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Corrado Alvaro e il modello ovidiano per Lunga notte di Medea

2.4 La Medea “diversa” di Ovidio e Alvaro

Tradizionalmente Medea viene rappresentata nella doppia e complementare veste di potente maga e donna vendicativa.

Il legame di Medea con la magia emerge già dal profilo pre – euripideo del personaggio : Esiodo, nella sua Teogonia ( Θεογονία ), illustrando la genealogia della donna sottolinea soprattutto la sua ascendenza divina – ricordiamo che Medea apparteneva alla progenie del Sole – e il rapporto dell’eroina con la magia al quale rimanda il nome della madre Idia, “colei che sa” 19. Questa connotazione di Medea come maga potente e terribile è ripresa successivamente anche da Pindaro che, nella Quarta Pitica ( 462 a.C. ), narrando il mito del Vello d’Oro, qualifica Medea come παμφάρμακος, “ esperta di veleni e medicine”: la sapienza della donna è strettamente connessa alla sua magia.

Il ritratto fornitoci dai due poeti è coerente con quello che ci viene tramandato nella produzione tragica anteriore alla Medea euripidea: uno dei frammenti rimastoci della tragedia di Sofocle

19 Esiodo, Teogonia, vv 956-962

74 Rizotomoi ci presenta la donna che si avvale delle sue conoscenze magiche nel raccogliere delle erbe velenose, mentre nelle Peliadi di Euripide Medea ricorre proprio ai suoi incantesimi per mettere in atto l’inganno che porterà all’uccisione di Pelia. La Medea protagonista della tragedia euripidea del 431 a.C. non si allontana da questo profilo: sulla scena si muove una maga potente, pienamente consapevole delle sue capacità e, per questo, temuta dagli altri:

Κρέων δέδοικά σ᾽ (οὐδὲν δεῖ παραμπίσχειν λόγους) μή μοί τι δράσῃς παῖδ᾽ ἀνήκεστον κακόν. συμβάλλεται δὲ πολλὰ τοῦδε δείγματα: σοφὴ πέφυκας καὶ κακῶν πολλῶν ἴδρις […] […] Μήδεια πολλὰς δ᾽ ἔχουσα θανασίμους αὐτοῖς ὁδούς, οὐκ οἶδ᾽ ὁποίᾳ πρῶτον ἐγχειρῶ, φίλαι: πότερον ὑφάψω δῶμα νυμφικὸν πυρί, [ἢ θηκτὸν ὤσω φάσγανον δι᾽ ἥπατος,] σιγῇ δόμους ἐσβᾶσ᾽, ἵν᾽ ἔστρωται λέχος; […] κράτιστα τὴν εὐθεῖαν, ᾗ πεφύκαμεν σοφοὶ μάλιστα, φαρμάκοις αὐτοὺς ἑλεῖν.20 Creonte:

Ho paura di te – non userò pretesti – ho paura che tu faccia a mia figlia un male irreparabile. Ho molte ragioni per temerti: sei abile, esperta in malefici […]

[…] Medea:

Posso farli morire in molti modi e non so quali scegliere: potrei dare fuoco alla casa oppure penetrare furtiva nella stanza nuziale e affondare una spada affilata nel cuore degli sposi. […] E’ meglio scegliere un’altra via, quella in cui sono più esperta: sì, li ucciderò con il veleno.21

Euripide crea, in totale sintonia con la tradizione, un’eroina dall’immensa e temibile conoscenza magica che, avverando le peggiori paure di Creonte, la donna utilizzerà per attuare la sua

20

Euripide, Medea, vv 282 -285 e vv 376-380 e 384- 385. Traduzione a cura di M. G. Ciani, in Euripide, Medea / Euripide; introduzione e traduzione di Maria Grazia Ciani; commento di Davide Susanetti, Venezia, Marsilio, 1997. 21 Il tondo è mio

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vendetta. Nella protagonista della tragedia euripidea, infatti, possiamo riscontrare una nuova caratteristica, del tutto estranea alle fonti precedenti: Medea non è più solo un’abile maga ma anche una donna terribile e vendicativa. Profondamente umiliata per essere stata privata del suo stato sociale e mossa da un arcaico senso dell’onore che le fa temere la derisione altrui, Medea decide di vendicarsi di chi l’ha ferita, uccidendo Creonte, la sua rivale in amore e, come ultimo e tragico gesto, i suoi stessi figli. La vendetta di Medea non si configura, tuttavia, come un atto impulsivo e inatteso, ma è piuttosto un progetto ben meditato che si delinea con sempre maggiore chiarezza nella mente della principessa della Colchide:

Τροφός […]δέδοικα δ᾽ αὐτὴν μή τι βουλεύσῃ νέον: βαρεῖα γὰρ φρήν, οὐδ᾽ ἀνέξεται κακῶς πάσχουσ᾽ (ἐγᾦδα τήνδε) δειμαίνω τέ νιν μὴ θηκτὸν ὤσῃ φάσγανον δι᾽ ἥπατος [σιγῇ δόμους εἰσβᾶσ᾽, ἵν᾽ ἔστρωται λέχος,] ἢ καὶ τυράννους τόν τε γήμαντα κτάνῃ κἄπειτα μείζω συμφορὰν λάβῃ τινά. δεινὴ γάρ: οὔτοι ῥᾳδίως γε συμβαλὼν ἔχθραν τις αὐτῇ καλλίνικος ᾁσεται.22 […] Μήδεια […]βούλομαι γέλωτ᾽ ὀφλεῖν ἐχθροὺς μεθεῖσα τοὺς ἐμοὺς ἀζημίους; τολμητέον τάδ᾽23 […] πάντως σφ᾽ ἀνάγκη κατθανεῖν: ἐπεὶ δὲ χρή, ἡμεῖς κτενοῦμεν οἵπερ ἐξεφύσαμεν. πάντως πέπρακται ταῦτα κοὐκ ἐκφεύξεται.24 Nutrice:

[… ] Ho paura che mediti qualcosa di tremendo. Il suo cuore è violento, non sopporterà di essere offesa; io la conosco e ho paura che [ silenziosamente entri nella casa, raggiunga il talamo e ] immerga la spada acuta 22 Euripide, Medea, vv 37 – 45 23 Euripide, Medea, vv 1049-1051 24 Euripide, Medea, vv 1062- 1064

76 nel suo petto oppure uccida gli sposi, attirando su di sé sciagure ancora più grandi. E’ una donna terribile: chi si scontra con lei non canterà vittoria così facilmente.

[…] Medea:

Lascerò impuniti i miei nemici perché ridano di me? No, devo osare. […]

Essi [ i figli ] devono morire. E se così dev’essere, io li ucciderò, io che li ho messi al mondo. Tutto è deciso ormai, perché tutto è inevitabile.

Medea, accecata dalla sua folle decisione, viene presentata dal tragico come una donna-mostro pronta a compiere un delitto atroce che sottolinea tutta la sua estraneità alla civiltà greca e mostra tutta la sua barbarie25.

Questa duplice connotazione di Medea viene successivamente ripresa soprattutto da Seneca che la renderà la caratteristica centrale del suo personaggio. Nella protagonista della Medea senecana possiamo, infatti, ritrovare i tratti principali dell’eroina euripidea sapientemente esaltati dall’autore latino. Quindi, così come la sua antenata greca, anche la Medea di Seneca è rappresentata come un’esperta maga il cui legame con il mondo della magia nera e della stregoneria è, però, particolarmente accentuato rispetto alla tragedia di Euripide, a tal punto che si delinea per l’eroina il profilo di una vera e propria incantatrice demoniaca:

Nutrix:

Vidi furentem saepe et aggressam deos, caelum trahentem maius his, maius parat

Medea monstrum. Namque ut attonito gradu evasit et penetrale funestum attigit,

totas opes effusi et quid quid diu

etiam ipsa timuit promit atque omnem esplica turbam malorum, arcana secreta abdita, […]

[…] Haec scelerum artifex

discreta ponit; his rapax vis ignium, his gelida pigri frigoris glacies inest.

25 L’estraneità di Medea rispetto alla civiltà greca e a Giasone è un tema fondamentale nella tragedia euripidea – si

veda E. Adriani, op.cit., p 38 ss, l’introduzione alla Medea di Euripide di M.G. Ciani, op.cit., p 19 e P. Pedrazzini, Medea fra tipo e arche-tipo: la ferita dell’amore fatale nelle diagnosi del teatro, Roma, Carocci, 2007, p 52 ss

77 Addit venenis verba non illis minus

metuenda. Sonuit ecce vesano gradu canitque. Mundus vocibus primis tremit.26

Nutrice:

L’ho vista spesso in preda al furore, andar contro gli dei e trarre giù il cielo: ma quel che medita Medea è ancora più mostruoso27. Come corse, di un passo allucinato, nella parte più interna della casa, dà fondo a tutte le sue arti, tira fuori tutto quello che faceva paura anche a lei, scatena una folla di malefici – cose arcane, segrete, misteriose – […] Ne fa due gruppi [ delle erbe ], quel genio del male: c’è nell’uno la violenza rapace delle fiamme, nell’altro il gelo torpido del ghiaccio. Ai veleni aggiunge parole non meno terribili. Ecco il suono del suo passo furioso, il suo incantesimo: solo a udirne la voce il mondo trema.

Allo stesso modo viene enfatizzata da Seneca tanto l’estraneità di Medea alla civiltà in cui si trova a vivere quanto la crudeltà che conduce alla terribile vendetta: a differenza di Euripide, infatti, la Medea latina ha sin da subito in mente l’idea di uccidere i figli per vendicarsi del torto subito. Nella donna ritroviamo una passionalità estrema, selvaggia, che la porta a muoversi come una vera e propria menade in balia del furor:

Nutrix:

Alumna, celerem quo rapis tectis pedem? Resiste et iras comprime ac retine impetum.

Incerta qualis entheos gressus tulit cum iam recepto maenas insanit deo Pindi nivalis vertice aut Nysae iugis,

talis recursat huc et huc mou effero, furoris ore signa lymphati gerens.28

Nutrice:

[…] Figlia, dove porti il piede veloce fuori dal palazzo? Fermati, domina l’ira, frena l’irruenza. Come la ménade furente vaga senza meta, quando è invasa dal dio, sulla vetta nevosa del Pindo o sulle balze del Niso, così corre qua e là selvaggiamente, recando in volto i segni del delirio.

26 Seneca, Medea, vv 673-679 e vv 734-739. Traduzione a cura di Traina in Seneca, op.cit. 27

Dissento dalla traduzione qui proposta da Traina, preferendo, invece, tradurre con: “ Medea prepara un prodigio maggiore, più grande di questi”. Manterrei, quindi, Medea come soggetto della frase e monstrum come vox media

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Medea continua ad essere una donna terribile e vendicatrice che, tuttavia, progetta la propria rivincita con una crudeltà e una passionalità quasi sconosciuta alla protagonista di Euripide. Nella tragedia latina l’eroina agisce come degna discendente del Sole: non si abbandona al pianto e alla disperazione, ma si lascia vincere dalla gelosia e da una passionalità violenta e sinistra che la portano a compiere il più funesto tra i delitti. Nella Medea di Seneca convivono, quindi, la maga potente e la donna vendicativa di euripidea memoria; profili abilmente connotati da un’estrema malvagità e che rendono Medea un personaggio totalmente infernale: una vera e propria incarnazione del Male.

Da questa immagine terribile dell’eroina si discosta invece Corrado Alvaro che, in Lunga notte di Medea, ci presenta la principessa della Colchide in una veste più umana:

Naturalmente, il personaggio di Medea usciva dal mio lavoro molto umanizzato, perdeva molto della sua terribilità; e non a torto alcuni critici rimpiangono l’affascinante maga Medea.29

L’umanità della Medea alvariana si manifesta soprattutto nell’assenza del desiderio di vendetta: a differenza delle sue antenate l’eroina non sente il bisogno di rivendicare il proprio onore. Il personaggio di Alvaro non ha istinti sanguinari e omicidi nei confronti di Creonte e della figlia Creusa, ma, al contrario, cerca di ingraziarsi la rivale in amore affinché ben accolga i suoi figli, preservandoli dal destino di esule al quale lei è stata condannata. Per questo motivo, in totale disaccordo con la tradizione precedente, i doni che Medea offre a Creusa tramite i figli non nascondono l’insidia del maleficio in grado di uccidere la principessa di Corinto, ma rivelano la speranza di Medea che la sua prole risulti gradita alla nuova matrigna.

Nella versione alvariana del mito, quindi, Creonte e Creusa non sono più vittime della magia nera della barbara: Creonte riesce a sopravvivere agli eventi, mentre Creusa muore cadendo dalla torre più alta della reggia, quando vede, inorridita, la folla inferocita dei Corinzi. L’accidentalità della morte di Creusa non lascia dunque alcun dubbio: Medea è innocente e non è possibile attribuirle nessuna responsabilità dell’accaduto 30.

Nonostante le novità introdotte, Alvaro tuttavia mantiene l’elemento che, a partire da Euripide, si era imposto come centrale nel mito di Medea: l’omicidio dei figli. Ma, anche in questo caso,

29

C. Alvaro, La Pavlova e la Medea, in op.cit., p 117

30

E’ interessante notare come nella precedente stesura della tragedia al posto di “ precipitò” troviamo “ si precipitò” che lascia intendere una volontarietà nel morire. G. Tellini, Storie di Medea: attrici e autori, Firenze, Le Lettere, 2012

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possiamo notare come lo scrittore apporti un’importante innovazione: Medea non uccide i figli in preda al furore e desiderosa di vendetta, ma per salvarli dalla furia omicida del popolo di Corinto:

Medea:

( con voce spenta ) Essi non hanno più da temere,ormai, né il padre, né la madre, né gli uomini. […] ( in un accesso di furore ) Abbi pietà di me come io l’ho avuta dei miei figli. Uccidimi.31

Quindi Alvaro deresponsabilizza completamente la propria protagonista dal suo crimine più malvagio, rappresentandola non più come una terribile vendicatrice, ma come una madre premurosa – quasi una tradizionale madre del Sud Italia nella sua sollecitudine 32- che cerca di proteggere i suoi figli dal destino che si prospetta loro, dapprima mostrandosi disposta a farli crescere con il padre e la matrigna nelle comodità della reggia, poi, quando questo sogno svanisce, salvandoli dal linciaggio della folla. Medea nella tragedia di Alvaro perde ogni tratto di creatura demoniaca, restando una donna dalle spiccate qualità umane che, in balia della sofferenza e della più totale solitudine, non può che invocare la pietà degli dei e cercare di agire per il meglio.

In Lunga Notte di Medea, quindi, Alvaro ci consegna una Medea totalmente diversa da quella tradizionale: l’eroina non solo non è la donna crudele e vendicativa che avevamo visto in Euripide e Seneca, né, a maggior ragione, la potente maga dedita agli oscuri sortilegi, ritratta già dalle fonti pre - euripidee.

Tuttavia nella tragedia persistono echi dell’antica magia della donna che, nella prima parte, mantiene una parvenza, soprattutto agli occhi degli altri, della veggente con un legame diretto con la divinità e le forze magiche anche se con tonalità diverse:

Perseide:

[…] O dammelo tu, un unguento. Layalè:

Sei pazza! Bisogna dirlo alla padrona. Lei sa. E’ capace che prendi un unguento per isbaglio, e ti trasformi in una civetta.33

31

C. Alvaro, Lunga notte di Medea, p 106

32

Significativi giudizi di Cassata e Paladino al riguardo: “ Sembra di sentir parlare una popolana calabrese con le commosse parole della maga Medea”, M. L. Cassata, Corrado Alvaro: introduzione e guida allo studio dell’opera alvariana storia e antologia della critica, Firenze, Le Monnier, 1974, p 168 ; “Medea, che sembra modellata su una qualsiasi madre del contado calabrese”, V. Paladino, L’opera di Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1968, p 233

80 Nosside:

Si tratta di una profezia? Se è così, tu la puoi intendere. Significherà … ( Lentamente, come la luna nel suo percorso celeste, il disco luminoso che scaturisce dallo specchio si muove lungo lo parete. Medea, fissandolo, parla come una veggente, Nosside, in un angolo, quasi prostrata, parla scongiurando. )34

Nosside:

( fra sé ) Parla cauto, o Re. Prima di tutto ella è di stirpe reale. E poi ella possiede arti potentissime. Potenti come tu neppure immagini. […]

[…] Creonte:

Perché ti sanno esperta in molte arti. Tu puoi ringiovanire i vecchi. Tu puoi fornire filtri portentosi. Evocare i morti. Prevedere il futuro. E non vi sarebbe bisogno di molte parole fra me e te. I pensieri degli altri non hanno misteri per Medea. A questo punto io potrei anche andarmene, poiché tu devi indovinare, e anzi hai già indovinato.

Nosside:

( tra sé ) Certo, ella può tanto. Ma non per sé. In questo somiglia a noi mortali, che non vede le cose vicine. Somiglia a tutte le povere donne, non intende quando ella stessa è percossa.35

Ma questa debole connotazione si perde del tutto nella seconda parte della tragedia. Già tramite le parole della nutrice, infatti, Medea viene presentata non più come la potente discendente del Sole, ma come una semplice donna che non ha il pieno controllo delle sue capacità magiche a tal punto da, come individuato da Güntert, rinunciare volontariamente al suo potere di maga e al suo amuleto36:

Medea:

[…] Fiamma onnipotente, io non ti chiedo più cose tremende. […]37

Medea:

[…] Ho una gemma infallibile per te. […] Egeo: 34 Ivi, p 21 35 Ivi, pp 45-47 36

G. Güntert, Alvaro narratore e drammaturgo: “ Lunga notte di Medea”, in « Rivista svizzera delle letterature romanze», 14, 1988, p 51

81 Come, te ne privi?

Medea:

Non mi serve più.38

L’importanza di questo profilo “umano” di Medea è facilmente comprensibile se si pensa che persino in Apollonio Rodio non vengono meno i maestosi poteri dell’eroina. Infatti, nonostante il poeta greco nelle sue Argonautiche privi Medea della sua connotazione di crudele donna desiderosa di vendetta, presentandocela invece come ingenua fanciulla innamorata, il lato magico dell’eroina permane. Ma è solo sotto la spinta dell’amore che la Medea di Apollonio usa i suoi filtri e i suoi incantesimi, come quando, per aiutare Giasone, incanta il serpente guardiano del Vello d’oro: τοῖο δ᾽ ἑλισσομένοιο κατ᾽ ὄμματα νίσσετο κούρη, ὕπνον ἀοσσητῆρα, θεῶν ὕπατον, καλέουσα ἡδείῃ ἐνοπῇ, θέλξαι τέρας: αὖε δ᾽ ἄνασσαν νυκτιπόλον, χθονίην, εὐαντέα δοῦναι ἐφορμήν. […] ἡ δέ μιν ἀρκεύθοιο νέον τετμηότι θαλλῷ βάπτουσ᾽ ἐκ κυκεῶνος ἀκήρατα φάρμακ᾽ ἀοιδαῖς ῥαῖνε κατ᾽ ὀφθαλμῶν: περί τ᾽ ἀμφί τε νήριτος ὀδμὴ φαρμάκου ὕπνον ἔβαλλε […]39

“E mentre lui si allungava [ il serpente ], ecco che Medea fu davanti ai suoi occhi e con voce soave invocò il Sonno in aiuto, il dio supremo, che affascinasse la fiera; e chiamò anche la regina notturna, infernale, che le fosse benevola, e le concedesse l’impresa. […] Medea intinse un ramo di ginepro, tagliato da poco, nella mistura, e sparse il filtro possente sopra i suoi occhi, pronunciando le formule: lo circondò l’odore del filtro e lo addormentò.”

Tuttavia sarebbe sbagliato credere che il ritratto della protagonista in Lunga notte di Medea sia completamente inedito: un profilo simile, privato delle sue connotazioni più tradizionali, era infatti

38 Ivi, pp 69-70

39

Apollonio Rodio, Argonautiche, IV, vv 145-148 e vv 156-159. Traduzione a cura di G. Paduano, in Apollonio Rodio, Le Argonautiche, traduzione di Guido Paduano; introduzione e commento di Guido Paduano e Massimo Fusillo, Milano, BUR, 1986

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già stato presentato da Ovidio nell’epistola delle Heroides che vedeva la principessa della Colchide come “autrice”.

Nella dodicesima lettera della raccolta Medea scrive a Giasone in un momento ben preciso del mito: la donna è già stata abbandonata dallo sposo e sono già state celebrate le nozze di lui con Creusa, ma al contempo non si è ancora consumata la terribile vendetta di Medea. Questa particolare scelta cronologica permette a Ovidio di rappresentare l’eroina sotto una luce diversa da quella tradizionale, creando così un personaggio privo della malvagità e del senso dell’onore che caratterizzava le protagoniste di Euripide e Seneca. Nella lettera che la donna scrive al suo sposo non ci sono parole furiose e desiderose di vendetta, ma parole cariche di disperazione per essere stata ingannata e abbandonata dall’uomo che amava. Medea non è una menade impazzita, non è una donna dall’onore umiliato, ma è una semplice relicta, una donna ferita e sola che si esprime nel linguaggio che le è più congeniale: quello elegiaco.

Tuttavia nell’epistola XII delle Heroides l’antico profilo di Medea emerge nel finale, quando la donna inizia a progettare i suoi terribili crimini:

[…] ingentis parturit ira minas.

Quo feret ira, sequar! facti fortasse pigebit;

Et piget infido consuluisse viro. Viderit ista deus, qui nunc mea pectora versat!

Nescio quid certe mens mea maius agit. 40

“ La mia ira è gravida di minacce smisurate. Dove l’ira mi porterà, io la seguirò. Della mia azione forse mi pentirò; mi pento però anche di aver dato aiuto a un marito infedele. Ma di questo si occupi il dio che ora sconvolge il mio petto. Sì, la mia mente sta meditando qualcosa di enorme”

In questi versi la tradizionale natura di Medea si ripresenta, seppure accompagnata da una certa reticenza: la donna non ci dice come si realizzerà la sua vendetta, che resta così ad un livello meramente teorico, e noi non vediamo agire Medea che si limita a pronunciare parole cariche di minacce. La differenza con la protagonista della tragedia alvariana – alla quale non era mai passata per la mente l’idea di vendicarsi – è evidente, ma si potrebbe forse azzardare che è proprio da questa Medea ovidiana totalmente innovativa e “ quasi “ umana che Alvaro si muove per creare il suo “umanissimo” personaggio.

40 Ovidio, Her. XII, vv 208-212.

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A confermare il legame tra la protagonista della XII epistola e quella di Lunga notte di Medea è anche l’assenza del secondo tradizionale profilo attribuito alla donna: quello magico. Infatti l’eroina della XII lettera delle Heroides presenta se stessa come privata di tutta la sua magia e di tutta la sua potenza, ridotta allo stato di donna sofferente che non può niente per lenire il suo dolore:

Quaeque feros pepuli doctis medicatibus ignes, non valeo flammas effugere ipsa meas.

Ipsi me cantus herbaeque artesque relinquunt, nil dea, nil Hecates sacra potentis agunt. 41

“ Io che con filtri sapienti ho respinto fuochi implacabili non sono capace di sottrarmi alle mie stesse fiamme. Gli stessi incantesimi, le erbe, le arti mi abbandonano; né la dea, né i sacrifici a Ecate potente hanno efficacia ”

Ovidio descrive una Medea che non è più la potente maga di un tempo, ma che è ormai solo una donna che non ha più risorse magiche alle quali affidarsi. Eppure l’elegiaco, nella sezione del VII libro de Le Metamorfosi dedicata a Medea, aveva dimostrato di conoscere perfettamente le arti magiche dell’eroina, descritte come potenti e al di sopra della conoscenza umana:

His et mille aliis postquam sine nomine rebus propositum instruxit mortali barbara maius,

arenti ramo lampride mitis olivae

omnia confudit summisque inmisciuit ima.42

“ Quando con questi elementi e con molti altri di cui si ignora il nome la donna barbara ebbe compiuto i preparativi di un’impresa superiore alle umane possibilità, essa rimescolò tutti gli ingredienti accuratamente da cima a fondo con un ramo secco di ulivo che un tempo aveva dato dolci frutti ”

Tantum medicamina possunt 43

41 Ovidio, Her. XII, vv 165-168 42

Ovidio, Met., VII, vv 275-278. La traduzione a cura di G.F. Villa, in Ovidio, Le Metamorfosi, II voll, introduzione di G. Rosati, traduzione di G. Faranda Villa, note di R. Corti, Milano, BUR, 2010

84 “ Tanto possente è l’effetto della magia ”

Medea nel poema epico-mitologico è senza dubbio una maga potente, abile e, all’occorrenza, terribile, che non ha paura di ricorrere ai suoi filtri e ai suoi incantesimi, mezzi sicuri con cui raggiungere i suoi scopi. Il ritratto dell’eroina che il poeta ci consegna nella XII epistola delle Heroides è, quindi, un vero e proprio unicum all’interno non solo della produzione ovidiana, ma anche delle precedenti opere incentrate sul mito. La Medea scrittrice dell’epistola non è più una