• Non ci sono risultati.

Dolore e identità personale

Parte 3: Il dolore

3.2 Dolore e identità personale

Se il dolore è “il risultato di un confitto tra un agente eccitante e l’individuo intero”504, l’impatto col dolore modifca inesorabilmente la persona nel suo

nucleo più essenziale: l’ipseità. In termini etologici il dolore rientra in quello schema “stimolo in entrata- stimolo i”n uscita che struttura il nostro rapporto col mondo, ma soprattutto che rende possibile la sopravvivenza e l’adattamento, partecipando al processo di individuazione505.

Scrive Charbonneau506 che è il dolore ci colpisce troppo profondamente

perché il nostro essere possa prenderne le distanze. “In ciò, esso [il dolore] mette interroga la meità del sé che da in modo che non possiamo non appartenere a noi stessi”. Spiega ancora Charbonneau507: “Lo stato doloroso

costituisce un’esperienza dove la struttura dell’ipseità, che costituisce il polo ontologico della nostra persona, non arriva a unirsi nella sua realtà per ritrovare se stessa in una nuova accettazione di sé, che integri la possibilità di avere male senza essere radicalmente diversa. Più ancora essa [l’ipseità] si cerca nel dolore e rifuta di trovarvisi, ciò che dà luogo a questa tensione confittuale intrasoggettiva”. Ecco perché il dolore depersonalizza e disintegra l’Io, non fa più riconoscere noi stessi a noi stessi508. Sotto i colpi

del dolore, il sentimento di identità si erode: vi è una entità estranea che attacca l’uomo da dentro. Il dolore sopraffà l’individuo e lo schiaccia con violenza, privandolo di ogni prospettiva e frantumando il suo vissuto di unità con se stesso. Vengono alla mente qui gli usi politici del dolore, soprattutto

504 Lériche, 1949, p.401. 505 Drappo, Casonato, 2005.

506 Charbonneau, in Granger, Charbonneau (sous la direction de), 2009, p.19. 507 Ivi, p.20.

nel caso della tortura e delle guerre: i regimi possono usare il dolore deliberatamente infitto per smantellare il senso di identità delle persone509.

Ogni dolore induce metamorfosi, ma non tutti i dolori implicano “questo legame di chiusura, questa condanna del mio a se stesso”510. Abbiamo già

fatto qualche esempio parlando del parto o delle modifcazioni volontarie al corpo o della body art: in questi casi alcune azioni vengono portate a termine nonostante il dolore, o addirittura alla faccia del dolore, sfdandolo e vincendolo e accrescendo così il proprio senso di identità.

Il dolore comunque induce un cambiamento: la persona si controlla di meno, può piangere o gridare in pubblico, superando il naturale pudore, oppure può ritirarsi in solitudine, sentimento che generalmente viene proprio acutizzato dal dolore. Il mondo esterno perde di interesse perché la persona si concentra su di sé e acutizza i propri sensi per poter recepire ogni più piccolo cambiamento corporeo. Prima, fnché era in buona salute, non prestava particolare attenzione al suo corpo. Ma ora tutto in lui è dolore, tutto grida, ma allo stesso tempo egli non riconosce questo dolore come pienamente appartenente a sé.

La persona fugge gli altri, ma allo stesso tempo spesso ne è dipendente per le sue esigenze fsiche. Anche in virtù di questo il senso del pudore e della vergogna si modifcano, fno, nei casi più estremi, all’abdicazione a sé stessi di fronte ai “limiti spaventosi del corpo umano”511. Nei momenti di dolore

l’individuo ha la penosa sensazione che il corpo gli sia estraneo, egli non si sente più naturalmente un tutt’uno col proprio corpo. Il dolore è “una sorta di possessione”512 che diventa un invisibile – quasi personifcato –

interlocutore. Il dolore è così “non-io” che può diventare una “pura

509 Scarry, 1985.

510 Charbonneau, in Granger, Charbonneau (sous la direction de), 2009, p.20. 511 L’espressione è di Kafka.

esperienza di negazione”513. Il nostro rapporto al nostro corpo, nella malattia,

diventa un rapporto all’alterità514. La dimensione originaria della corporeità è

il non poter fuggire a se stessi, così come il fondo della sofferenza è l’impossibilità di interromperla.

Scrive Fuchs515 che con il dolore “Sento me stesso dolorosamente

incatenato al mio corpo, mentre allo stesso tempo sono ancora questo corpo. C’è una auto-contraddizione in ogni dolore e sofferenza, la quale contraddizione è il germe dell’auto-coscienza. ‘Nel dolore, un essere vuole dividere se stesso in un io e un esso, e allo stesso tempo vuole preservare la propria integrità’, come si è espresso Viktor von Weitzsäcker.” La separazione contraddittoria tra noi stessi e il nostro corpo non permane, ma più la vita ci riassorbe e più torniamo a passare sotto silenzio il corpo e più lo dimentichiamo e più “perdiamo noi stessi”. “Nessuna separazione, nessun dolore”, scrive Fuchs516.

Come fa notare lo psichiatra, dall'altro lato però “un dolore acuto può, per così dire, re-incarnare la coscienza dissociata e riunirla al suo corpo.” È questa la principale ragione per l'autolesionismo cosiddetto moderato. Il dolore, spiega Fuchs “è un potente agente anti-dissociativo che stabilisce un presente immediato e blocca l'atroce sensazione di un corpo muto e depersonalizzato.”517

Noi capiamo per quel che siamo e così è anche quando siamo nel dolore. Il dolore è sempre una narrazione soggettiva che implica una riappropriazione

513 Scarry, 1985 citato in Le Breton, 2010, p.43.

514 Ricordiamo a questo proposito Freud e Lacan: un fuori che è all’interno, un’estraneo che mi è molto vicino, oppure una estraneità interna (la “extimità”).

515 Fuchs, in Granger, Charbonneau (sous la direction de), 2009, p.72.

516 Ivi, p.73.

della sofferenza e di sé, una riorganizzazione delle proprie credenze e a volte anche della propria vita.

Per alcune persone il sentimento di identità, per poter essere mantenuto stabile, sembra necessitare del dolore: “l’individuo è ovunque il dolore lo tocchi, se il dolore non cè egli rischia di avere il sentimento di non essere più nulla”518.

Se da un lato l'insopportabilità del dolore sta nell’incollarci ad un presente senza futuro, la sofferenza “re-instaura una temporalità e una istorialità davanti alla quale la nostra ipseità incontra sé stessa”519. Sentire dolore

diventa un equivalente del ritornare all’esistenza. La sofferenza può essere l’ultimo disperato tentativo per provare qualcosa che faccia esistere520. Il

dolore, in questo caso, rinforza il sentimento della corporeità e diventa così il punto di partenza per la ricerca dell’ipseità.

Fakir Musafar, il padre del movimento dei Modern Primitifs dice : “Per me non c’è dolore reale, ma solo una cosa, la sensazione. È formidabile provarla, perché senti di essere veramente vivo”521.

Lo stesso Musalek, in un articolo522 su depressione e ripersonalizzazione

osserva che se da un lato a depressione comporta una profonda depersonalizzazione, perché produce “una crisi profonda e radicale della consistenza, vitalità ed attività dell'Io”, un dolore localizzato riesce invece spesso a produrre “una ripersonalizzazione, una ricompattazione dell'Io, un aumento del sentimento di vitalità dell'Io e di coesistenza dell'Io”.

518 Le Breton, 2010, p.16.

519 Charbonneau, G. Pour une pathétique. Phénoménologie, herméneutique et psychopathologie de la

souffrance, Seminario, Paris VII, 19.01.2012.

520 Si pensi alla “martirologia”. 521 Musafar, citato in Favazza,1987. 522 Musalek, 2009.

Modifcare il corpo e viverne la sofferenza conduce ad essere testimoni del proprio dolore vissuto, unico, personale, non simulabile o dissimulabile. Il dolore diventa garanzia di identità perché si fonda sulla principiale fatticità del corpo, l’espressione più primitiva di me stesso. Anche nell’ambito più specifco dell’autolesionismo, vedremo che a volte il dolore non ci appartiene completamente e purtuttavia viene usato per uscire da uno stato di depersonalizzazione. Questo dolore non è “nostro”, ma fnisce per ricondurci a noi stessi e questa possibilità è fondamentalmente alla base dell’agito autolesionista. “Il dolore proietta l’individuo fuori da se stesso, [rivelandogli… risorse] di cui ignorava l’esistenza”523.