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Corrado Alvaro e il modello ovidiano per Lunga notte di Medea

2.6 Doppia visione di Medea

Come abbiamo potuto vedere in precedenza, Ovidio nella dodicesima epistola delle Heroides ci presenta un’eroina totalmente priva delle caratteristiche proprie della donna terribile e vendicativa tramandataci dalla tradizione; e la prima a mostrarsi consapevole del suo nuovo profilo è la stessa Medea. La principessa della Colchide, infatti, inizia la sua lettera offrendo al lettore una descrizione di se stessa del tutto inaudita e sorprendente:

Exul, inops, contempta novo Medea marito Dicit: an a regnis tempora nulla vacant? 65

“ Esule, senza risorse, disprezzata, Medea si rivolge allo sposo novello; o forse non hai tempo, occupato dalle cure del regno? “

Medea fornisce un’immagine molto chiara di sé: non è più la maga potente e temibile di una volta, ma una donna che è stata privata di un luogo di appartenenza, delle proprie ricchezze e del proprio onore. Senza niente e nessuno che possa esserle d’aiuto e possa offrirle affetto, Medea ha perso l’orgoglio, la fierezza e il coraggio che avevano caratterizzato la sua giovinezza nella Colchide e si attribuisce, invece, una vulnerabilità fino ad allora completamente sconosciuta. L’eroina, quindi, non si vede più come regina fiera e indomita, ma come una madre, una moglie e, soprattutto, una donna ingannata e ingiustamente disprezzata.

In Lunga notte di Medea possiamo notare come la protagonista abbia una percezione di sé molto simile a quella del personaggio ovidiano: l’eroina si descrive come una donna sola e vulnerabile, quasi senza forze. L’influenza di Ovidio nell’autoritratto che la Medea alvariana ci consegna è testimoniata soprattutto dalla ripresa del verso iniziale della dodicesima epistola in una frase pronunciata dalla protagonista della tragedia:

64

P. Fornaro, Medea italiana, in R. Uglione ( a cura di ), op.cit., pp 123-124

93 Mi sto abituando a rimanere sola, vagabonda e straniera.66

Entrambe le eroine si riconoscono nella descrizione di una donna privata della patria ( exul – straniera ), della sicurezza che viene dal possesso di beni materiali e di una casa ( inops – vagabonda ) e, soprattutto, dell’amore e di ogni altro sentimento favorevole ( contempta – sola ). Alvaro, tuttavia, compie un passo avanti rispetto ad Ovidio: non solo la sua Medea “ umanizzata” ammette la propria solitudine, riconoscendo di non essere più la donna terribile e potente che era un tempo, ma confessa anche di aver tentato in ogni modo di adeguarsi ai valori della civiltà greca a cui appartiene Giasone:

Medea:

( patetica ) E che altro? Ti ricordi come ero disordinata una volta. Poi m’ha presa la mania dell’ordine. […]

Io cercai di imparare diligente tutto quanto può piacere a un greco. L’amore delle piccole cose delicate e gentili. E la pietà e il sorriso, e il rispetto degli altri. E il culto delle ore, dei giorni, delle feste. Era festa, per me, quando tu tornavi a casa. E ora che io sono divenuta l’immagine dei tuoi pensieri più umani, tutto è stato inutile. E non ho più l’antica forza e ferocia per difendermi da quello che mi aspetta. 67

Sempre mossa dall’amore, Medea ha rinunciato a tutto ciò che poteva identificarla come barbara, provando a fare propria la scala dei valori dei Greci, adattandosi all’ordine e ai sentimenti che caratterizzano la comunità della quale è ospite. Nella tragedia alvariana si ripresenta, quindi, ma con una notevole differenza, il motivo dell’estraneità e della barbarie di Medea rispetto alla civiltà greca che tanto spazio aveva avuto nelle precedenti opere incentrate sul mito. In Euripide, ad esempio, è Medea stessa a sentirsi straniera tra i Greci e ad avere piena consapevolezza della sua diversità rispetto alle altre donne e dell’ostilità dei cittadini di Corinto per la sua conoscenza magica: ἐγὼ δὲ καὐτὴ τῆσδε κοινωνῶ τύχης: σοφὴ γὰρ οὖσα, τοῖς μέν εἰμ᾽ ἐπίφθονος, [τοῖς δ᾽ ἡσυχαία, τοῖς δὲ θατέρου τρόπου,] τοῖς δ᾽ αὖ προσάντης […]68 66

C. Alvaro, op. cit. , p 77

67

Ivi, pp 76 e 79- 80

94 Ecco, questa è la mia sorte. Per il mio sapere, c’è chi mi invidia e chi invece mi odia, [ chi mi ritiene innocua, e chi pericolosa] […]

ἀλλ᾽ οὐ γὰρ αὑτὸς πρὸς σὲ κἄμ᾽ ἥκει λόγος: σοὶ μὲν πόλις θ᾽ ἥδ᾽ ἐστὶ καὶ πατρὸς δόμοι βίου τ᾽ ὄνησις καὶ φίλων συνουσία69

Ma questo vale per te e non per me; tu vivi nella tua città, nella casa paterna, hai una vita serena, l’affetto dei tuoi cari .

La percezione che la protagonista di Euripide ha di sé collima perfettamente con quella degli altri personaggi della vicenda ma anche con quella dell’autore e dello stesso pubblico: in quanto donna e in quanto straniera Medea rappresenta la diversità per eccellenza all’interno dell’Atene del V secolo a.C. e, per questo, la sua integrazione con la comunità ospite diventa del tutto impossibile.70

In Alvaro, invece, l’eroina nega decisamente quella diversità che ha provato in tutti i modi a cancellare. La Medea alvariana ha veramente mutato la sua natura per amore di Giasone: ha abbandonato ogni arma e ogni potere per rivestire il ruolo della moglie e madre perfetta e amorevole, e ora si può descrivere solo come una indifesa e vulnerabile:

Medea:

Ma chi temerà ancora Medea madre?71

Tuttavia ad accomunare le Heroides e Lunga notte di Medea non è soltanto la descrizione che Medea fa di se stessa come di una donna ormai destinata ad un futuro di sofferenza e di solitudine, ma anche la forte contrapposizione che si crea tra questo autoritratto e quello che ci viene invece fornito dagli altri personaggi del mito. Infatti, mentre Medea si presenta come un’eroina innocente e ormai totalmente inoffensiva, rinnegando perciò la sua terribile fama, agli occhi degli altri protagonisti resta la maga potente e la donna temibile della più antica tradizione.

69

Euripide, Medea, vv 252-254

70 Pedrazzini nota come siano proprio queste due caratteristiche dell’eroina, nell’ottica euripidea, a originare il suo

comportamento esasperato e distruttivo: da donna non segue la ragione ma gli impulsi, da straniera porta con sé residui di un mondo arcaico. P. Pedrazzini, op.cit. , p 52 ss

95

Così in Lunga Notte di Medea, nonostante le parole della protagonista facciano pensare ad una donna diversa, il popolo continua a vedere l’eroina come la maga straniera e barbara che mai potrà far parte del mondo Greco e verso la quale si può provare solamente timore e disprezzo:

Voci della folla: Al bando la megera!

Non vogliamo fattucchiere a Corinto! Basta con la straniera!

Via la straniera! Fuori la barbara! 72

Ma l’astio nei confronti di Medea non si deve credere esclusivo degli abitanti di Corinto: a temere ed odiare la principessa della Colchide è anche il re Creonte. Esattamente come i suoi sudditi, Creonte non vede Medea come una donna integrata nella civiltà greca ma come una maga selvaggia pronta a vendicarsi di lui e della figlia:

Creonte:

( diffidente, con un gesto trattiene le donne che già si muovono ) No, no. E tu, straniera, non ti accostare. Non sei tu Medea? Io non mi trovo qui per assaporare i tuoi veleni. […]73

[...]

Tu sei abile. Sei potente. Hai grandi parentele. Hai potenze oscure al tuo servizio. Di che temi, per te e per i tuoi figli?

[…]

( ironico ) Tu gli puoi parlare quando vuoi. Basterà che evochi una delle tue potenze infernali. […]74

Agli occhi del re Medea non è diversa dalla donna in balia del furor e dalla potente maga protagonista delle tragedie di Euripide e Seneca; ed è proprio la paura che possa comportarsi come le sue illustri antenate letterarie a spingere Creonte a prendere il provvedimento di bandire Medea da Corinto: Creonte: 72 Ivi, p 70 73 Ivi, p 45 74 Ivi, pp 54-55

96 Straniera! Io so bene chi sei tu. Conosco la tua potenza. E ti scaccio. Io so che tu stai nella mia terra come un vulcano che può inghiottirla. Sapere che una creatura umana possiede una potenza distruttrice, e può adoperarla a suo talento, e può impazzire di tale forza, certo avvilisce la vita. Ma io ti scaccio.75

La percezione di Medea come di una maga e di una barbara non è, tuttavia, limitata al solo Creonte o al collettivo degli abitanti di Corinto: anche personaggi tradizionalmente favorevoli a Medea, come Egeo e l’amato Giasone, suo compagno nelle numerose avventure, continuano a vedere non l’indifesa donna, la mater familias professata dall’eroina stessa, ma una creatura dotata di straordinari poteri magici e inumana crudeltà.

Fedele alla versione euripidea del mito, Alvaro fa passare da Corinto il re di Atene, Egeo. Nella Medea di Euripide il sovrano, incapace di avere un figlio proprio, decide di rivolgersi alle arti magiche della principessa della Colchide, offrendole in cambio l’ospitalità nella propria città. Nella tragedia di Alvaro, invece, l’Ateniese mostra un’ inedita riluttanza ad accogliere la donna e i suoi figli ad Atene, pur attribuendo ancora a Medea quella sapienza magica che la configura come maga e non come donna:

Egeo:

Mentre ero in mare si scatena una tempesta. Penso che possa essere un cattivo presagio, quando mi ricordo che da queste parti abita la mia cara Medea, e che un temporale di questo genere, così improvviso e violento non poteva essere che opera tua.76

Medea si dichiara una donna nuova che ha rinunciato ai suoi poteri e ha deciso di vivere una vita incentrata sull’amore per la propria famiglia, ma per gli altri, nemici ed amici, seguita ad essere la terribile fattucchiera in grado di smuovere gli elementi naturali e di compiere incredibili prodigi. La fama di maga è resistente e difficile da far scomparire e altrettanto lo è quella di barbara crudele, a tal punto che lo stesso Giasone confessa alla moglie di non essere mai riuscito a dimenticare la sua natura di straniera:

Giasone:

La tua ferocia non ti ha abbandonata. […]

75

Ivi, p 58

97 La belva non era ancora del tutto ammaestrata.77

Alvaro, dunque, presenta la sua protagonista sotto una doppia luce: se Medea si percepisce come una donna e una madre indifesa e vulnerabile, agli occhi degli altri resta la fattucchiera barbara e crudele da temere e da allontanare.

Tuttavia questa duplice visione dell’eroina si trova, ancora una volta, pure in Ovidio. Se, infatti, nella dodicesima epistola delle Heroides il poeta ci consegna una Medea che si descrive con termini molto simili a quelli utilizzati, successivamente, dalla protagonista della tragedia di Alvaro, il ritratto dell’eroina che ci viene fornito nella sesta lettera della raccolta collima, invece, con quello negativo proposto dagli altri personaggi alvariani. All’interno delle Heroides – un vero e proprio unicum nella raccolta -, Giasone è infatti destinatario di ben due lettere: la dodicesima, scritta da Medea, e la sesta, scritta da Ipsipile, prima moglie dell’eroe greco. Apollonio Rodio narra infatti che Giasone prima di approdare nella Colchide fosse giunto nell’isola di Lemno, un regno di sole donne in seguito all’assassinio di tutti gli uomini che avevano preferito le schiave alle loro legittime mogli, e che si fosse innamorato della regina Ipsipile prima di partire per completare la sua impresa. Secondo la versione proposta da Ovidio, l’amore tra i due sarebbe sfociato in un matrimonio e avrebbe poi portato anche al concepimento di due gemelli nati, tuttavia, quando l’eroe era già partito dall’isola per seguire il proprio destino. Nonostante la lontananza dello sposo, l’Ipsipile ovidiana è tuttavia ancora innamorata ed è solo quando le giunge notizia che Giasone è tornato in patria con Medea che, abbandonata ogni speranza di ritorno del marito, decide di inviargli una lettera della quale la rivale diventa, suo malgrado, la protagonista.

Accecata dalla gelosia e dalla rabbia, Ipsipile cerca di presentare a Giasone un ritratto quanto più negativo possibile della nuova sposa:

Barbara narratur venisse venefica tecum,

In mihi promissi parte recepta tori. 78

Una maga barbara – così si racconta – è venuta con te, accolta a dividere il letto che mi era stato promesso”

Argolidas timui – nocuit mihi barbara paelex!

77

Ivi, p 83

98 Non expectata vulnus ab hoste tuli.79

“ Temevo le donne argive, e una rivale barbara è stata la mia rovina. Ho subito una ferita da una nemica inattesa”

Non probat Alcimede mater tua, consule matrem, Non pater, a gelido cui venit axe nurus.

Illa sibi Tanai Scythiaeque paludi bus udae Quaerat et a patria Phasidis usque virum!80

“ Non la approva tua madre Alcimede ( chiedi consiglio a tua madre ) e nemmeno tuo padre, che si vede venire una nuora dal gelido polo; sia lei piuttosto a cercarsi un marito che venga dal Tanai, dalle paludi dell’umida Scizia e fin dalle sorgenti del Fasi.”

Agli occhi di Ipsipile Medea è una straniera e la sua origine diventa motivo per denigrare la nuova relazione di Giasone e rivendicare la rispettabilità della propria unione: Medea è solo una barbara e in quanto tale non potrà mai essere accettata dalla civiltà greca, dalla quale resterà sempre distante. Ma questa non è la sola caratteristica di Medea sulla quale Ipsipile insiste, poiché esattamente come il Creonte di Alvaro, la regina di Lemno sottolinea con enfasi i terribili poteri magici, prestati alle forze oscure, della principessa della Colchide:

Nec facie meritisque placet, sed carmina novit Diraque cantata pabula falce metit.

Illa reclutantem cursu deducere lunam Nititur et tenebris abdere solis equos;

Illa refrenat aquas obliquaque flumina sistit; Illa loco silvas vivaque saxa movet.

Per tumulos errat passis discincta capillis,

Certaque de tepidis colligit ossa rogis. Devovet absentis simulacraque cerea fingit,

Et miserum tenuis in iecur urget acus, Et quae nescierim melius […]81

79

Ovidio, Her. VI, vv 81-82

80

Ovidio, Her. VI, vv 105-108

99 “ E non è per bellezza o meriti che ella ti piace, ma conosce gli incantesimi e con la falce stregata miete erbe venefiche. Ella si sforza di tirar giù dalla sua orbita la luna riluttante e di nascondere fra le tenebre i cavalli del sole; trattiene i corsi d’acqua arresta i fiumi tortuosi; smuove dal loro posto le selve e le vive rocce; vaga fra le tombe discinta, con le chiome disciolte, e raccoglie dai roghi ancora tiepidi le ossa prescritte; ammalia gli assenti e plasma immagini di cera, nel cui povero cuore conficca un ago sottile – e altre cose che preferirei non sapere.”

La regina di Lemno fornisce, quindi, un ritratto della rivale totalmente negativo, nel quale si possono ritrovare alcuni degli atteggiamenti tradizionalmente attribuiti alla maga Medea da Seneca fino ad Alvaro: il raccogliere erbe velenose ( “Mortifera carpit gramina”82 ), lo sciogliersi i capelli e il camminare a piedi nudi ( “solvens comam/ secreta nudo nemora lustravi pede”83 ), il comandare i corsi d’acqua ( “Et evocavi nubibus siccis aquas/ egique ad imum maria, et Oceanus graves/ interius undas aestibus victis dedit”84; “ Io ti supplico, fiamma divina, fuoco di Prometeo. Che col tuo tocco puoi distruggere una città. Asciugare il mare.”85 ) e lo spostare la luna dalla sua sede naturale ( “Il popolo mormora sul tuo conto. Teme che la tua presenza possa suscitare qualche catastrofe. Nientedimeno che la luna si stacchi dalla volta celeste e cada qui sul nostro regno” 86 )87.

Eppure Ipsipile non si limita a presentare Medea come una terribile maga, ma si spinge oltre, arrivando a sostenere che l’amore di Giasone per la donna non sia spontaneo ma frutto di un incantesimo, come se una donna crudele, barbara e al servizio della magia nera quale Medea non potesse essere amata volontariamente.

La regina, nella sua lettera, insiste soprattutto sulla malvagità della principessa della Colchide che ha spinto la donna a compiere tremendi delitti in passato e che Ipsipile teme si possano ripetere in futuro:

82

Seneca, Medea, v 731: “ Sminuzza le erbe micidiali”

83 Seneca, Medea, vv 752-753: “ Coi capelli sciolti ho percorso a piedi nudi il segreto dei boschi” 84

Seneca, Medea, vv 754-756: “Ho chiamato la pioggia dalle aride nubi; ho risucchiato i mari verso il fondo e obbligato l’Oceano a retrocedere, più forte delle sue maree”

85

C. Alvaro, op.cit., p 64

86 Ivi, p 48 87

Un simile ritratto di Medea si trova, sempre in Ovidio, anche ne Le Metamorfosi: Met., VII, v 183“ Nuda pedem, nudos umeris infusa capillos” ( “ i piedi nudi, i capelli, privi di ornamenti, sciolti sulle spalle ” ), vv 199-201 “ Quorum ope, cum volui, ripis miranti bus amnes/ in fontes rediere suos, concussaque sisto,/stantia concutio cantu freta” ( “ E’ merito vostro se, ogni volta che l’ho voluto, i fiumi hanno invertito il loro corso, tra lo stupore delle rive; se col mio canto placo il mare agitato e lo sconvolgo quando è calmo” ) e v 207 “ Te quoque, Luna, traho” ( “Faccio scendere anche te, o Luna” ).

100 Medeam timui: plus est Medea noverca;

Medeae faciunt ad scelus omne manus. Spargere quae fratris potuit lacerata per agros

Corpora, pignoribus parceret illa meis?88

“ Ho avuto paura di Medea: Medea è più di una matrigna; le mani di Medea sono pronte ad ogni delitto. Lei che ha potuto spargere per i campi le membra dilaniate di un fratello, avrebbe forse risparmiato i miei figli?”

La crudeltà di Medea è tale che Ipsipile, esattamente come Creonte, teme per la vita dei suoi figli, paventando l’ipotesi che possano essere le nuove vittime di Medea.

L’opinione che Ipsipile ha di Medea non è lontana da quella che ne hanno Creonte e il suo popolo nella tragedia alvariana, e, in particolare, l’influenza della sesta lettera delle Heroides su Lunga notte di Medea si fa ben evidente in una domanda che la regina rivolge a Giasone:

Hanc potes amplecti thalamoque relictus in uno Impavidus somno nocte silente frui?89

“Una donna così puoi abbracciarla, e solo con lei in unico letto godere il sonno, senza paura, nel silenzio della notte? ”

Il terribile dubbio della regina di Lemno, infatti, sembra essere stato ascoltato e pienamente condiviso dal Giasone alvariano che confessa nel dialogo con Medea:

Giasone:

Ho avuto paura qualche volta che tu mi uccidessi nel sonno.90

La percezione che gli altri personaggi hanno dell’eroina, tanto nelle Heroides quanto in Lunga notte di Medea, è perfettamente riassumibile in questo timore: Medea è una donna talmente crudele e selvaggia da essere in grado, agli occhi degli altri, di uccidere persino l’amato Giasone.

88

Ovidio, Her. VI, vv 127-130

89

Ovidio, Her. VI, vv 95-96

101

Per gli altri, infatti, Medea non ha perso nessuno dei suoi tratti tradizionali, perciò la loro opinione sulla donna è totalmente negativa e completamente divergente da quella che Medea ha di se stessa.

Contrariamente alla tradizione, quindi, tanto Ovidio quanto Alvaro - certo influenzato dal poeta latino - ci consegnano un ritratto ambivalente e quasi contrastante dell’eroina: per Creonte, Ipsipile e il popolo di Corinto Medea resta una maga barbara e malvagia, mentre Medea ha l’inedita percezione di sé come di una donna nuova, privata dei propri poteri e perdutamente in balia dell’amore. Tra le pagine delle due opere, dunque, non si muove più una discendente del Sole ma una donna dalla evidente e inconsueta umanità.