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Il volto-maschera: la smorfia dei Maori neozelandesi e la danza Haka

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 133-142)

Remo Gramigna*

4. Il volto-maschera: la smorfia dei Maori neozelandesi e la danza Haka

A questo punto, vorrei richiamare la distinzione tra senso proprio e senso figurato della maschera, per poi, infine, soffermarmi su un esempio. A tale proposito, rimando a César Du Marsais, che nel suo Des Tropes distingue due sensi della parola “maschera”:

Maschera in senso proprio significa una specie di copertura di tela cerata o di qualche altro materiale che ci si mette sulla faccia per travestirsi o per difendersi dalle intemperie. Non è in questo senso proprio che Malherbe prendeva il termi- ne maschera quando diceva che a Corte ci sono più maschere che visi: maschere ha qui un senso figurato e sta per persone nascoste, per coloro che celano i loro veri sentimenti, che si manipolano, per così dire, la faccia e assumono espressioni a indicare uno stato dell’animo e del cuore tutto diverso da quello in cui si trova- no realmente.

(Du Marsais 1730 [1775], p. 27-8).

Una simile scomposizione e ricomposizione del volto è il principio che è alla base dell’arte del cortigiano come di quella dell’attore. È ad opera di Georg Cristoph Lichtenberg, professore di fisica all’università di Gottinga, che la trasformabilità cameleontica del volto viene messa in primo piano. Contestando la precedente tesi di Lavater, secondo cui era meglio attenersi allo studio dei tratti fissi del volto, Lichtenberg esalta i tratti mobili. Così scrive nel testo Sulla fisiognomica. Contro i fisionomi (1991 [1778]): “A mio avviso vanno invece ampiamente privilegiati i tratti mobili del volto, che indicano e annoverano non soltanto i movimenti patognomici, involontari, ma anche i movimenti volontari della simulazione” (Lichtenberg 1991, p. 130). Il volto, dunque, si fa veicolo di un agire strategico e dissimulatorio14.

14. Questo punto meriterebbe uno studio a parte. Per un approfondimento sull’argomento, si rimanda a Gurisatti 2014, p. 205-19.

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In alcune occasioni, il volto può diventare esso stesso maschera assume- re un effetto maschera attraverso le alterazioni intenzionali della mimica facciale. Volendo approfondire il concetto del volto-maschera, che trovo in- teressante, per semplificare farò l’esempio della smorfia dei Maori neoze- landesi e della danza Haka. Essa illustra bene anche la funzione deterrente della maschera. Il record di vittorie degli All Blacks è, infatti, degno di nota.

Prima di ogni incontro internazionale, i giocatori della nazionale neo- zelandese, noti al pubblico come gli All Blacks, eseguono una danza rituale di gruppo, denominata Haka. La danza Haka è tipica della cultura Maori, una cultura forte e pulsante. Haka è una danza molto potente e un canto di forza. Tradotto letteralmente, il termine haka significa “respiro di fuo- co”. Tradizionalmente questa danza veniva usata per incanalare l’energia di gruppo nel momento in cui si verificava un conflitto fra tribù. La danza dimostrava la forza e il potere di una tribù e la prontezza a combattere qualora il nemico decidesse di attaccare. Essa, dunque, aveva una funzione deterrente contro il nemico. La tribù che eseguiva la danza nel modo più potente avrebbe sconfitto l’avversario che abbandonava il campo di batta- glia prima di combattere, evitando così lo scontro fisico15. Oggi questa dan-

za ha assunto una nuova connotazione migrando da un contesto all’altro — da un contesto tradizionale a quello sportivo — ed è diventata il biglietto da visita degli All Blacks che l’hanno resa famosa in tutto il mondo.

Tra gli elementi caratterizzanti la danza Haka come rito preparatorio che viene eseguito prima di ogni partita di rugby, oltre ai movimenti sin- cronizzati del corpo, alla musica, al canto e alle parole pronunciate, sen- z’altro appaiono prevalenti i gesti e, in modo particolare, i movimenti del volto (Fig. 1).

Caratteristiche distintive di questa performance sono, infatti, due espres- sioni facciali: la dilatazione degli occhi (detta Pu’kana), e la “linguaccia” (detta Whetero), cioè, la presentazione all’avversario della sporgenza della lingua (Fig. 2). Queste due espressioni si combinano contemporaneamente sulla faccia dei giocatori dando vita ad un volto-maschera, la smorfia tipica degli All Blacks. Lo sporgere della lingua ha un antico significato simbolico che indica assoluta mancanza di paura e dimostra la mentalità guerriera

15. Per uno studio del significato della danza Haka nella cultura Maori, si legga Kāretu 1993. Il tema della funzione sociale della rabbia come simulazione degli effetti di uno scontro ricorre nella psicologia evoluzionistica, che l’attribuisce in primis agli animali non-umani.

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dei Maori (Fig. 3). Anche la dilatazione delle pupille e l’alzare le sopracci- glia sono indici molto significativi. Secondo Charles Les Brun, autore delle celebri Conférences sur l’espression, i movimenti delle sopracciglia sono un importante indicatore delle emozioni e delle passioni umane.

L’esempio in questione è particolarmente saliente in quanto mostra come il volto stesso del soggetto produce un effetto maschera attraverso la cosciente alterazione di alcune espressioni facciali. È opportuno sottoli- neare che gli All Blacks ostentano la loro smorfia agli avversari, destinatari di una comunicazione non-verbale di non facile decifrazione soprattutto se estranei alla cultura Maori. Possiamo considerare la smorfia esibita nel- la danza Haka un vero e proprio “emblema facciale” (Johnson, Ekman, Friesen 1975; Ekman 1978), cioè un veicolo segnico facciale il cui proces- so di significazione è conscio e intenzionale. Sebbene le alterazioni del volto avvengono ogni qualvolta si mangia, si beve, si parla o si sbadiglia, soltanto le distorsioni del volto associate a forti emozioni di rabbia, gioia, paura, e dolore si possono considerare distorsioni facciali in senso proprio (Brophy 1962, p. 132). Sin dagli studi di C. Darwin e Wallas, più recen- temente ripresi da P. Ekman, è evidente che vi è uno stretto legame tra espressioni facciali ed emozioni.

A differenza delle espressioni delle emozioni che hanno carattere spon-

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taneo, nella fattispecie della danza Haka degli All Blacks si tratta di distor- sioni facciali espresse intenzionalmente, si potrebbe dire, simulate, allo scopo di suscitare un effetto deterrente sull’avversario. Come ha eviden- ziato Paolo Fabbri (2010, p.8), quando si parla di maschere all’interno del più vasto fenomeno del camouflage, è bene porsi la questione dei modi di produzione segnica, che, accanto alla dimensione della rappresentazione, è uno dei fattori chiave della manipolazione dell’apparenza. Riprendendo la distinzione elaborata da R. Jakobson tra segni “organici” e segni “stru- mentali”, possiamo considerare la smorfia Haka come segno organico vi- sivo, in quanto si tratta di “segni prodotti ad hoc da alcune parti del corpo umano sia direttamente che per mezzo di appositi strumenti” (Jakobson 1971[1968], p. 702)16.

Tuttavia, la vera chiave interpretativa per svelare il raffinato meccani- smo di questo tipo di maschera consiste, a mio parere, nel considerare la smorfia Haka come una ipertrofia intenzionale dei tratti mimici del volto. La dilatazione delle narici, la smisurata apertura della bocca, l’amplificare la dimensione del corpo in modo smisurato attraverso i gesti sono chiari

16. “The signs ad hoc produced by some part of the human body either directly or through the medium of special instruments” (Jakobson 1971[1968]: 702).

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indici della intensificazione dei tratti somatici. La smorfia Haka è in realtà una caricatura del volto. Questo è un aspetto fondamentale in quanto illu- mina il maccanismo che sta alla base della maschera in generale, come ha ben evidenziato Ogibenin: «È importante che la maschera come strumen- to di isolamento e alienazione si basi, nella maggior parte delle culture conosciute in cui viene utilizzata, sulla modalità generale dell’ipertrofia delle costanti fisiche del volto umano, e non su quella della sua modifica, in cui l’elemento reale del corpo umano sarebbe simbolicamente diminu- ito o ridotto. Piuttosto, l’intensificazione dell’aspetto e degli elementi del corpo umano si verifica nelle maschere»17. L’intensificazione e l’esagera-

17. “It is important that the mask as an instrument of isolation and alienation is based, in the majority of known cultures in whiuch it is used, on the general mode of the hypertrophying of the physical constants of the human face, and not on that of its modification, in which the actual element of the human body would be symbolically diminished or reduced. Rather, intensification of the appearance and elements of the human body occurs in masks”.

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zione dei tratti del volto accomuna la maschera al clown, figura spesso relegata alla periferia della semiosfera. Come ha notato con perspicacia M. Bakthin (1968, p. 40), “parodie, caricature, smorfie, posture eccentriche e gesti comici derivano dalla maschera”.

5. Conclusioni

Nel presente studio, più che trattare della maschera come artefatto, og- getto o concetto, si è fatto riferimento alla fenomenologia del maschera- mento come categoria generale, ossia un insieme di fenomeni eterogenei con un denominatore comune: la manipolazione dell’apparenza. Abbia- mo visto che la maschera altera, cancella, accentua o sopprime i tratti del viso. Si è trattato, dunque, di pensare la maschera oltre la maschera, cioè di superare i confini di un concetto troppo spesso appiattito nella sua dimensione materiale e formale della maschera come artefatto. Ci siamo soffermati, invece, sui presupposti e i meccanismi raffinatissimi del suo funzionamento — il fare della maschera — prescindendo dalle caratteristi- che e varietà formali, materiali e culturali dell’artefatto, senz’altro utili per studi di carattere antropologico-comparativo.

La prospettiva di ricerca qui assunta, ci ha portato a riformulare la no- zione di maschera come dispositivo (nel senso Foucaultiano del termine) di copertura del volto, verso uno sviluppo teorico che tende a superare la dialettica volto-maschera per abbracciare una definizione più ampia. Molto esplicito a questo riguardo è Hubert Damish (1979, p. 783) che ha scritto: «il termine ‘maschera’ assume allora la funzione non più solo di un concetto, relativo ad una classe di oggetti, ma di una vera categoria cri- tica». Come ha evidenziato la discussione sulla smorfia nella danza Maori, il viso stesso può, attraverso l’uso strumentale dei tratti mimici del volto — l’ipertrofia e l’intensificazione dei tratti somatici del viso — incarnare una maschera.

La ricerca ha delineato due forme della maschera, la maschera-volto, in- tesa come simulazione e inganno e il volto-maschera, cioè la capacità del volto umano di farsi esso stesso maschera18.

18. Le idee che ho esposto in merito alla fenomenologia della maschera non avrebbero potuto nascere senza gli stimoli ricevuti durante le conversazioni e i seminari tenutesi con il prof. M. Leone.

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