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La doppia assenza di Sayad e la crisi della presenza di Ernesto De Martino

“Fuori posto nei due sistemi sociali che definiscono la sua non-esistenza,

il migrante, attraverso l’inesorabile vessazione sociale

e l’imbarazzo mentale che provoca,

ci costringe a riconsiderare da cima a fondo

la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza

e del rapporto tra cittadino, stato e nazione.”

Sayad A. in “La doppia assenza”

“Io sono un uomo invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? Come le teste prive di corpo che qualche volta si vedono nei baracconi da fiera, io mi trovo circondato da specchi deformanti di durissimo vetro. Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me”. Ralph Ellison

L’esperienza migratoria viene solitamente interpretata e analizzata, da scienza e politica, attraverso gli strumenti propri dell’economia e della demografia. In realtà, la sua considerazione non può essere limitata a questi campi, essendo figlia di una complessità che abbraccia sfere differenti, dagli ambiti cognitivi a quelli affettivi. La migrazione viene rappresentata da Sayad come un “fatto sociale totale”23, coinvolgendo interamente il migrante nella ricostruzione e ridefinizione della sua identità, “costruita e fratturata dall’esperienza dell’attraversamento dei confini”24

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23 Cfr. A. S. MEZZADRA, Diritto di fuga, Verona, Ombre corte, 2006, p. 174 SAYAD, La doppia assenza, Milano, Raffaello

Cortina Editore, 2002

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Il migrante vive in una duplice dimensione: da una parte si inserisce in un nuovo contesto sociale nel quale ritrova valori, norme e comportamenti che differiscono da quelli del paese di emigrazione, dall’altra lascia un ambiente a lui familiare, cercando di mantenere vive e salde le relazioni che lo legano alla terra natia.

Temporaneamente assente dal paese di emigrazione, con il quale continua a mantenere forti legami, e non completamente presente nel paese di immigrazione, in quanto ostacolato dalle barriere economiche, culturali e sociali che ne limitano e frenano l’integrazione nel tessuto sociale, soffre una “scomposizione dell’io”25

dovuta alla presenza/assenza in entrambi i contesti. A ciò si aggiunge un’ “ibridazione culturale e identitaria” generata e alimentata dai contatto con un mondo diverso dal suo, un mondo che inizia a conoscere, ad esplorare, nella ricerca della propria collocazione e della soddisfazione dei propri bisogni.

Il migrante si imbatte in un doppio processo di ricostruzione e ridefinizione identitaria. Il termine “ricostruzione” denota chiaramente la volontà di restaurare qualcosa che era presente prima ma che è andato perso. Le proprie sicurezze, certezze, la propria visione di sé e del mondo possono essere duramente messe alla prova dalle esperienze e dai traumi che i migranti vivono durante e dopo il passaggio dal lì, al viaggio, al qui. Come conseguenza colui che migra può subire un disorientamento della propria soggettività, che si ripercuote anche nelle relazioni con le persone che lo circondano e con la società che lo accoglie.

L’etichettamento dei migranti sulla base delle loro origini, o sulla base della superficiale osservazione dei loro comportamenti e dei loro discorsi si traduce in una banale falsificazione delle identità che spesso non ha la possibilità di esprimersi liberamente, ma è costretta a collocarsi nelle categorie che la società di origine impone. È invece interessante notare come i migranti “giochino” , nel senso goffmaniano, tra varie identità, appartenenze o rappresentazioni di sé.

Sayad riesce a dare ai migranti l’opportunità di esprimere ciò che non può essere detto né nella società di arrivo, né in quella di origine.

Il concetto chiave del sociologo algerino che ribadisce l’importanza di considerare l’immigrazione come “fatto sociale totale”, contiene in sé l’assunto che “prima di diventare un immigrato, il migrante è sempre e innanzitutto un emigrante”.

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Quello fornito all’interno dell’opera è un ritratto avvincente di queste persone fuori luogo, atopos, prive di un luogo appropriato nello spazio sociale e di un luogo assegnato nelle classificazioni sociali.

Le società di immigrazione sembrano talvolta ignorare completamente il fatto che l’immigrato/emigrato mentre vive nella società d’arrivo continua ad essere nella società di partenza. Le condizioni che ruotano intorno alle società di immigrazione e di emigrazione possono coltivare “l’illusione retrospettiva di un’emigrazione relativamente inoffensiva che non turba alcun ordine”. Quest’aspetto messo in luce da Sayad, che si rivela quanto il suo pensiero si possa considerare attuale per applicato ai nostri tempi, si può collegare con il senso di tradimento che prova il migrante quando si approccia alla nuova lingua. All’inizio si pensa che non possano esserci delle parole nella nuova lingua in grado di tradurre emozioni e stati d’animo legate alla cultura e alla società di appartenenza (in particolar modo quando si tratta di sentimenti legati a vissuti traumatici). Ed è a questo punto del discorso che a mio avviso la doppia assenza che descrive Sayad, si lega a doppio filo con la crisi della presenza di cui parla l’antropologo italiano Ernesto De Martino.

Il concetto di presenza, che De Martino espone nelle sue diverse opere, inteso da un punto di vista antropologico, rimanda alla capacità di preservare esperienze e memorie indispensabili per poter reagire con una partecipazione attiva ad un momento storico particolare. Presenza vuol dire “esserci come persone dotate di senso”.26

La crisi della presenza è caratterizzata da una sensazione di incertezza che colpisce la persona che vive una situazione difficile, si tratta di una “crisi radicale del suo essere storico”in quel preciso istante che la vede incapace di agire e determinare la propria azione.

Questa perdita della percezione di se stessi in relazione al contesto in cui si è calati, porta ad una graduale passività del soggetto che non riesce più ad essere protagonista del proprio sé e del proprio fare.

Il migrante vive a pieno questa crisi, perché vede il senso del suo essere perdersi. Non sentendosi parte del contesto in cui vive, non può dargli un senso e quindi non riesce a darlo alla propria presenza.

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DE MARTINO E. Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino, 1948; n. ed. Boringhieri,

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Tuttavia la crisi della presenza può essere superata. Nel caso delle migrazioni, per iniziare il cammino verso una “riconquista” della presenza, bisogna focalizzarsi sul tempo dell’arrivo per costruire percorsi di socializzazione. È proprio questo infatti il momento più delicato in cui il senso di spaesamento culturale sembra sovrastare ogni percezione dell’essere. L’invisibilità attecchisce sul modo di vedersi degli invisibili: se tutti non li vedono neanche loro si vedono

Provare a rendere fertile il momento dell’attesa trattando quelli che De Martino chiama temi “elementarmente umani”: temi trasversali alle culture che consentano di transitare tra il lì (il paese che si è lasciato) ed il qui.

La memoria e lo scambio di memorie, rivestono un ruolo fondamentale per una ri- acquisizione della presenza, il processo di ricostruzione identitaria non è mai singolo.

A chi si propone come guida di questo impervio percorso è richiesto di porsi nella posizione dell’ascolto, far rivivere dei temi legati lì (nel paese che si è lasciato) per consentire di ricucire la frattura dell’identità qui, prendendo così coscienza di essere qui e ora. Creare luoghi di appaesamento, in cui poter provare un sentimento di appartenenza.

Il senso di sospensione va combattuto attraverso la creazione di nuovi legami, di spazi ponte, che si costruiscono lasciando tracce di se, della propria storia, quindi della propria presenza.