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Premessa: Cinema e dimensioni del senso

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 70-74)

Alfonso Di Prospero*

1. Premessa: Cinema e dimensioni del senso

Un’opera cinematografica che cerca di confrontarsi con il dominio di un’altra arte, deve aprirsi a problemi che sta soprattutto alla versatilità e creatività del regista cercare di risolvere. Il tipo di difficoltà che si crea può essere esemplificato con il film di Julian Schnabel, Sulla soglia dell’eternità, dove il soggetto prescelto, la vita e l’opera di Vincent Van Gogh, è quasi un luogo per mettere alla prova la potenza dell’immagine cinematogra-

* Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti.

1. Desidero ringraziare sentitamente i revisori di Lexia per le osservazioni ricevute, tutte estremamente stimolanti.

Lexia. Rivista di semiotica, 37-38

Volti Artificiali

ISBN 978-88-255-3853-3 DOI 10.4399/97888255385334 pp. 69-92 (marzo 2021)

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fica (il direttore della fotografia è Benoit Delhomme), che proprio nella dimensione visiva entra quasi in competizione con i risultati di quelle che sono le risorse espressive che l’artista olandese ha saputo genialmente in- ventare in pittura. Il fatto che il modulo visivo sia essenziale nel cinema, rende relativamente più semplice il compito. Nel caso di un altro film, Il colore del melograno, opera fondamentale di Sergej Paradžanov e, a detta di giudici autorevoli (facciamo solo il nome di Michelangelo Antonioni), di tutta la storia del cinema, il confronto che si istituisce è quello (a nostro avviso molto più elusivo) con il significato della poesia. Il tema del film è la vita di un grande poeta ashug armeno del ‘700, Sayat-Nova, ma l’inten- zione — resa esplicita dalla didascalia iniziale — è quella di una biografia interiore del poeta. La sfida è quindi difficilissima, e l’analisi degli strumenti impiegati può per questo promettere di essere interessante.

Il riferimento a Il colore del melograno può fare da occasione per conside- rare la relazione tra espressività del volto e rapporti differenziali interni al flusso dell’immagine, secondo un’ottica che vorrebbe servire ad indagare la funzione delle strutture semantiche e del contesto nella costituzione del senso attribuibile all’espressività del volto umano. Il fatto che il concetto stesso di struttura faccia da tramite per mettere in connessione il conte- nuto del senso con la trama circostante dei rapporti intessuta socialmen- te, come in De Mauro (1968), permette di collegare il tipo di ipotesi che proporremo con una lettura particolare della categoria del trans-umano in quanto applicata all’espressività del volto umano. La re-interpretazio- ne che avanzeremo del legame tra la struttura e le parti in connessione, porterà ad una parallela re-interpretazione del significato da attribuire alle possibilità di trasformazione dell’espressività umana. Per ragioni di spazio, non potremo dilungarci adeguatamente su molti aspetti della questione.

Il colore del melograno è stato interpretato come il frutto di una cinema- tografia “differenziale”, basata sullo scompaginamento dei criteri di iden- tità, condotto attraverso ripetizioni sistematiche e contemporaneamente variazioni nella presentazione degli elementi ripetuti, in Efird (2018), ri- prendendo Oeler (2006) oltre che Lotman (1989), con un utilizzo sempre di grande pregnanza delle ricorrenze isotopiche, che si presentano con una forma che in musica sarebbe quella del tema con variazioni (anche se in realtà narrativamente il senso della continuità è ridotto pressoché al minimo, in modo da far apparire molte scene e molti elementi in una condizione di irreale sospensione), invitando al confronto con le idee che

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Lévi-Strauss (1964) esprime soffermandosi sul rapporto tra musica e mito. Quello che noi vorremmo osservare è che l’apparente astrattezza di questa metodica porta a risultati particolarmente sorprendenti — e che potrebbero essere giudicati, per così dire, contro-intuitivi — proprio sul piano della potenza dell’espressione dell’emozione. Può essere fatto un utile confronto con un film molto diverso, Diario di un curato di campagna (come noto, tratto da un romanzo di Bernanos citato da Greimas [1966], pp. 204-5 e cap. 12), di Robert Bresson, in cui una recitazione che cerca continuamente di dire l’emozione, ricorrendo a formulazioni relativamen- te prevedibili — l’esatto opposto dell’aura di mistero che pervade ogni scena del film di Paradžanov — è esposta, a nostro avviso, al rischio di voler troppo dire. Il nostro punto di vista non è solo di taglio cinematogra- fico. Ci sono temi — l’esperienza dell’ispirazione di un poeta, il tormento spirituale di un sacerdote che fa fatica a trovare il modo per orientarsi nella propria fede — che sono troppo densi per poter essere fatti oggetto linear- mente di una presa in carico da parte del linguaggio. Si tratta di esperienze il cui contenuto è — vorremmo dire — irriducibilmente individuale, e la loro comunicazione è esposta al rischio di un sovraccarico nel compito che si vede assegnare, con il rischio — soprattutto — di far apparire come ingenue o di banalizzare realtà che a tali accuse assolutamente non devono sottomettersi. Si può osservare anche che, in riferimento alle filosofie del trans-umanesimo, si può apprezzare la rilevanza di questo tema in quanto direttamente associabile a quelli che sono i processi di individualizzazione discussi per esempio da Anthony Giddens (1990).

Il fatto che sia il linguaggio, in quanto struttura per la comunicazione, a cadere in forme di ingenuità espressiva o di banalizzazione del contenuto, non può finire per trasmettere un’analoga opacità anche alle realtà che, in se stesse, hanno costituito il vissuto della persona. La grandezza e l’originalità di Paradžanov stanno nel fatto che ottiene il risultato della massima effi- cacia espressiva, nel caso — difficilissimo — della traduzione in immagini del vissuto emotivo di un poeta alle prese con la potenza del suo sentire (è proprio questo il tratto della personalità di Sayat-Nova che ci sembra venga maggiormente esaltato ne Il colore del melograno), attraverso (i) un’accurata preparazione preliminare, che viene fatta con strumenti che — semiologi- camente — possono essere classificati come di impostazione strutturalista, ma poi (ii), al momento in cui serve, la tensione lirica viene espressa non per mezzo della sua affermazione nel modulo visivo del cinema (il rischio sarebbe

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quello di una sovrabbondanza di pretese comunicative, con la possibilità di esiti facilmente biasimabili come retorici), ma piuttosto con la sua negazione (secondo una logica tutto sommato affine a quella della teologia negativa)2.

La domanda è: se le strutture in quanto tali sono destinate ad attraver- sare e “tagliare” i contenuti dell’individualità, che per se stessa sarebbe contenitore di qualia inafferabili, senza tenerne conto, o tenendone conto solo al fine di ridurne il senso a quanto le strutture stesse nella loro astrat- tezza e generalità possono veicolare, è contro-intuitivo che la massima potenza dell’espressione emotiva individuale sia trovata per mezzo di mo- duli di carattere strutturalista? Peraltro dovendo procedere con l’ulteriore paradosso per cui immagini che — visivamente e fenomenologicamente — sono in alcuni momenti quasi ironiche di fronte al compito di esprime- re l’emozione, quasi a voler riconoscere che quelle emozioni non possono essere espresse nel linguaggio (e che semmai il poeta, nella sua lingua, è l’unico che, con i suoi versi, può darne il modello), sono proprio quelle che — in forza di un meccanismo che, attraverso l’ironia, è formalmente negante — riesce però ugualmente ad affermare. (Il termine ironia forse qui non è del tutto appropriato, ma un meccanismo di distanziamento — an- che attraverso la forte stilizzazione — è comunque presente. Sarebbe poi da valutare il ruolo che i rischi della censura hanno avuto nello sviluppo di un linguaggio così fortemente criptico).

È in gioco il confronto tra paradigmi di pensiero nomotetici (come lo strutturalismo) e idiografici (in questo lavoro, faremo riferimento al pensiero di Emmanuel Lévinas, in particolare a Totalità e infinito), avendo come punto di riferimento la questione dell’esprimibilità della bellezza e dell’emozione. Il tipo di intuizione che abbiamo in mente può essere espressa con i termini teorici di Niklas Luhmann, che parla, in Belardi- nelli-Luhmann (1993, p. 133), del suo approccio funzional-strutturalista come destinato a proteggere l’individualità, proprio attraverso una sorta di suo occultamento. È nostra intenzione però proiettare questa strategia verso un tipo di concettualizzazione estremamente diversa da quella luh- manniana.

2. La questione può essere messa in relazione con il problema generale della neutralizzazione degli esiti espressivi che vengono potenzialmente aperti dalle condizioni in cui si svolge un rap- porto tra persone, discusso da Francesco Marsciani (1988) in relazione a Greimas e al “quadrato semiotico” da un lato e a Husserl dall’altro (vedi infra).

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