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Volti normativi Due casi di studio

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 108-122)

Rappresentazione ed espressione: note storico-critiche sull’estetica del volto digitale

4. Volti normativi Due casi di studio

Una volta chiarito il quadro concettuale di fondo, e dopo aver mostrato come questo stesso quadro permette di rilevare alcune tensioni teoriche nel contesto della storia dei parametri normativi legati al volto, vorremmo mostrare attraverso due brevi esempi come questa tensione si riproponga in termini molto simili nel nostro tempo, soprattutto in riferimento al mondo digitale. Il primo esempio ha carattere più rigidamente tecnico, e riguarda gli sviluppi della cosiddetta machine vision in riferimento al ri- conoscimento facciale. Il secondo esempio, invece, si concentra più sulla dimensione propriamente estetico-assiologica, prendendo in considera- zione un caso in cui l’animazione digitale del volto appare chiaramente sospesa tra i due principi paradigmatici esposti.

Come vedremo, in entrambi i casi l’apparente adesione a un modello univoco — in un caso la rappresentazione, nell’altro l’espressione — si rivela insufficiente, mostrando la necessaria compresenza tensionale dei due modelli.

4.1. Rappresentazione e riconoscimento. Il caso del volto nell’ambito della machi- ne vision

La machine vision è uno dei campi più interessanti e promettenti all’inter- no delle ricerche sullo sviluppo delle tecnologie digitali. Si tratta di un campo legato a diversi impieghi, dal mondo della fotografia e dell’anima- zione all’analisi dei dati, dai sistemi di sicurezza ai famigerati software di controllo sociale.

Al suo interno, un ruolo di primaria importanza è ricoperto dagli al- goritmi che permettono di individuare, riconoscere e valutare i volti. È importante tenere presente che si tratta di tre livelli distinti: il campo della face detection sviluppa algoritmi capaci di riconoscere volti all’interno di foto e video, mentre la face recognition ha una funzione più complessa, oc- cupandosi di identificare lo stesso volto all’interno di materiali audiovisivi differenti. Infine, software come EyeEm9 hanno avviato l’impresa pioneri-

stica di sviluppare, nei processi macchinici, l’abilità di assegnare un valore estetico alle fotografie, così come al loro contenuto.

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Essendo attivo ormai da decenni, il campo della machine vision ha or- mai una sua storia. È interessante notare che le diverse tecniche messe in atto per ottenere risultati nell’identificazione e nel riconoscimento dei volti implementano criteri spesso associabili ai criteri estetici che abbiamo analizzato nel caso dell’estetica del volto nella pittura rinascimentale.

Come è noto, ormai i sistemi di riconoscimento facciale si basano su processi di machine learning di seconda generazione, capaci di sviluppare autonomamente l’algoritmo di selezione. Tuttavia, questi processi si fon- dono pur sempre su delle indicazioni metodologiche di base, che possono essere ridotte essenzialmente a tre tipologie.

Una prima tipologia sembra corrispondere al metodo prediletto da Fi- renzuola: il software viene “addestrato” a riconoscere determinate caratte- ristiche essenziali del volto (gli occhi, la bocca ecc.). Questa metodologia, chiamata feature-based approach, ha il difetto di essere piuttosto aleatoria, e di generare numerosi falsi positivi (in altri termini, il software riconosce come volti anche elementi dello sfondo) (Datta et al. 2016, p. 21).

Una seconda tipologia è il template-based approach, che individua — e riconosce — il volto individuale a partire dalla produzione di un “model- lo normale” soggiacente ai singoli casi (la cosiddetta “Eigenface”; Datta, Datta e Banerjee 2016, p. 29). Questo metodo corrisponde, da un lato, all’ideale platonico di un “modello” originario al quale ricondurre le sin- gole istanze di un volto, ma dall’altro coincide perfettamente con la “nor- malizzazione statistica” dell’estetica che abbiamo ricostruito.

Infine, la terza tipologia è basata sull’applicazione di una griglia tri- dimensionale al volto (Datta et al. 2016, p. 35), e sul riconoscimento di alcuni parametri facciali fissi in base a regole e proporzioni date. Questo metodo, attualmente molto usato soprattutto nel caso dei dispositivi por- tatili, sembra coincidere con il criterio estetico basato sulla geometria e la proporzione delle fattezze.

Ognuno dei tre metodi ha i suoi punti deboli, ma ciò che ci interessa in questo caso è chiederci se la tensione tra modello rappresentazionalista ed espressivista possa essere uno strumento metodologico utile a compren- dere le premesse teoriche delle strategie utilizzate. A un primo sguardo, come ha mostrato l’immediata corrispondenza messa in luce tra i modelli e i criteri estetici già esposti per valutare la bellezza del volto femminile, alla base di tutti e tre gli approcci si troverebbe un paradigma di carattere chiaramente rappresentazionalista. In ogni caso, infatti, si tratta di riuscire

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a tracciare una corrispondenza tra l’immagine e un “modello” esteriore rispetto a essa. Ciò che cambia è la precisione del modello, la sua plasticità e le modalità della sua generazione.

Nel momento in cui il criterio di riferimento è esteriore rispetto all’og- getto stesso da identificare e valutare, la possibilità dell’errore diventa strut- turale. Questo soprattutto perché è estremamente difficile produrre criteri quantitativi di riconoscimento facciale che rispecchino con precisione la no- stra conoscenza intuitiva di cosa costituisce un volto. Proprio per via di que- sta difficoltà, gli episodi di misrecognition10 o di false negative11 (Austin 2019) a

sfondo razziale siano diventati un vero e proprio genere letterario del gior- nalismo tecnologico degli ultimi anni: dai telefonini che non riconoscono utenti di colore a software per l’archiviazione di immagini che identificano degli individui afroamericani come gorilla (Zhang 2015; Simonite 2018), fino alle perturbanti statistiche riguardanti le diverse performance dei software di facial recognition quando messi di fronte a volti appartenenti a etnie diverse (Grother et al. 2019). Al tempo stesso, tuttavia, questi casi sono destinati a diventare sempre più rari. La ragione non risiede semplicemente nell’aggiornamento delle tecniche o nel potenziamento delle tecnologie, ma nella natura stessa del machine learning, che pur facendo riferimento a modelli, li aggiorna plasticamente e continuamente sulla base del feedback degli utenti. Riprendendo l’analisi appena compiuta, ciò che appare come un modello strettamente rappresentazionalista — e dunque eteronomo — è invece un modello in cui la dimensione normativa di tipo canonico ha già lasciato posto a una normatività di carattere statistico, all’interno della qua- le — come già rilevato — la differenza tra rappresentazione ed espressione è molto più sfumata, e può essere ricondotta a diversi modi di interpretare e utilizzare la distribuzione di un certo numero di parametri.

Per questa stessa ragione, ad esempio, è possibile ricondurre i softwa- re di face expression recognition (FEM) allo stesso modello: ciò che cambia è solo il modo in cui l’algoritmo interpreta l’oscillazione di determina- ti parametri all’interno di modelli statistici in continuo aggiornamento (Huang et al. 2019).

10. Si parla di “misrecognition” quando un volto viene identificato, ma associato a un altro volto che non appartiene allo stesso individuo.

11. Un falso negativo è un caso in cui un dispositivo non riconosce un volto, pur avendone uno davanti.

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4.2. Espressione e rappresentazione nel volto animato. Il caso Inside Out

Se nel caso dei fenomeni connessi al riconoscimento facciale il problema che si pone è quello di una definizione eteronormativa del volto che ne consenta, per l’appunto, il riconoscimento, nel caso dell’animazione (e a maggior ragione dell’animazione digitale) la questione del volto si pone da sempre in relazione alla rappresentabilità di soggetti non umani. Il mondo dell’animazione, infatti, è luogo di particolare interesse per lo studio dei fenomeni di antropizzazione di oggetti inanimati, animali e persino con- cetti. Il caso del film Disney Pixar Inside Out (2015) offre, da questo punto di vista, un esempio particolarmente interessante nel suo essere un tenta- tivo di sistematica traduzione in termini narrativi della vita della mente, con particolare riferimento alla dimensione emotiva. Joy, Sadness, Anger, Fear and Disgust costituiscono un esempio particolarmente interessante di

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come il paradigma rappresentativo e quello espressivo si sovrappongano, all’interno di un prodotto culturale che tenta di rappresentare ed esprime- re, per l’appunto, un tema tipicamente filosofico quale la vita della mente. Analizzando i personaggi, una prima considerazione che emerge con- cerne l’anatomia del volto. In tutti i personaggi, come d’altronde avviene tipicamente in molti casi di prodotti d’animazione, gli elementi del volto sono stereotipati in maniera eccessiva e anormale. Tali elementi, che di per sé apparterrebbero al paradigma rappresentativo, nella misura in cui tentano di personificare (e dunque rappresentare in forma umana) con- cetti astratti come le emozioni, assumono tuttavia anche una funzione espressiva, proprio in virtù della distorsione delle forme anatomiche. In modo non dissimile a quanto riscontrato in certe forme di arte contem-

Figura 5. Edvard Munch (1893-1910) Skrik, olio, tempera e pastello su cartone, 91 x 73,5 cm, Nasjo- nalgalleriet, Oslo.

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poranea (Fig. 5), la distorsione delle componenti facciali è finalizzata all’e- spressione dell’emozione in questione (Fig. 6), che non vuole essere sem- plicemente rappresentata, ma “incarnata” in nella figura di una persona. Non si tratta di rappresentare, per esempio, la paura o la tristezza, ma di esprimerne i tratti costitutivi ed essenziali.

D’altro canto, il carattere espressivo è testimoniato anche dall’utilizzo di quelle che, con la fenomenologia sperimentale di Paolo Bozzi, si potrebbero chiamare “qualità terziarie” (Bozzi 1990). Riprendendo la classica distinzio- ne filosofica tra qualità primarie (relative alla quantità) e qualità secondarie (relative alla qualità), Bozzi introduce l’idea, in realtà ripresa dall’opera di John Locke, che vi siano specifiche qualità terziarie (relative all’espressio- ne, per l’appunto) colte dalla nostra percezione del mondo esterno12. Tali

qualità determinerebbero, per esempio, il fatto che un certo accordo musi- cale possa essere definito “lugubre” anziché “gioioso”, oppure che un dato colore possa essere considerato dall’osservatore come “allegro” o “triste”. Tali qualità, naturalmente, sono particolarmente instabili, poiché possono dipendere, anche in maniera considerevole, da elementi di natura sociale e

12. Per una discussione sul tema delle qualità terziarie si veda Forlè (2017).

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culturale, per quanto i soggetti di volta in volta coinvolti facciano riferimen- to ad esse come a elementi costitutivi dell’oggetto percepito. La personifi- cazione delle emozioni in Inside Out, in tal senso, si associa a una strategia espressiva che gioca precisamente sulle qualità terziarie che i colori giallo (Joy), blu (Sadness), rosso (Anger), viola (Fear) e verde (Disgust) possiedono nella cultura del “lettore modello” (Eco 1985) del film, sebbene con alcune eccezioni. L’emozione “protagonista” Joy, infatti, appare particolarmente “colorata” e ricca di dettagli cromatici rispetto alle sue controparti, dal mo- mento che, per esempio, è l’unica a presentare un colore dei capelli e degli occhi che non è semplicemente un tono più scuro del colore dell’incarnato, oltre che a un abito di colore verde, anch’esso diverso da quello della pelle.

Anche sul piano della rappresentazione, inoltre, Joy sembra differenziar- si dagli altri personaggi, quantomeno per le dimensioni, che la rendono particolarmente adatta ad occupare lo spazio centrale (corrispondente alla sua funzione di leader del gruppo) all’interno delle composizioni. La sua figura anatomica è, in tal senso, rappresentazione simbolica del suo ruolo all’interno delle dinamiche mentali vissute dalla protagonista del lungome- traggio e, d’altronde, il suo viso, il colore del suo incarnato, la sua corpo- ratura e la sua identità di genere suggeriscono una più immediata identifi-

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cazione con la stessa protagonista, Riley. Non è un caso che lo scopo di Joy sia, letteralmente, quello di rendere felice Riley, ossia di arrivare il più vicino possibile a una piena identificazione con la protagonista, mentre, al contra- rio, lo scopo degli altri personaggi/emozioni non è lo stesso. Lo scopo di Fear, per esempio, non è quello di rendere paurosa Riley, ma di preservare lei (e la sua felicità) dai possibili pericoli del mondo, mentre il personaggio di Sadness (l’opposto di Joy) non sembra avere uno scopo ben preciso (an- che a detta degli altri personaggi) e appare spesso intenzionata a collaborare per la felicità di Riley. I diversi personaggi, dunque, sono espressione di una certa emozione, ma sono anche rappresentazione nella loro funzione di personaggi a tutti gli effetti, che agiscono e si muovono sulla scena.

Anche nel caso di questo film di animazione, il paradigma rappresen- tativo e quello espressivo non si escludono vicendevolmente, ma tendono a sovrapporsi in una struttura dinamica e dialettica, nella quale, ancora una volta, la differenza tra espressione e rappresentazione tende a sfuma- re. Veri e propri volti transumani, nel loro tentativo di cogliere attraverso la corporeità umana il mondo interiore delle emozioni, i personaggi di Inside Out impiegano sì strategie espressive come l’utilizzo delle qualità terziarie, ma non rinunciano fino in fondo alla rappresentazione, optando per una sovrapposizione di linguaggi diversi, che si coordinano nella strut- tura narrativa del film.

5. Conclusioni

La distinzione concettuale tra un paradigma rappresentazionalista e un paradigma espressivista ha consentito di rilevare alcune tensioni di carat- tere descrittivo e assiologico nel discorso normativo relativo al volto. Gra- zie a un breve inquadramento storico, abbiamo mostrato come queste tensioni abbiamo trovato espressione in determinati passaggi della storia delle idee estetiche e scientifiche, e come siano state elaborate e svilup- pate secondo modalità che si riflettono ancora oggi nell’evoluzione delle nuove tecnologie e nelle tendenze della cultura di massa. I due esempi scelti come casi empirici, infatti, hanno confermato la piena applicabilità di questo modello tensivo alle attuali strategie con cui il volto viene fatto oggetto di analisi e rielaborazione tecnica.

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che per una ricerca di carattere storico, che permetta di delineare i tratti fondamentali di una genealogia dei paradigmi normativi relativi all’este- tica del volto. Allo stesso tempo, il modello teorico proposto potrebbe costituire un valido punto di partenza per tracciare l’evoluzione della ma- chine vision, individuando potenzialità e limiti del cosiddetto “occhio della macchina” (Arcagni 2019).

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Filmografia

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Parte ii

MASCHERE

Part ii

121

Le forme della maschera: Aspetti semiotici

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 108-122)