzionato il nostro approccio al dolore e alla malattia526. Perché,

ricordiamolo, la malattia come entità legata alla società e ad alcuni vissuti, è la creazione di una diagnosi. Senza diagnosi, la malattia sarebbe vissuta in modo completamente diverso.

Nella malattia il soggetto è ridotto al corpo che è e questo corpo parla attraverso il sintomo. Il sintomo è in qualche modo l’incorporazione della struttura del linguaggio da parte del corpo. È molto interessante la questione dell’“arto fantasma”: un arto che comunica dolore, che è segno di dolore, ma che non esiste più. Solo il dolore rimane : la sofferenza è la sola cosa che abbiamo ancora.

Il dolore, scrive Le Breton, è somatizzazione e semantizzazione527. Il dolore

è corpo, ma anche signifcato, perché confronta una affezione del corpo con

525 Selzer, 1987, p.151, citato in Le Breton, 2006. p.169.

526 Il monito di Nietzsche è: “Sì alla vita e quindi sì alla morte”. Sì al piacere e quindi sì anche al dolore. Nietzsche, ne La gaia scienza (Nietzsche, 1993 (1882), Libro I, paragrafo XII), descrive come piacere e dolore sono annodati insieme con un laccio; chi vuole avere il più possibile dell'uno, deve avere anche il più possibile dell'altro. E si rivolge alla scienza (medica): “Se dunque volete deprimere e attenuare l'umana capacità di soffrire, allora dovete anche deprimere e attenuare l'umana capacità di gioire”.

un mondo di valori e di sensi. Naturalmente il senso non sta presso le cose, ma il senso si “fa”, si produce nella relazione tra noi e le cose, tra noi e gli altri. Diversi orientamenti affettivi, cognitivi, culturali danno un senso, un vissuto, un’espressione diversi alla sofferenza. La sofferenza dipende dai contesti sociali, culturali, personali e anche contestuali. Esiste ad esempio una ben dimostrata infuenza della madre, attraverso il suo atteggiamento, sulla sofferenza del bimbo. Anche l’estetica dei luoghi di cura infuenza la percezione del dolore e addirittura direttamente il consumo di analgesici. La risposta al dolore è anche frutto dell’educazione, del credo religioso. Esso è insomma, per l’essere umano, continua attività di senso.

Nella morale stoica ad esempio il dolore è semplicemente naturale e non ha, di per sé, alcun signifcato. L’uomo ne soffre solo se il suo giudizio verso di esso è negativo, perché è l’opinione che l’uomo si fa degli eventi che è fondamentale. Ecco perché gli stoici raccomandano fermezza e tranquillità di fronte alle circostanze, perché l’intensità del dolore è prima di tutto una questione legata al suo senso.

Il senso del dolore è ciò che fa la sua sopportabilità o meno. Un dolore di cui non intravediamo la causa, ad esempio, ci farà soffrire di più, perché resterà nel non senso e non sarà compreso da chi lo prova. Un dolore senza senso semplicemente non può essere vissuto. Scrive Nietszche528 : “Ciò che, a

dire il vero, ci fa ribellare al dolore, non è il dolore in sé, ma il non-senso del dolore. Per cacciare il dolore dal mondo, siamo stati obbligati a inventare degli dei… Con l’aiuto di tali invenzioni, la vita è giunta, con gran fatica a giustifcare il suo proprio male”. È infatti proprio il dolore che solleva l’annosa questione del signifcato del male. È la domanda di Giobbe. Il dolore, nella morale cattolica, è legato all’idea di punizione, oppure all’idea di glorifcazione: chi soffre è più vicino a Dio, oppure è da quest’ultimo punito. Come sosteneva Foucault, la malattia non si è ancora del tutto

liberata dalla metafsica del male, e non succederà presto. Secondo la Bibbia il dolore apre ad una nuova dimensione e “chi non l’ha provato conosce poche cose”.

Il senso che diamo al dolore che stiamo provando è ciò che fa il vissuto emotivo del dolore. Il dolore dei riti di iniziazione ad esempio dà origine ad una persona nuova, resa più forte perché ha superato una prova importante e fnalmente ammessa in una comunità senza la quale quella stessa persona non potrebbe esistere: quel dolore è una promessa. Il dolore, in questo caso, apre al mondo perché è una nuova rinascita. Una nuova rinascita è anche il sollievo529 che si prova quando un dolore fnisce e ci ricorda quindi il “prezzo

dell’esistenza e della felicità di disporre di sé senza ostacoli”530. Il dolore, una

volta terminato, può quindi farci aggrappare all’esistenza, in una ritrovata voglia di viverla. Il memento mori ci riconduce, brutalmente, a considerare ciò che è davvero essenziale e ci riconduce nei limiti intrascendibili della nostra realtà corporea.

Se nel dolore il soggetto sperimenta l’estraneità al proprio corpo, nello stesso tempo, e proprio perché è comunque e ancora il suo corpo, si ripiega su di esso. Le posizioni antalgiche sono posizioni di contrazione, di ripiegamento su se stessi: non siamo più aperti al mondo531. Il dolore del

resto, quando viene evidentemente dall’esterno, perché ad esempio tocco qualcosa di bollente e mi scotto, è anche una sorta di reminder di pericolosità: un avvertimento a non inoltrarsi nel mondo.

Il dolore spezza gli argini della persona che lo prova e la mette in uno stato di continua tensione e attesa di qualcosa di ancora peggiore : “Il dolore stesso comporta una specie di parossismo, come se qualcosa di più straziante

529 Ricordo la dialettica di piacere e dolore nel Fedone di Platone, quando Socrate parla del sollievo che gli viene quando toglie una catena che gli blocca la gamba.

530 Le Breton, 2006.

531 In un articolo su “La Presse” Marcel Proust ricorda Alphonse Daudet “Mi ricordavo bene di come un male […] mi aveva distaccato dagli altri, reso indifferente a tutto ciò che non interessava il mio corpo sofferente, verso cui il moi spirito rimaneva ostinatamente fissato”.Proust, 1897, cit. in Le Breton, 2006, p.144.

ancora della sofferenza stesse per prodursi, come se […] ci fosse ancora terreno libero per un evento, come se ci si dovesse ancora inquietare per qualcosa”. Scrive Charbonneau532 : “Riducendo il dolore a una semplice

percezione, la si impoverisce fno a renderla solo una informazione elementare come un’altra. Il dolore, in effetti, non è soltanto percepito o sentito. Il dolore è un’esperienza che si apre senza produrre nulla: esso ha una funzione di allerta che le sensazioni ordinarie non hanno. In quanto allerta esso sembra più una attesa senza oggetti, più una brusca trasformazione della temporalità, che una sensazione”.

In questa ansia, il dolore chiude la persona al mondo perché esso riempie tutto il mondo di chi lo prova e chiude l’orizzonte. Tolstoï533 fa dire a Ivan

Illitch “Ma, spesso, il dolore al fanco, senza curarsi del processo in corso [Ivan Illitch è magistrato], cominciava la sua opera, sordo, ostinato. Ivan Illitch si sforzava di distrarre il suo pensiero, ma esso continuava la sua opera e stava davanti a lui e lo guardava. Ivan Illitch si sentiva paralizzato, i suoi occhi si spegnevano ed egli si chiedeva di nuovo: ‘Force che c’è solo questo di vero?’”.

Quando il dolore non ha senso e non è compreso, esso può segnarci a vita, essendo l’impensabile che distrugge la fducia ontologica in un mondo534.

Può condurre alla pazzia o al suicidio. Il sentimento tragico del dolore deriva dal non avere alcun controllo su di esso535. Ciò che vale per le sensazioni in

generale, vale a maggior ragione per il dolore: se non riusciamo a comprendere le nostre sensazioni, rischiamo di venire distrutti da esse.

532 Charbonneau, in Granger, Charbonneau (sous la direction de), 2009, p.18. 533 Tolstoï, 1958.

534 Le Breton, 2010. 535 Le Breton, 2010, p.25.

Secondo Charbonneau536, è la distanza tra il il vivere e l’esistere che

permette una meta-rappresentazione e che in questo modo ci dà la possibilità di soffrire, ma anche di gioire e di emozionarci. Questa distanza fa sì che il soffrire assuma il senso di un allontanamento dalla vita, perché, prosegue Charbonneau, il senso della distanza tra il vivente e l'esistente “riappare radicalmente nelle situazioni di crisi e nelle situazioni limite nel senso di K. Jaspers.” L’esistenzalità invece, “unica e tragicamente insostituibile […], è estranea alla dinamica del vivente”.

Il dolore è mancanza, è perdita, è rottura degli accordi fondamentali col mondo: “là dove si dice cosa è possibile o impossibile del Vivere umano”537. Il

gioire invece ci ricorda l’armonia di questo accordo. Secondo Charbonneau nel dolore “il mondo si dà come un gigantesco altro che subitaneamente ha presa su di me, mi spossessa di me stesso, mi allontana da ciò che mi è proprio nello stesso momento in cui mi rigetta in me stesso. Ciò si dà materialmente in modo inverso alla gioia, che è dilatazione, abbandono, espansione, condivisione, etc.538”. In questo modo la sofferenza disorganizza

il nostro rapporto al mondo. La sofferenza, continua Charbonneau, “può essere il luogo di tutte le disproporzioni antropologiche”. Il sé può essere così destabilizzato nella sofferenza “da non riuscire più a svolgere il suo compito di messa in forma e in proporzione del mondo”.

Se da un lato il dolore può condurre allo smarrimento di sé, dall’altro può dare alla vita prodondità e serietà, può essere mezzo di conoscenza539, può

536 Charbonneau, La psychiatrie phénoménologique et existentielle. Texte du séminaire, Paris VII, 25.10.2012.

537 Charbonneau, Pour une pathétique. Phénoménologie, herméneutique et psychopathologie de la souffrance, Texte de cours, Paris VII, 19.01.2012

538 Charbonneau, Pour une pathétique. Phénoménologie, herméneutique et psychopathologie de la souffrance, Texte de cours, Paris VII, 19.01.2012.

539 Un verso di Mnémosyne di Hölderlin suona così: “Siamo un segno che non indica nulla,/ siamo senza dolore, e abbiamo quasi/ perso il linguaggio in terra straniera”. E Heidegger commenta: “Senza dolore, ovvero senza la forma fondamentale di sapere dello spirito”. Cfr. Houillon, in Granger, Charbonneau (dir), 2003.

proteggere da altre sofferenze ancora più terribili540. “All’insaputa del

paziente, [il dolore] dà un senso alla sua vita, è paradossalmente necessario affnché l’esistenza non venga meno”. In questo senso il dolore sarebbe “una sorta di sacrifcio incosciente che arriva a proteggere l’individuo da una minaccia terrifcante di distruzione di sé”541. Sono quelle persone che pare

abbiano bisogno del loro dolore, che vi sono attaccate, dipendenti, quasi compiaciute: il loro senso dell’io si basa sul vissuto del dolore, che pare dare – paradossalmente - una sorta di dignità alla loro esistenza. “Il dolore”, scrive Le Breton, “inerisce alla vita come contrappunto che dà la misura al proprio fervore di esistere. Il vivere ha valore solo se è virtualmente precario, sotto minaccia”542. Il dolore, in quanto “principio radicale di metamorfosi” è “una

metafsica”, perché dà accesso ad una identità nuova, che è passata attraverso delle prove e ha modifcato il suo rapporto con mondo. Il dolore, conclude Le Breton, è un “sacro selvaggio”543. Fondamentale è però che, dopo la

sofferenza, ci sia il sollievo. Se il dolore è cronico, la storia di vita va riscritta in tutt’altro modo. Spesso esso si accompagna alla depressione e al pessimismo che non lascia scampo. Siamo ai limiti della condizione umana: nel dolore totale, che non lascia spazio per nient’altro, la persona è legata al mondo solo dal suo stesso dolore.

540 Le Breton, 2010. p.27. 541 Le Breton, 2010, p.28.

542 Le Breton, 2006, p. 218. Lo stesso Le Breton cita Lavelle,1949, p.106: “Sono i dolori che ha provato che hanno esercitato su di lui l’effetto più grande; essi lo hanno marchiato, hanno dato alla sua vita la sua serità e la sua profondità”.