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Corrado Alvaro e il modello ovidiano per Lunga notte di Medea

2.7 Il nuovo Giasone di Ovidio e di Alvaro

Sin dall’antichità a condividere la scena con Medea è senza dubbio Giasone: le sorti della principessa della Colchide sono indissolubilmente legate a quelle dell’eroe e le sue terribili gesta sono compiute proprio per aiutare o vendicarsi dell’amato. Data quindi la centralità di Giasone nella storia di Medea, non stupisce l’attenzione che i diversi autori interessati al mito rivolsero al personaggio del principe greco, al quale vengono attribuite caratteristiche di volta in volta diverse91.

Nella sua tragedia Euripide ci consegna un personaggio perfettamente aderente ai principi dell’uomo greco del V secolo a.C.92, nel quale non trova spazio nessun sentimento amoroso, ma una mera logica del guadagno e dell’utile che contraddistingue anche la sua visione del matrimonio. Giasone non abbandona Medea perché innamorato della figlia di Creonte, ma solo perché tramite l’unione con la principessa di Corinto può assicurare un’ adeguata posizione sociale a se stesso e ai suoi figli, anche quelli avuti con Medea. L’unica cosa che veramente interessa all’eroe di Euripide è vivere bene, e questo significa, secondo il canone sociale dei suoi tempi, avere sicurezza e ricchezza e che gli sia riconosciuto il decoro che il suo rango richiede:

Ἰάσων

91

L’importanza del personaggio di Giasone per Medea è tale che secondo Mossman nella tragedia euripidea “this treatment of Medea’s character is partly made possible by the corresponding malleability of the mythological character of Jason”, Euripide, Medea/ Euripides, with an introduction, translation and commentary by J. Mossman, Oxford, 2011, Oxford University Press, p 9

102 ἐπεὶ μετέστην δεῦρ᾽ Ἰωλκίας χθονὸς πολλὰς ἐφέλκων συμφορὰς ἀμηχάνους, τί τοῦδ᾽ ἂν εὕρημ᾽ ηὗρον εὐτυχέστερον ἢ παῖδα γῆμαι βασιλέως φυγὰς γεγώς; οὐχ, ᾗ σὺ κνίζῃ, σὸν μὲν ἐχθαίρων λέχος καινῆς δὲ νύμφης ἱμέρῳ πεπληγμένος οὐδ᾽ εἰς ἅμιλλαν πολύτεκνον σπουδὴν ἔχων: ἅλις γὰρ οἱ γεγῶτες οὐδὲ μέμφομαι: ἀλλ᾽ ὡς, τὸ μὲν μέγιστον, οἰκοῖμεν καλῶς καὶ μὴ σπανιζοίμεσθα, γιγνώσκων ὅτι πένητα φεύγει πᾶς τις ἐκποδὼν φίλον, παῖδας δὲ θρέψαιμ᾽ ἀξίως δόμων ἐμῶν σπείρας τ᾽ ἀδελφοὺς τοῖσιν ἐκ σέθεν τέκνοις ἐς ταὐτὸ θείην, καὶ ξυναρτήσας γένος εὐδαιμονοίην.[…] 93 Giasone:

Quando giunsi qui da Iolco, trascinandomi dietro sciagure irrimediabili, quale fortuna migliore per me, esule, se non sposare la figlia del re? Non perché ti odiassi – è questo il tuo tormento – non per desiderio di una moglie nuova o per smania di avere molti figli: mi bastano quelli che ho, non mi lamento. Volevo la cosa più importante: vivere bene, con larghezza – la povertà non ha amici -, e poter allevare i figli in modo degno del mio rango, dar loro dei fratelli, fare di tutti una famiglia sola e poi, così riuniti, vivere felici.

Il vero obiettivo di Giasone è quello di consolidare la propria stirpe: “ la continuità e il prestigio della propria famiglia sono infatti l’unica cosa che conta per una persona ‘bennata’, sono il fondamento dell’eudamonia, della felicità”94. Per il pubblico ateniese del V secolo le motivazioni di Giasone sono assolutamente ragionevoli e comprensibili, in linea con il concetto di felicità aristocratica nel quale l’amore era totalmente assente, e con gli ideali patrilineari alla base della società. Per quanto si sia dimostrato “ingrato, crudele, causa dei mali di Medea”95, Giasone, nel confronto con la barbara e con la donna Medea, rappresenta Atene e i suoi cittadini; questo è sufficiente ad assicurargli il sostegno e l’empatia del pubblico.

93

Euripide, Medea, vv 551-565 .

94

Dal commento al verso 559 di Susanetti in Euripide, op.cit., pp 183-184

103

Allontanandosi dalla descrizione fatta da Euripide, Apollonio Rodio ci consegna invece un ritratto assolutamente innovativo di Giasone. Nelle sue Argonautiche, infatti, il poeta ellenista presenta il figlio di Esone come un uomo dimesso, del tutto inadeguato a trovare una risoluzione alle vicende che lo vedono protagonista e a prendere qualsiasi decisione. In Giasone non troviamo alcun entusiasmo di fronte alla prospettiva dell’impresa – come richiederebbe invece il suo status di eroe - , ma soltanto paura e sconforto per quanto lo attende:

‘Αἰήτη, σχέο μοι τῷδε στόλῳ. οὔτι γὰρ αὔτως ἄστυ τεὸν καὶ δώμαθ᾽ ἱκάνομεν, ὥς που ἔολπας, οὐδὲ μὲν ἱέμενοι. τίς δ᾽ ἂν τόσον οἶδμα περῆσαι τλαίη ἑκὼν ὀθνεῖον ἐπὶ κτέρας; ἀλλά με δαίμων καὶ κρυερὴ βασιλῆος ἀτασθάλου ὦρσεν ἐφετμή. 96

“ Non ti irritare, Eeta per il nostro viaggio. Non al modo che dici veniamo alla tua città e alla tua reggia e neanche per nostro volere. Chi mai avrebbe l’audacia di attraversare tanto spazio di mare per prendere le cose d’altri? Mi manda un dio, e il feroce comando di un re superbo.”

ὧς ἄρ᾽ ἔφη: ὁ δὲ σῖγα ποδῶν πάρος ὄμματα πήξας ἧστ᾽ αὔτως ἄφθογγος, ἀμηχανέων κακότητι.

βουλὴν δ᾽ ἀμφὶ πολὺν στρώφα χρόνον, οὐδέ πῃ εἶχεν θαρσαλέως ὑποδέχθαι, ἐπεὶ μέγα φαίνετο ἔργον .97

Così disse [ Eeta ], e Giasone fissava gli occhi per terra, restava muto, disperato di fronte alla sua disgrazia. Per lungo tempo rivoltava dentro di sé la decisione da prendere e non riusciva ad affrontare arditamente l’impresa; gli sembrava grandissima.

Nel poema di Apollonio Giasone è totalmente privo del valore e della forza che caratterizzavano gli eroi omerici e fa proprio un modello di comportamento basato sull’accettazione del condizionamento esterno e sulla limitazione della responsabilità umana allo svolgimento di obblighi e doveri98. L’ Argonauta è, quindi, un vero e proprio antieroe caratterizzato da un’assenza

96

Apollonio Rodio, Le Argonautiche, vv 386-390.

97

Apollonio Rodio, Le Argonautiche, III, vv 422 -425

104

di iniziativa e da un’impotenza tali da indurlo a confidare nell’aiuto degli altri – uomini o divinità – per portare a termine i propri compiti.

Completamente diverso dagli antenati greci è il personaggio che viene descritto da Seneca nella sua Medea. Di fronte alle pesanti accuse della sposa, l’eroe di Seneca, esattamente come il suo predecessore euripideo, tenta di difendersi ricordando alla donna come il nuovo matrimonio sia stato contratto solo per assicurare ai figli un futuro sicuro e prospero. Tuttavia la consapevolezza che aveva guidato il personaggio greco nelle sue azioni, è totalmente assente nell’eroe latino che sembra sia stato quasi costretto ad abbandonare la principessa della Colchide:

Iason:

O dura fata semper et sortem asperam, cum saevit et cum parcit ex aequo malam! Remedia quotiens invenit nobis deus pericoli peiora: si vellem fidem

praestare meritis coniugis, leto fuit caput offerendum; si mori nollem, fide

misero carendum. Non timor vicit fidem, sed trepidas pietas: quippe sequeretur necem proles parentum. Sancta si caelum incolis

Iustitia, numen invoco ac testor tuum: nati patrem vicere. 99

Giasone:

Duro sempre destino, sorte avversa, egualmente maligna quando colpisce e quando risparmia! Quante volte la divinità trova per noi rimedi peggiori dei mali: se volevo esser fedele a una moglie che lo merita, dovevo espormi alla morte; se non volevo morire, non c’era che il tradimento. Non fu il timore a vincere la fedeltà, ma l’amor paterno: i figli seguirebbero la sorte dei genitori. T’invoco, santa Giustizia, se dimori in cielo, sii tu mia testimonia: furono i figli a vincere il padre.

Dalle parole di Giasone non traspare nessuna volontarietà: l’eroe non sceglie di agire in quel modo, ma si limita ad accettare il destino assegnatogli.

99 Seneca, Medea, vv 431-441

105

L’atteggiamento di Giasone non rappresenta, però, una novità all’interno della letteratura latina, dal momento che già un altro personaggio di origine greca aveva abbandonato la donna amata – e straniera - per obbedire ad una realtà superiore; si tratta ovviamente dei virgiliani Enea e Didone. Giasone, così come l’eroe troiano, non può permettere che l’amore di una donna gli impedisca di ottenere quanto si addice al suo ruolo e di seguire la strada stabilita; e questo giustifica il suo comportamento totalmente avverso alla logica sentimentale dell’ amata. Inoltre, al pari del protagonista virgiliano, Giasone viene rappresentato da Seneca come un personaggio positivo posto in netta contrapposizione a Medea, eroina negativa. Infatti, Seneca presenta Giasone come un eroe puro e umano nella sua debolezza, totalmente incolpevole dei terribili crimini compiuti dalla bestiale e furiosa Medea100:

Iason:

Medea amores obicit? Medea:

Et caedem et dolos Iason:

Obicere tandem quod potes crimen mihi?101

Giasone:

Medea mi rinfaccia l’amore? Medea:

E gli assassini e gli inganni. Giasone:

Ma insomma che crimine puoi rinfacciarmi?

Come notato da Ciani102, all’interno della tragedia di Seneca si viene a creare così una rigorosa polarità: se la principessa della Colchide, con la sua magia e la sua crudeltà, incarna il Male assoluto, il figlio di Esone, invece, impersona il Bene. Il Giasone senecano si configura così come un novello Enea: entrambi “ pii per un verso ( nei confronti dei figli e/o della divinità ), prudentes e sapientes o dotati di bona mens e di virtus per l’altro ( nel momento in cui si facevano portatori di

100 A tal proposito Blitzen definisce il Giasone senecano quasi una vittima e un codardo, C. Blitzen, The Senecan and Euripidean Medea: a comparison, in « The Classical Bulletin», LII, 1976, pp 86-88.

101

Seneca, Medea, vv 496-498

106

autocontrollo e dominio delle passioni nell’accettazione del proprio destino): alla fine personaggi paradossalmente ‘positivi’!”103.

La positività del protagonista di Seneca è, invece, del tutto assente nel ritratto dell’eroe che ci fornisce Alvaro, ancora una volta modellato su quello offerto da Ovidio nelle sue Heroides. In Lunga notte di Medea Giasone è un personaggio totalmente negativo, accecato da un desiderio di gloria così grande da portarlo a sacrificare ogni cosa, compresi gli affetti più cari, per raggiungere i suoi obbiettivi. Questa caratterizzazione di Giasone emerge con chiarezza dalle parole che Alvaro riserva all’eroe, definendolo “ un personaggio affatto moderno, spinto dalla sua stessa ambizione a liquidare il suo passato eroico per assumere un rango politico. L’uomo vittima, nei suoi stessi affetti, della sua stessa popolarità.”104 L’ambizione è tratto caratterizzante del Giasone alvariano, come riconosce del resto anche la stessa Medea:

Medea:

Tu non volevi me, ma la potenza oscura che rappresentava il mio paese.105

La donna non nutre nessuna illusione sulla natura del marito: sa che non è l’amore a muoverlo e a guidare le sue azioni ma la bramosia di gloria e di potere.

L’accusa che Medea lancia all’ amato è spietata e cruda, tanto che si potrebbe credere essere il frutto della rabbia e del dolore provocati dal tradimento e dall’abbandono. Tuttavia, del tutto inaspettatamente, le parole dell’eroina trovano conferma in quelle pronunciate da Giasone stesso durante l’ultimo incontro con la donna:

Giasone:

Io sarò re. Tanti orrori avranno un senso, se io sarò re. Avranno una maestà, se io sarò re.106

Di fronte alla sofferenza della sposa che ricorda i delitti compiuti per lui, Giasone si mostra impassibile e quasi cinico: tutti i delitti, compresi i peggiori, trovano una giustificazione nel futuro da re che essi hanno reso possibile per Giasone. L’unica cosa che interessa all’eroe, infatti, è la

103

G. M. Masselli, Pro foedifrago: le ragioni dell’eroe fuggitivo da Giasone a Enea, in «Kleos», 11, 2006, pp 385-386. Nello stesso articolo viene inoltre messo in luce come Virglio e Seneca abbiano utilizzato gli stessi meccanismi poetici per raccontare la storia di un amore felice, poi terminato con un abbandono.

104

C. Alvaro, La Pavlova e la Medea, in op.cit. pp 116-117

105

C. Alvaro, op.cit., p 80

107

conquista del potere che legittima ogni crimine e supera ogni affetto107. Il personaggio della tragedia alvariana si rivela, quindi, la perfetta “ allegoria dell’ambizione”108.

L’ambizione come tratto fondante dell’eroe non è, però, una novitas di Alvaro: ben prima dello scrittore calabrese già Ovidio aveva presentato Giasone come un uomo assettato di gloria. Inoltre, esattamente come in Lunga notte di Medea, il fascino esercitato dal potere sull’eroe non era passato inosservato ad una donna da lui amata e abbandonata: Ipsipile. Nella sua lettera la regina di Lemno dimostra, infatti, di aver ben compreso il ruolo fondamentale che l’ambizione ha nella vita dell’amato, a tal punto da tentare di usarla come arma a proprio favore:

Adde quod ascribi factis procerumque tuisque

Se †favet† et titulo coniugis uxor obest. Atque aliquis Peliae de partibus acta venenis

Imputate t populum, qui sibi credat, habet: “ Non haec Aesonides, sed Phasias Aeetine Aurea Phrixeae terga revellit ovis”109

“ Inoltre ella … essere annoverata nelle imprese tue e dei tuoi eroici compagni, e la moglie oscura la gloria del marito. Qualcuno dei partigiani di Pelia attribuisce le tue gesta ai veleni di lei e trova una folla che gli crede: - Non il figlio di Esone, ma la fanciulla del Fasi, figlia di Eeta, ha strappato via questo vello dorato, dell’ariete di Frisso- “

Come notato da Lizza Venuti110, Ipsipile sa che non è parlando di amore che può convincere Giasone a tornare da lei e ad abbandonare Medea, ma è facendo leva sul suo orgoglio e sul suo desiderio di fama. La relazione con la principessa della Colchide, infatti, non assicurerebbe all’eroe la gloria da lui cercata, poiché il suo nome verrebbe oscurato da quello della più potente Medea e le sue abilità verrebbero messe in dubbio di fronte alle magie della donna; il matrimonio con Ipsipile, invece, garantisce a Giasone quello che più gli sta a cuore: potere e fama imperitura. Desiderosi di raggiungere una posizione sociale di un certo livello, il Giasone di Ovidio e quello di Alvaro si rivelano uomini senza scrupoli e, soprattutto, esperti nell’arte della menzogna. Nella rappresentazione che i due autori fanno dell’eroe c’è, infatti, un’altra caratteristica che emerge a

107

Significative le parole di Caiazza al riguardo: “ [Giasone] Aspira a diventare un uomo, a ridimensionarsi uscendo dal mito per entrare nella storia, nella politica: sua unica aspirazione è il potere”, A. Caiazza, op.cit., p 131

108

G. Tellini, op.cit., p 246

109

Ovidio, Her. VI, vv 99-104

108

più riprese e che sembra confermare l’influenza ovidiana sullo scrittore di Lunga notte di Medea: l’ipocrisia. Il ritratto che Ovidio, attraverso Medea, fornisce di Giasone è quello di un uomo bugiardo, un vero e proprio ingannatore che non esita a sedurre tramite parole mendaci :

Orsus es infido sic prior ore loqui 111

“ E per primo, con la tua bocca bugiarda, cominciasti a parlare così”

Vidi etiam lacrimas – an pars est fraudis in illis? Sic cito sum verbis capta puella tuis.112

“ Vidi anche le tue lacrime ( c’è un parte d’inganno anche in esse?), e così io, fanciulla, fui subito irretita dalle tue parole.”

Alle parole di Medea si affiancano quelle della rivale Ipsipile che, nella sua lettera, parlando dei figli avuti con l’eroe, rimprovera a Giasone lo stesso atteggiamento ingannevole e crudele:

Si quaeris, cui sint similes, cognosceris illis: Fallere non norunt; cetera patris habent.113

“ Se vuoi sapere a chi somigliano, ti si riconosce in essi; non sanno ingannare: in tutto il resto sono come il padre.”

Le accuse di ipocrisia che le due eroine ovidiane rivolgono a Giasone vengono fedelmente riprese dalla Medea di Alvaro. La donna, infatti, fornisce un ritratto dell’amato del tutto coerente con quello presentato dalla Medea di Ovidio e da Ipsipile: Giasone è un uomo dedito all’inganno e alla finzione, un freddo calcolatore che non sa essere sincero con le donne che conquista:

Medea:

111

Ovidio, Her. XII, v 72

112

Ovidio, Her. XII, vv 91-92

109

Lui sa piacere. Mette a profitto la giovinezza che gli rimane. […] Ma può ancora fingere lo slancio della giovinezza. […] Non lo vedi che Giasone finge! Che sta calcolando tutto. Che conta i minuti. Che il suo orecchio è teso e pronto al più lieve rumore, se oda il passo di tua figlia. 114

[ A Giasone ]

E tu parli così, senza un tremito, senza un’emozione, come se tu fossi un dio cui tutto spetta. Miserabile! Che in un’impresa sei veramente grande: nell’ingannare una donna! 115

Le donne sedotte e abbandonate da Giasone sono, quindi, concordi nel descrivere l’uomo come un abile seduttore ed un esperto bugiardo che, durante il suo corteggiamento, segue quello che si potrebbe definire un vero e proprio schema. La conquista di una donna per l’eroe è estranea a qualsiasi sentimento e finalizzata soltanto all’ottenere potere e gloria, per questo “ Giasone sembra ripetere con ogni donna lo stesso comportamento”116. Egli calcola con attenzione i propri gesti e li ripete con sicurezza di fronte ad una nuova fanciulla che, esattamente come le altre prima di lei, è destinata a capitolare. Così, appresa la notizia del fidanzamento con la giovane Creusa, la Medea di Ovidio non può fare a meno di ricordare il proprio passato, creando un significativo parallelismo tra la sua drammatica condizione e quella della figlia di Creonte:

Hoc illic Medea fui, nova nupta quod hic est; Quam pater est illi, tam mihi dives erat.117

“ Là io, Medea, ero quella che qui è la tua nuova sposa: tanto è ricco suo padre, quanto lo era il mio.”

La somiglianza tra le due situazioni non sfugge nemmeno alla protagonista della tragedia di Alvaro, che, in una chiara ripresa del modello ovidiano, rivela la ripetitività del modus operandi di Giasone e le affinità tra Creusa e la fanciulla innamorata che era stata lei stessa:

Medea:

[ Di Creusa ] E’ giovane. Ride. Come alla corte di mio padre. 118

114

C. Alvaro, op.cit.,pp 23-24. Il corsivo è mio.

115 Ivi, p 83 116

M. Lizza Venuti, op.cit., p 64

117

Ovidio, Her. VI, vv 25-26

110

Lui le parla come parlava con me. Lei lo sente. Ma non ascolta. Non capisce. Capisce soltanto che le piace. E pensa: sì, pensa al suo sandalo che sta mettendo avanti, fuori dalla balza della veste. A questo pensa: che lui veda il suo piedino! Gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi sguardi di quando lui entrò in casa mia!119

Mi sembra dunque innegabile che le Heroides di Ovidio siano la fonte letteraria per la creazione del personaggio di Giasone. Alvaro, infatti, non presenta nella sua tragedia un eroe interessato ai diritti della stirpe come in Euripide, o caratterizzato dall’ incapacità di agire e di prendere qualunque decisione come in Apollonio Rodio, o latore di valori positivi in totale opposizione a Medea come in Seneca , ma rappresenta un uomo di ovidiana memoria: ambizioso, disposto a rigettare le proprie responsabilità e persino a mentire e che, nel perseguire il proprio vantaggio, dà prova di un’incredibile risolutezza. In entrambi i protagonisti della tragedia di Alvaro, quindi, possiamo chiaramente riconoscere la traccia delle Heroides di Ovidio: non solo nella Medea complessa, umana e in balia dell’amore, ma anche in questo Giasone estraneo ai sentimenti e agli affetti, sedotto dalla gloria e dal potere e schiavo di una inarrestabile furia narcisistica.

Al termine di questa analisi sembra doveroso citare gli studi condotti da Barberi Squarotti sulla tragedia120.

La particolare caratterizzazione dei personaggi di Alvaro ha indotto il critico ad attribuire loro la definizione di “borghesi”. Secondo il critico, infatti, i due protagonisti della tragedia alvariana perdono lo statuto eroico assegnato loro dalla tradizione, muovendosi invece sulla scena come dei semplici uomini comuni. Questo passaggio dall’eroico al borghese è particolarmente evidente nel personaggio di Medea: la donna ha perso ogni tratto di crudeltà e rifiutato ogni legame con l’oscuro e viene, invece, ritratta come la perfetta madre di famiglia borghese. Nella protagonista di Alvaro non ritroviamo più nessuno slancio eroico, nessun desiderio di avventura e di imprese memorabili, ma, al contrario, un reiterato tentativo di adeguarsi al mondo comune e “normale” che viene presentato dall’autore già nella prima scena attraverso il chiacchiericcio delle donne. Eppure, come notato da Barberi Squarotti, l’integrazione di Medea è resa impossibile proprio dallo stesso mondo borghese del quale lei spera di far parte. Nonostante i cambiamenti da lei operati, infatti, la donna continua a rappresentare per gli altri il “diverso” che, con la sua sola presenza, può ribaltare l’ordine e la normalità e distruggere la società borghese e, per questo, deve essere

119

Ivi, p 25. Il corsivo è mio.

120

G. Barberi Squarotti, Le sorti del« tragico». Il novecento italiano: romanzo e teatro. Ravenna, Longo Editore, 1978, pp 97 – 107.

111

scacciato e respinto senza remora alcuna. L’unico personaggio della tragedia che, per il suo passato, può assumere il titolo di eroe tragico viene, quindi, fatto tacere “ con i mezzi della ragione, dell’ordine, dello stato borghese”121. Come individuato da Barberi Squarotti, dunque, in Lunga notte di Medea è perfettamente riscontrabile la tendenza tipica del teatro – ma più generalmente di tutta la letteratura - del Novecento alla “ riduzione borghese”: la sempre più predominante ideologia borghese, infatti, impone agli autori di non rappresentare sulla scena il sublime e l’elevato, ma il verosimile e il comune. In questa prospettiva, dunque, le Heroides rappresentano per Lunga notte di Medea un testo di rimando molto più appropriato della tragedia vera e propria.

121 Ivi, p

112

Bibliografia primaria

C. Alvaro, Lunga Notte di Medea, Milano, Bompiani, 1966