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Due paradigm

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 96-102)

Rappresentazione ed espressione: note storico-critiche sull’estetica del volto digitale

2. Due paradigm

2.1. Rappresentazione ed espressione

Il rapporto tra rappresentazione ed espressione non riguarda esclusiva- mente il campo dell’estetica, ma si riferisce più generalmente a due mo- delli distinti con cui comprendere il senso della razionalità. Nel dibattito contemporaneo, in particolare, è Robert Brandom ad aver esposto nel modo più radicale le differenze tra i due modelli (Brandom 1994, p. 67-77; Brandom 2000, p. 7), ma la sua analisi è debitrice di una lunga tradizione di studi che affonda le proprie radici nella filosofia classica tedesca, e la cui sintesi più matura è dovuta all’opera di Charles Taylor (1977, p. 82; 2016).

Nei suoi tratti più immediati, la differenza tra questi due paradigmi concerne la natura del linguaggio. Secondo il modello rappresentativo, il linguaggio funziona grazie a un doppio sistema di riferimento: la parola

in luce, all’interno di questa storia, alcuni aspetti-chiave che sono di particolare utilità per l’analisi proposta. Al fine di chiarire i punti di riferimento del dibattito, tuttavia, è opportuno segnalare che gli autori fanno particolare riferimento al modo in cui il rapporto ideale-normale è analizzato nel pensiero di Georges Canguilhem e nel dibattito relativo al neo-pragmatismo americano.

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si riferisce a una rappresentazione (un’immagine mentale), la quale a pro- pria volta si riferisce a un oggetto — tipicamente un oggetto del mondo esterno, ma anche un’idea, un sentimento o altro. In questo modello, dun- que, il criterio normativo che permette di stabilire la maggiore o minore correttezza del dire è di carattere semantico. Ciò ha due conseguenze: la prima è il carattere eteronormativo del paradigma rappresentazionale. In altri termini, una rappresentazione è più o meno valida nella misura in cui corrisponde a un modello esterno, ed è questo modello a costituirne il punto di riferimento assiologico. La seconda conseguenza è che il para- digma rappresentazionale si fonda su un modello normativo statico, nel quale — tendenzialmente — la norma è un dato che non viene in alcun modo influenzato o modificato dall’esistenza della rappresentazione.

Il modello espressivo è strutturato in modo completamente diverso. Secondo questo paradigma, infatti, la razionalità del linguaggio non con- siste nella sua capacità di rappresentare correttamente un certo nume- ro di immagini mentali secondo regole già date, bensì nell’espressione di impegni e titoli di carattere normativo. Se il criterio del modello rappre- sentativo è semantico — basato cioè sulla corrispondenza di un segno a un riferimento — il modello espressivo è pragmatico: la pratica stessa del parlare determina le norme che costituiscono l’essenza della razionalità.

Rispetto al paradigma rappresentativo, dunque, il paradigma espressivo si fonda su due elementi di carattere opposto. Innanzitutto, l’espressione linguistica è autonoma nei confronti della realtà esterna (sia essa la realtà materiale degli oggetti o quella ideale dei concetti): essa non si fonda sul fatto di “commisurarsi” a un oggetto altro da sé, ma coincide con la pro- pria fonte. Di conseguenza, il modello espressivo pone una normatività dinamica, in cui non c’è mai un’origine “data”, bensì un criterio normativo che pone e modifica se stesso costantemente, nell’atto stesso di esprimersi.

Mayer Abrams (1971) ha reso con estrema vividezza la contrapposizio- ne tra questi due modelli, riferendola a due metafore diverse: il modello rappresentazionalista intende la razionalità come uno specchio, e si tradu- ce, dal punto di vista estetico, in un ideale mimetico dell’arte. Il modello espressivista, al contrario, intende la razionalità come una lampada. L’ef- ficacia di queste due metafore risiede nel fatto che esse esprimono molto bene la differente relazione tra interno ed esterno messa in atto nei due paradigmi: nel caso della rappresentazione, l’esterno (ad esempio la pa- rola o l’immagine dipinta) rappresenta più o meno fedelmente qualcosa

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di estraneo, un interno la cui regola non appartiene al soggetto. Interno ed esterno, in questo caso, sono reciprocamente esteriori, indipendenti. Nel caso dell’espressione, al contrario, l’esterno è un’emanazione diretta dell’interno, un suo prolungamento (Abrams 1971, p. 22). Il rapporto tra espressione e contenuto espresso è un rapporto diretto, al punto da poter dire che i due termini sono reciprocamente dipendenti: la luce emanata dalla lampada è la stessa luce che si trova nella fonte luminosa, e senza quella luce la fonte stessa non sarebbe se stessa4.

Quella tra interno ed esterno è un’opposizione metaforica dalla storia molto lunga nel pensiero occidentale. Come ha notato Gaston Bachelard, «la più profonda metafisica si è radicata in una geometria implicita, una geometria che — lo si voglia o meno — spazializza il pensiero» (Bachelard 1957, p. 191). Questa dialettica, questo “primo mito” (Hyppolite 1956, p. 35), determina non solo il modo con cui la cultura occidentale ha pensato il linguaggio, ma incrocia anche il modo in cui ha pensato il soggetto e, in particolare, il modo in cui quest’ultimo si colloca nei confronti del mondo. 2.2. Dal corpo oggettivo al corpo espressivo

In questo incrocio tra la teoria del linguaggio e quella del soggetto si viene a collocare il corpo, inteso come segno, un messaggio da decifrare. Come vedremo, infatti, proprio il paradigma rappresentativo e quello espressivo giocano un ruolo centrale nel modo in cui, almeno nel corso degli ultimi due secoli, il corpo è stato pensato e concepito, nel quadro di una mutata concezione della soggettività, che trova attestazione, da un lato, nella sto- ria delle scienze e, in particolare, della medicina e, dall’altro, nella storia dell’arte e, più in generale, della cultura “umanistica”. Nel corso di questa analisi, tuttavia, sarà opportuno notare come quella che viene sempre più presentata come un’alternativa è in realtà una tensione tra due aspetti di fatto sempre compresenti, pur se diversamente valorizzati nelle diverse teorizzazioni che prenderemo in esame.

In primo luogo, infatti, l’emergere, tra la fine del XVIII sec. e l’inizio del XIX, di quello che Michel Foucault ha chiamato lo sguardo medico e, come suo correlato, del “corpo oggettivo” (Foucault 1963), costituisce un

4. Brandom esprime questa differenza presentando la distinzione tra interno ed esterno come la differenza tra implicito ed esplicito (Brandom 2000, p. 8).

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momento centrale nella storia del paradigma rappresentativo nel campo della corporeità medica. Questo corpo oggettivo, che François Dagognet ha identificato con il “corpo in sé” (Dagognet 1992, p. 10), è il frutto di una doppia operazione di esclusione della soggettività, dallo sguardo medico e dal corpo del malato, che si attua attraverso due distinti processi.

Innanzitutto, l’emergere dello sguardo medico si inquadra in una più ampia storia dell’oggettività, sulla quale hanno particolarmente insistito Lorraine Daston e Peter Galison, che vede il passaggio, nel corso del XIX sec., dal paradigma dell’oggettività come fedeltà alla natura [truth-to-natu- re] a quello dell’oggettività meccanica, nel cui ambito la rappresentazione della natura viene prodotta attraverso una pratica simile all’ascesi, nella quale il soggetto conoscente — l’osservatore della natura — ha il com- pito di escludere sistematicamente, nella rappresentazione della “realtà esterna”, tutti gli elementi riconducibili alla propria soggettività (Daston e Galison 2007, p. 35-7). Secondo questa ricostruzione, il secolo XIX è os- sessionato dal tentativo di eliminare, dallo sguardo dello scienziato, ogni condizionamento soggettivo e, in particolare, ideologico, allo scopo di garantire l’emergere di un’immagine, una rappresentazione, della natura che possa essere detta “oggettiva”.

D’altro canto, il corpo oggettivo è tale poiché riconduce a fenomeni non-soggettivi le manifestazioni soggettive dell’esperienza corporea e, in particolare, di quella patologica. Infatti, la trasformazione fondamentale in ambito nosologico e fisiologico è data dalla scomparsa della concezione ontologica della malattia (quella, cioè, che intendeva la patologia come qualcosa che “entra” nel corpo dall’esterno), a favore della nuova con- cezione del fatto patologico come “un certo movimento complesso dei tessuti che reagiscono ad una causa irritante” (Foucault 1963, p. 203). Non solo il fatto patologico in sé, ma anche tutta la dimensione sintomatica e soggettiva, come l’espressione del dolore, viene così, progressivamen- te, ricondotta al fatto fisiologico e ridotta a manifestazione, rappresenta- zione, di un dato corporeo osservabile e, pertanto, riconducibile al piano non-soggettivo della nuova oggettività5.

Tuttavia, l’affermarsi del corpo oggettivo nel corso del XIX sec. e, più in generale, di una concezione dell’oggettività come sottrazione dell’ele- mento soggettivo nell’ambito del paradigma rappresentativo, non com-

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porta l’assenza o l’annullamento della dimensione espressiva della corpo- reità, quanto piuttosto un suo spostamento. Infatti, “la soggettività che gli scienziati del diciannovesimo secolo tentavano di negare, in altri contesti era coltivata e celebrata” (Daston e Galison 2007, p. 37): nel campo arti- stico, in particolare, gli autori sono incentivati, a partire da quest’epoca, “a esprimere, persino esibire, le loro soggettività” (Daston e Galison 2007, p. 37) e non è un caso che, proprio in questo periodo, il genere biografico assuma un ruolo inedito e che gli artisti siano spinti a integrare la propria storia personale in un progetto estetico nel quale essa si confonde con il frutto della loro arte (Bourdieu 2002, p. 53). Se la verità della natura e del mondo esterno diventa prerogativa dello sguardo scientifico, il solo capace di cogliere il profilo oggettivo della realtà, l’artista è chiamato a fare della propria arte un atto di veridizione rivolto su stesso, un’epifania della propria soggettività. Così, è a partire dal XIX sec., potremmo dire, che l’arte comincia a farsi sempre più esplicitamente — e sempre più con- sapevolmente — “espressione” di quello che possiamo chiamare il corpo vissuto [corps vécu], ossia il “corpo per sé” (Dagognet 1992, p. 11).

Come vedremo, tuttavia, l’affermazione di una vera e propria dicoto- mia tra due campi, l’uno — rappresentativo — costituito dallo sguardo oggettivo del medico e l’altro — espressivo — costituito dalla soggettività dell’artista, non tiene conto di un vero e proprio rivolgimento concettua- le, che riguarda l’uso stesso del termine “normale” all’interno del discorso medico. Alla luce di questa trasformazione, il rapporto tra i due paradigmi risulterà ben più stretto, e incentrato sul passaggio da una normatività “canonica” a una normatività “statistica”.

2.3. Tra il normale canonico e il normale statistico

Se la malattia scompare come realtà essenziale autonoma rispetto alla sa- lute, i fenomeni patologici non possono essere descritti se non come “va- riazioni” dello stato di salute fisiologica, ossia di uno stato “normale”. Sulle ambiguità di questo termine si è particolarmente soffermato il lavoro di Georges Canguilhem (1966), che ha messo in luce come l’idea di variazione rimandi al carattere quantitativo della nuova medicina ottocentesca, mentre la nozione di normale, con il suo, più o meno implicito, riferimento a una dimensione assiologica, si colloca sul piano qualitativo (Canguilhem 1966, p. 50). Certo, lo stato patologico può essere descritto come una variazione,

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in eccesso o in difetto, di una funzione fisiologica normale o dei suoi effetti, ma a definire o meno una determinata variazione quantitativa come pato- logica è un giudizio di valore, che traduce quel “pathos, sentimento diretto e concreto di sofferenza e di impotenza, sentimento di vita impedita” (Can- guilhem 1966, p. 106) che è la condizione del malato. In altre parole, un certo dato quantitativo assume il significato di fenomeno patologico perché ad esso viene accordato, dal paziente o dal clinico, un valore negativo.

Se si esclude dunque il senso geometrico di “retta perpendicolare”, due sono i significati di “normale” che, come già notava André Lalande nel suo Vocabulaire, pur distinti concettualmente spesso si confondono e si so- vrappongono nell’uso: ciò “che è così come dev’essere” [qui est tel qu’il doit être] (e in tal senso il termine può essere inteso come sinonimo di “buono” e “giusto”) e “ciò che s’incontra nella maggior parte dei casi di una deter- minata specie o ciò che costituisce sia la media sia il modulo di un aspetto misurabile” (Lalande 1926)6. È tale sovrapposizione del senso assiologico/

qualitativo e di quello quantitativo/statistico che soggiace, nel corso del XIX sec., all’emergere di progetti come quello dell’antropometria di Adol- phe Quêtelet e, soprattutto, alla fisiognomica, nei quali la mésure de l’hom- me, misura del corpo oggettivo, del corpo medio, finisce per costituire il modello normativo, ideale, dell’uomo normale.

La coincidenza di “normale” e “canonico” sarà il carattere centrale di un paradigma estetico che troverà la propria piena attuazione nel contesto digitalizzato. In questo caso, infatti, i modelli statistici associano chiara- mente la averageness di un tratto facciale con la sua attrattività (Trujillo et al. 2014). In questo senso, il volto ideale non è il volto “dell’uomo medio”, ma quel rarissimo volto in cui tutti i tratti individuali appaiono perfetta- mente nella norma. Alla luce di questo cambiamento paradigmatico, il di- stacco tra modello rappresentazionalista e modello espressivista si riduce notevolmente: da un lato, infatti, la rappresentazione non si commisura eteronormativamente a un “canone” esterno, bensì a una media genera- bile a partire dal dominio stesso della rappresentazione. Allo stesso modo, l’espressività non costituisce più un’alternativa radicale al modello rap- presentativo, bensì la scelta di operare su valori “estremi” su quella stessa scala usata per determinare la norma statistica.

6. Sull’irriducibilità dei concetti di norma e media si veda, ancora una volta Canguilhem (1966, p. 119-45).

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