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1.6 “ La cosa fui del rubatore”: l’odio per Teseo e la violenza del primo amore

1.7 Fedra la Cretese : il destino di una stirpe

Tra i motivi ricorrenti nella rielaborazione del mito vi è il richiamo alla stirpe di Fedra – la stessa di Medea e Circe - che diventa quasi una giustificazione dell’amore incestuoso. Fedra discende, infatti, dalla stirpe del Sole sulla quale grava la vendetta di Afrodite: la dea dell’amore, adirata con il Sole, reo di aver svelato le avventure adulterine della dea, avrebbe condannato la progenie solare ad amori turpi e fatali.

Fedra nasce a Creta dal re dell’isola, Minosse, e dalla ninfa oceanina Pasifae anch’essa segnata, come le figlie, dalla maledizione di Afrodite. Il mito narra infatti che Pasifae si fosse innamorata di un magnifico toro, mandato da Poseidone su preghiera di Minosse che aveva richiesto un segnale

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Ovidio, Her. IV, vv 123-126 “ Addidit et fratres ex me tibi, quos tamen omnis/ Non ego tollendi causa, sed ille fuit./ O utinam nocitura tibi, pulcherrime rerum,/ In medio nisu viscera rupta forent! ”, trad.: Ti ha anche dato, da me, dei fratelli, che è stato lui, non io, a voler tutti riconoscere. Ah se le mie viscere che stavano facendo torto a te, il più bello degli uomini, si fossero squarciate nel mezzo del parto!

115

H. Jacobs, op.cit., pp 147-150

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del favore divino per ottenere il trono di Creta117. La donna per poter soddisfare la sua passione si era perciò fatta costruire da Dedalo una vacca di legno nella quale nascondersi e con la quale congiungersi all’animale. Dall’unione con il toro nacque poi il mostruoso Minotauro, essere con il corpo di uomo e la testa di toro, immediatamente sottratto alla vista degli isolani e rinchiuso nel labirinto. Quando gli Ateniesi uccisero uno dei figli di Minosse, il re decise di richiedere ad Atene, allora sottomessa a Creta, sette fanciulli e sette fanciulle da dare in pasto al figliastro. Volendo porre fine all’orribile tributo, Teseo, figlio del re Egeo, si offrì volontario come vittima per il mostro, ben deciso, una volta introdottosi nel labirinto, ad ucciderlo. Con l’arrivo di Teseo a Creta la vendetta di Afrodite ha modo di abbattersi anche su una delle figlie di Minosse e Pasifae: Arianna. La fanciulla, infatti, innamoratasi dell’Ateniese, decise di aiutarlo nell’impresa, fornendo al giovane il filo che gli avrebbe consentito di ritrovare la via nei meandri del labirinto e macchiandosi così di complicità nell’omicidio del fratellastro. Una volta ucciso il Minotauro, Teseo salpò con l’amata alla volta di Atene, ma, dopo una sosta nell’isola di Nasso, il giovane abbandonò la ragazza che, scoperta la partenza dell’amato al suo risveglio, si uccise o, secondo un’altra fonte, venne salvata da Dioniso che la rese sua moglie. Successivamente Teseo sposerà Fedra, figlia di Pasifae e sorella di Arianna, che, al pari delle consanguinee, pagherà il debito della sua stirpe nei confronti di Afrodite con il suo amore illecito per Ippolito.

Data questa divina condanna ad amori mostruosi – o più generalmente infelici - , non sorprende che Fedra sin dall’Ippolito portatore di corona ricordi la sua stirpe, quasi cercando nella sua appartenenza alla progenie solare la giustificazione della sua incestuosa passione:

Φαίδρα ὦ τλῆμον, οἷον, μῆτερ, ἠράσθης ἔρον. Τροφός ὃν ἔσχε ταύρου, τέκνον, ἢ τί φῂς τόδε; Φαίδρα σύ τ᾽, ὦ τάλαιν᾽ ὅμαιμε, Διονύσου δάμαρ. Τροφός τέκνον, τί πάσχεις; συγγόνους κακορροθεῖς; Φαίδρα τρίτη δ᾽ ἐγὼ δύστηνος ὡς ἀπόλλυμαι. 117

Secondo Apollodoro, Biblioteca, III, 1 l’amore di Pasifae per il toro non sarebbe dovuto ad Afrodite ma a Poseidone: il dio del mare si sarebbe voluto vendicare della negligenza di Minosse che, dopo aver ricevuto il toro, non lo avrebbe sacrificato.

55 Τροφός ἔκ τοι πέπληγμαι: ποῖ προβήσεται λόγος; Φαίδρα ἐκεῖθεν ἡμεῖς, οὐ νεωστί, δυστυχεῖς.118 Fedra:

Quale amore amasti, povera mamma! Nutrice:

Dici per il toro, figlia mia? Fedra:

E tu, povera sorella, sposa di Dioniso … Nutrice:

Che dici, figlia mia? Ricordi le colpe dei tuoi parenti? Fedra:

E io terza dopo di voi, muoio infelice! Nutrice:

Sono sconvolta: dove andrà a finire il tuo discorso? Fedra:

Da allora, fin da allora, siamo sventurate.

Questo breve cenno alla propria origine viene ripreso anche nell’epistola ovidiana, nella quale il legame con Pasifae si delinea con molta più precisione e dove, soprattutto, Fedra mostra una maggior consapevolezza della sua ascendenza119:

Forsitan hunc generis fato reddamus amorem, et Venus ex tota gente tributa petat.

Iuppiter Europen – prima est ea gentis origo - dilexit, tauro dissimulante deum;

Pasiphae mater, decepto subdita tauro, enixa est utero crimen onusque suo; perfidus Aegides, ducentia fila secutus,

curva meae fugit tecta sororis ope.

En, ego nunc, ne forte parum Minoia credar,

118

Euripide, Ippolito, vv 337-343

56 in socias leges ultima gentis eo.120

“ Forse quest’amore è un debito al destino della mia stirpe, e Venere esige il tributo della mia intera famiglia. Giove amò Europa ( è di lì che la mia stirpe ha origine ) celando la sua divinità sotto forma di toro; Pasifae, mia madre, che si diede al toro ingannato, partorì dal suo ventre il fardello della colpa. Il figlio infedele di Egeo, seguendo la guida del filo, con l’aiuto di mia sorella sfuggì al tortuoso palazzo. Ed ecco ora che io, perché non sembri che non sono figlia di Minosse, subisco da ultima la legge della stirpe”

Nella tragedia greca Fedra rievoca gli amori delle proprie antenate, presentandoli quasi come giustificazioni per quanto prova, ma le risposte della nutrice sembrano difendere Pasifae e Arianna, isolando la colpa di Fedra e sottolineando tutta la sua gravità. Nell’epistola ovidiana, invece, Fedra disegna un albero genealogico nel quale le sciagure e le mostruosità che hanno caratterizzato gli amori di Europa121, Pasifae e Arianna emergono con chiarezza in quello che è un vero e proprio tentativo di discolpa. Ovidio sembra quasi riconoscere l’esistenza di una sorta di maledizione divina che ha colpito la famiglia di Fedra e alla quale la donna non può e non riesce a sottrarsi122. L’eroina tenta in questo modo di sminuire le proprie responsabilità: lei, come le altre donne della sua famiglia, è vittima innocente di Venere e non le resta che seguire “le leggi genetiche”123 del proprio casato, amando Ippolito di un amore tanto turpe quanto predestinato, inevitabile e imposto dall’alto.

L’importanza che l’elegiaco attribuisce alla stirpe di Fedra emerge anche dal primo aggettivo utilizzato per la donna: Cressa che permette di identificare l’eroina sulla base della sua appartenenza familiare. Citando la provenienza di Fedra già nei primi versi dell’epistola infatti , Ovidio sembra voler rappresentare immediatamente il suo personaggio come condannato all’amore incestuoso sin dalla nascita, in obbedienza ad una logica quasi eschilea per la quale le colpe degli avi predeterminano il destino di Fedra.

L’inclinazione del genus solare agli amori infelici è ricordata anche in Seneca dalla nutrice:

Quo, misera, pergis? Quid domum infamem aggravas superasque matrem? Maius est monstro nefas:

120

Ovidio, Her. IV, vv 53-62

121 Dall’unione di Europa e Giove, trasformatosi in toro per l’occasione, nacque Minosse, come ricorda anche Ovidio, Met. II, 846-875

122

Sulla differenza tra le due opere si veda L. Landolfi, op.cit., Bologna, 2000, pp 25-27

57 nam monstra fato, moribus scelera imputes124.

“Dove ti precipiti, infelice? Perché aggravare l’infamia della tua famiglia e superare tua madre? Un amore empio è peggio di un amore mostruoso: questo puoi imputarlo al destino, quello a te stessa.”

La nutrice senecana ricorda i turpi amori di Pasifae e, al pari del suo corrispettivo euripideo, lo fa per affermare la piena responsabilità di Fedra nei confronti della passione incestuosa della quale l’eroina è da considerarsi l’unica colpevole.

Soltanto accennato in Seneca ma ben presente in Ovidio, il forte legame tra Fedra e la sua famiglia si ritrova anche nella tragedia dannunziana. Del resto l’influenza di Pasifae e della sua storia sulle vicende della figlia è affermata dallo stesso d’Annunzio. Nell’intervista a Simoni, infatti, il poeta dichiara che:

Poi la commozione che suscitarono in tutti gli studiosi le scoperte degli scavi di Creta mi volse lo spirito a considerare non la tragedia di Fedra, ma quella di Pasifae <nata dal sole e dall’Oceanina>, la tragedia della creatura solare fatta preda schiumosa d’Afrodite nefanda, la tragedia del Labirinto, la tragedia di Dedalo e d’Icaro e di quel Minos figlio di Licaste che fu il primo dominatore del Mediterraneo.[…] Quando tornai a Fedra , non seppi disgiungere dal suo volto la maschera materna; né seppi interamente domare il furore lirico ond’era nato il mio Ditirambo d’Icaro. Cosicché la mia Fedra è veramente una Pasifaeia, come per ispregio la chiama Ippolito, è indissolubilmente avvinta dal sangue e dal fato della madre miseranda.125

D’Annunzio, per sua stessa ammissione, nel narrare l’amore di Fedra non può ignorare le vicende di Pasifae per la quale nutre da tempo un sincero interesse, come dimostra il Ditirambo IV di Alcyone nel quale viene raccontato della passione della donna per il toro126. La Fedra dannunziana è, quindi, inevitabilmente contaminata dal destino e dalla colpa della madre a tal punto che è quasi impossibile riuscire a distinguere le due donne nella figura della trasgressiva Cretese. D’Annunzio, infatti, ribadisce a più riprese le origini della sua protagonista grazie anche ad un’aggettivazione di ovidiana memoria che riporta subito alla mente gli amori infelici della reggia di Creta:

124 Seneca, Phaedra, vv 142-144 125

Il brano è riportato da P. Gibellini, op.cit., p 280

126

La creazione del Ditirambo IV è da collocare tra il 1988 e il 1903. L’interesse per la storia di Pasifae è, quindi, da considerarsi precedente a quello per le vicende di Fedra.

58 S’ode giungere per l’ombra degli aditi la voce ansiosa e roca di Gorgo che chiama la Cretese127.

[…] Ed ecco, fuor dall’ombra dell’adito anelatamente irrompe la Minoide 128.

Come inferma si ostina la Cretese […]129

Illusa dai modi ambigui della Cretese, l’incauta di parola in parola cresce nel vento130.

Accesa dal desiderio folle più che dal crescente rossore dell’incendio è la figlia di Pasifae131.

Come nella IV epistola delle Heroides anche nella tragedia di d’Annunzio Fedra viene identificata attraverso la sua stirpe. Gli aggettivi utilizzati individuano la donna come diretta discendente di Pasifae e non lasciano alcun dubbio sull’amore infelice che attende l’eroina, esattamente come è stato per le altre donne della sua famiglia.

D’Annunzio, parimenti ad Ovidio, riconosce l’esistenza del debito che la progenie del Sole ha contratto nei confronti di Afrodite e che sembra in qualche modo legittimare l’incestuosa passione di Fedra. L’amore che l’eroina nutre nei confronti del figliastro trascende infatti la volontà della donna e fa parte di un destino di famiglia dal quale Fedra non può scappare, come del resto riconoscono la stessa Fedra, in un delirante discorso ad Afrodite, e Ippolito:

Fedra: […]

Ah, perché mi perseguiti? Di che ti vendichi sul sangue

d’Elio? Non saziata sei di quell’altra preda?

L’orrore della materna infamia la riafferra, l’orrore del congiungimento bestiale. E il bianco toro condotto dal boaro alla falsa giovenca ella vede, e la lussuria nefanda e il generato mostro bovino e umano, e il labirinto vorace, in baleni di delirio.

127

G. D’Annunzio, Fedra, Atto primo, in op.cit., Milano, 2013, p 371

128 Ivi, p 375 129 Ivi, p 401 130 Ivi, p 412 131 Ivi, p 419

59 Ahi, ahi, madre, mia madre miseranda!

Ahi schiuma della frode sopra me! Ahi falsato furore

che in eterno, in eterno muggirà contra la stirpe inulta!132

Ippolito:

L’onta hai nell’occhio, il morbo nefando su la gota,

figlia di Pasifae.

Te anche dissennò la mostruosa Cipride, avvelenò de’ suoi veleni te anche, flagellò, de’ suoi flagelli.133

Fedra: […] son

Fedra di Pasifae,

la sorella del Mostro di due forme, la Cretese che il vizio della patria arde e il suo vizio; […]134

Esiste quello che potremmo definire un destino di famiglia al quale Fedra non può sottrarsi e che segna irrimediabilmente il suo destino. La donna sente gravare su di sé l’ignominia commessa dalla madre; la vergognosa unione con il toro non è stata dimenticata dagli dei e tocca alle figlie di Pasifae espiarla con i loro amori infelici.

Fedra rievoca con cruda vivezza la colpa e la degenerazione materna, mostrando quasi compiacenza per l’amore mostruoso di Pasifae135. L’eroina dannunziana è certamente orgogliosa delle proprie origini e lo ribadisce, con forza, in più occasioni:

Fedra: 132 Ivi, p 407 133 Ivi, p 477 134 Ivi, p 485

60 […] la figlia del Re d’isole

Fedra di Pasifae nata dal Sole136

Io posso udirti. Ho l’animo possente, Io sono una Titanide. Mia madre nacque dal Sole e dall’Oceanina137

La protagonista di d’Annunzio, quindi, si distingue dalle precedenti Fedre che, parlando della madre, esprimevano onta e compassione, e si avvicina invece alla trasgressiva Fedra ovidiana. L’“autrice” della quarta epistola vede infatti nella madre un esempio positivo: Pasifae è riuscita a conquistare l’amore del toro, diventando così un vero e proprio modello da imitare per la figlia impegnata nella difficile seduzione del figliastro :

Flecte, ferox, animos: potuit corrompere taurum mater: eris tauro saevior ipse truci?138

Piega, crudele, il tuo animo! Mia madre riuscì a sedurre un toro; sarai tu più crudele di un toro feroce?”

D’Annunzio allo stesso modo crea una Fedra che ha piena consapevolezza della colpa materna e che, soprattutto, sa che questa colpa non appartiene al passato, ma si ripropone nel presente, macchiandolo con la sua impurità:

Il Messo:

Quello che fu, donna, ritornerà. Fedra:

Come ritorna la colpa materna?

Lenta ha parlato, e torva. La donatrice della cetera si riprofonda nell’ombra procellosa. Il fermento dell’empietà si risolleva nella figlia di Pasifae contro la nequizia degli Iddii.139

136 G. D’Annunzio, Fedra, Atto primo, in op.cit., p 397 137

Ivi, p 407

138

Ovidio, Her. IV, vv 165-166

61

Questo ripresentarsi del passato permette di individuare un parallelismo tra la Fedra e l’altra tragedia dannunziana di argomento classico: La città morta. Come Fedra, infatti, anche i personaggi del La città morta sentono gravare su di loro un passato che cerca di riemergere e che li porta a muoversi in un tempo non più lineare ma circolare. In entrambe le tragedie abbiamo quindi una storia presente che cerca di recuperare una storia già avvenuta attraverso la ripetizione sia degli eventi sia dei comportamenti dei personaggi, con la significativa differenza che nella Fedra tutto si chiude nel cerchio del tempo mitico, mentre La città morta si svolge in un’epoca contemporanea140.

L’amore mostruoso di Pasifae ritorna nell’amore incestuoso di Fedra, poiché la figlia ripete le azioni empie e vergognose della madre. Come in Ovidio, quindi, anche in d’Annunzio la passione di Fedra è inevitabile e congenita, stabilita dal genus e dal fato.

La maledizione familiare è, come abbiamo visto, un motivo caratterizzante la storia di Fedra e, per questo, presente in quasi tutte le rielaborazioni del mito già a partire dalla tragedia euripidea141. Ma, se in Euripide questo motivo è solo accennato e debitamente smentito dalle parole della nutrice che ribadiscono la responsabilità personale di Fedra, in Ovidio e d’Annunzio il legame dell’eroina con la sua stirpe viene invece enfatizzato e gli viene attribuito un ruolo fondamentale nella vicenda dell’amore incestuoso del quale essa diventa quasi una giustificazione. Nell’epistola ovidiana e nella tragedia dannunziana, Fedra, pienamente consapevole delle colpe dei propri antenati, si arrende senza lottare a quanto fatalmente stabilito e confessa così il suo illecito amore, pronta ad andare incontro al tragico destino che coinvolge da tempo tutta la sua famiglia.

Tuttavia sarebbe errato pensare che l’influenza esercitata da Ovidio su d’Annunzio si limiti al debito che la Fedra ha nei confronti della quarta epistola delle Heroides . Il Vate, infatti, mostra in più occasioni di avere un’ottima conoscenza delle opere di Ovidio e, specialmente, di quella che è forse l’opera più famosa dell’elegiaco: Le Metamorfosi142. Il poema epico - mitologico ha, in particolare, un ruolo fondamentale per la poetica dannunziana dell’Alcyone, terzo libro delle Laudi

140 A. Guidotti, Forme del tragico nel teatro italiano del Novecento, Modelli della tradizione e riscritture originali, Pisa,

Edizioni ETS, 2016, p 25

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Significative le parole di Fusini a commento del Ippolito portatore di corona: “nella stirpe Fedra avverte la presenza di una forza che pesante l’attrae verso la madre nella ripetizione di un desiderio violento. […] Lungo quella

discendenza matrilineare Fedra eredita così il destino della madre e della sorella: è la figlia della donna che ha amato il toro, e la sorella di Arianna, che per Teseo ha abbandonato Dioniso … Non si eredita solo la colpa, scopriamo. Si eredita anche la sessualità.” N. Fusini, La luminosa, Genealogia di Fedra, Milano, Feltrinelli, 1990, p 68

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Poema in esametri in quindici libri, concluso poco prima della condanna di Ovidio all’esilio nell’8 d.C. , Le Metamorfosi narrano più di 250 miti a partire dal Caos originario e dalla creazione del mondo e dell’uomo fino ad arrivare all’età di Augusto.

62 del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Non solo, infatti, l’opera di Ovidio rappresenta la fonte principale per due componimenti – il Ditirambo II e la terza parte dell’ Oleandro 143-, ma soprattutto il mito ovidiano incentrato sulla metamorfosi si delinea come il filo conduttore degli ottantotto testi presenti nella raccolta. D’Annunzio, però, non utilizza la metamorfosi come semplice espediente decorativo, ma come una vera e propria strategia gnoseologica: attraverso le metamorfosi il poeta riesce a conoscere stadi di esistenza e di coscienza diversi da quelli umani.144 Inoltre, come nella Fedra, anche nell’Alcyone l’influenza di Ovidio non si manifesta attraverso una pedissequa imitazione dell’elegiaco, ma attraverso un’ integrazione e una rielaborazione del modello ovidiano che viene adattato, di volta in volta, alle esigenze creative di d’Annunzio: ne è un esempio il rovesciamento del motivo della fuga di Dafne nell’Oleandro – la ninfa fugge per ritardare l’incontro con il dio per il quale prova un forte desiderio e non per evitarlo – o la descrizione della trasformazione di Glauco nel Ditirambo II più puntuale e dettagliata di quella de Le Metamorfosi.

Il debito che d’Annunzio ha nei confronti di Ovidio è, dunque, innegabile: l’elegiaco, insieme a Virgilio, è certamente uno degli autori dai quali il Vate preferisce attingere per trovare temi, motivi e immagini da riutilizzare nelle proprie opere, nelle quali si viene a creare un forte connubio tra tradizione e originalità145. E, se l’influenza delle Heroides è ben circoscritta alla Fedra, il contatto con Le Metamorfosi è, invece, senz’altro più continuo ed evidente all’interno della poetica di d’Annunzio, come ben dimostra la composizione dell’Alcyone.

143 I due testi narrano rispettivamente della metamorfosi di Glauco da pescatore a dio del mare grazie ad un’erba

miracolosa e dell’inseguimento di Dafne da parte di Apollo che si conclude con la trasformazione della ninfa in alloro. Il mito di Gluaco viene raccontato da Ovidio in Le Metamorfosi, XIII, vv 917-963, mentre la storia di Apollo e Dafne viene descritta in Le Metamorfosi, I, vv 490-567.

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L. Alvino, La poesia della leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele D’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1989, p 167

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Capitolo II