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Relazioni e significato

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 74-83)

Alfonso Di Prospero*

2. Relazioni e significato

Possiamo utilizzare, anche se sempre da un’angolazione molto critica, l’impostazione seguita da Moritz Schlick, che distingue tra “forma” e “contenuto”, cioè tra i sistemi di relazioni e gli elementi messi in relazio- ne dall’attività della mente. “[C]olui che ha fame di contenuto ha fame di qualcosa che è totalmente diverso dalla conoscenza” (1987 (1932), p. 106). “L’intuizione, l’identificazione della mente con un oggetto, non è cono- scenza dell’oggetto né contribuisce ad essa, poiché non soddisfa allo scopo dal quale la conoscenza è definita: trovare la nostra strada attraverso gli oggetti […] L’identificazione con una cosa non ci aiuta a trovarne l’ordine, ma ci impedisce di farlo. L’intuizione è godimento, il godimento è vita, non conoscenza. E se voi dite che essa è infinitamente più importante della conoscenza, io non vi contraddirò, ma in ciò sta forse una ragione in più per non confonderla con la conoscenza” (1932, trad. it. 1987, p. 93).

È quindi la relazione tra termini l’unico tramite possibile per la comu- nicazione, per l’espressione del significato e per il sapere? Adottando que- sto punto di vista, le pretese classiche dello strutturalismo in semiologia diventano evidentemente molto plausibili (in realtà lo stesso Luhmann dedica molte pagine proprio al tentativo di stabilire un primato ontologi- co radicale della relazione e della struttura). Dobbiamo però osservare che sono possibili alcuni rilievi che vanno in direzione opposta.

Nei termini di Greimas (nel contesto in cui parla della “prima” defini- zione di struttura),

Noi cogliamo delle differenze e, grazie a tale percezione, il mondo ‘prende forma’ davanti a noi e per noi […]

1. Percepire differenze significa cogliere almeno due termini-oggetto come simul- taneamente presenti.

2. Percepire differenze significa cogliere la relazione tra i termini, collegarli in un modo o in un altro […]

Un solo termine-oggetto non comporta significazione. (Greimas, trad. it. 2000, p. 38)

Se si guarda al modo in cui Piaget (che in seguito richiameremo più dettagliatamente) descrive il sincretismo iniziale del bambino e il successi- vo comparire di una logica delle relazioni (che presuppone materialmente

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una mobilità — e quindi l’avvicendarsi — dei quadri percettivi), si deve ammettere che c’è (prima) un singolo quadro percettivo (statico e in sé unitario), considerando il quale (da solo) il bambino neppure potrebbe ca- pire che cosa significa (per esempio) lo “stare sotto/sopra” (intesa come “relazione”: proprio perché sta osservando solo una delle possibilità pre- viste), mentre solo in seguito, vedendo che una stessa sezione del quadro percettivo (un certo oggetto) può stare in un momento sopra e in un altro momento sotto (per esempio) un tavolo, e rimanere lo stesso contenuto percettivo, arriverà a padroneggiare sempre meglio una logica delle rela- zioni. Nei termini del dibattito provocato a fine Ottocento dall’opera di Francis Herbert Bradley, le “relazioni” per il bambino inizialmente potreb- bero essere solo interne. In questo modo, ci sembra di poter ottenere di ca- ratterizzare almeno in prima approssimazione il concetto di contenuti che “sono presenti” alla mente (in senso statico e non differenziale). Anche per il bambino, entro un unico quadro percettivo, si danno “differenze” (tra il verde dello stelo e il rosso dei petali di un fiore, per esempio), ma nel singolo istante in cui avviene la percezione, queste non sono ancora veicolo di significazione in un senso che possa coinvolgere qualcosa di non immediatamente dato.

Inoltre, e qui arriviamo ai passaggi più importanti del nostro ragiona- mento, chi comunica con un messaggio M, si rivolge ad un interlocutore che (i) deve capire M, (ii) deve poter considerare come nuova l’informazio- ne ricevuta attraverso M. Se M fosse un messaggio semplice (composto da un solo elemento3), il ricevente o (i) capisce M, ma allora M non può esse-

re nuovo, perché per capirlo deve sapere per che cosa M sta, e dato che M è semplice, non può essersi trasformato tra i momenti precedenti, in cui il ricevente ha acquisito la padronanza del significato di M, e il mo- mento attuale della ricezione di M: se M si fosse trasformato, dato che è semplice, sarebbe diventato semplicemente un altro termine. Oppure (ii) il ricevente non capisce M, quindi la comunicazione è impossibile. Quindi, sotto le condizioni dette (in particolare che la comunicazione trasmetta

3. Probabilmente qui la nozione da usarsi è quella greimasiana di sema, ma il quadro teorico entro cui arriveremo a muoverci obbliga a molta prudenza nella valutazione di questo confronto. No- tiamo peraltro l’interesse che potrebbe avere un’indagine tesa a sviluppare il collegamento tra queste idee di Greimas e la ricerca di “oggetti” semplici come base del significato nel Tractatus logico-philo-

sophicus di Ludwig Wittgenstein (tema da noi discusso in Di Prospero 2020c), anche se entrambi gli autori, significativamente, hanno abbandonato nel proprio percorso successivo questa prospettiva.

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informazione nuova per il ricevente) abbiamo che la comunicazione deve avvenire in effetti attraverso strutture non semplici, ma composte, quindi relazionali4. Pensiamo qui in particolare all’universale linguistico della for-

ma tema-commento (o più esattamente il suo corrispondente logico-co- gnitivo), e alla facilità con cui esso può essere visto come il corrispondente linguistico di un’ontologia basata sulle nozioni di individuo (un sostrato di proprietà) e qualità (che a quel sostrato ineriscono). Si noti inoltre che anche i costrutti logici che la tradizione filosofica definisce “universali” si inseriscono in modo coerente entro questo quadro. Se infatti in un mes- saggio della forma tema-commento non vi fosse un termine “universale” (applicabile a due o più individui, quindi anche all’esterno del messaggio di partenza) il messaggio — apparentemente composto — sarebbe in re- altà una sorta di monolite, e quindi — funzionalmente — semplice, ripe- tendosi così la situazione appena discussa5.

In base alla nostra argomentazione è il contenuto d’informazione tra- smissibile da un parlante ad un altro che — per soddisfare l’esigenza di po- ter essere nuovo, essere cioè informativo — deve essere strutturato come relazione tra (almeno) due elementi, essere cioè della forma tema-com- mento6. Ci sembra che sia proprio questa condizione a creare le premesse

per una sorta di effetto “a cascata”: la comunicazione, la condivisione so- ciale del significato e dell’informazione, la generalizzabilità dei contenuti propria delle metodologie di pensiero nomotetiche, sono tutte costitu- tivamente in debito con la forma tema-commento (Bogdan scrive che è solo grazie a questa che la mente del bambino può accedere alle conquiste della cultura, convergendo così con Ferraro [2019]). Ma questo — osser- viamo — non significa che sia contradditorio o paradossale un contenuto di pensiero che sia non relazionale e non differenziale, né è necessario in generale che il senso debba essere concepito come sempre orientato e da cogliersi narrativamente e dinamicamente. Semplicemente esso dovrà rimanere un contenuto di senso per l’individuo che lo possiede, mentre è la sua eventuale condivisione (ammesso che così possa essere definita) che è

4. Che la comunicazione possa avvenire, è un punto che — a rigore — andrebbe dimostrato a parte (cfr Di Prospero 2020a).

5. Le implicazioni di questo punto per l’epistemologia e l’ontologia sono state da noi discusse in modo più dettagliato in Di Prospero (2020b).

6. Gli autori che qui sono da richiamare sono (almeno): Bogdan (2009), Bradley (1893²), oltre che Benveniste (1966), Heidegger (1950) e, per esempio, tra i molti altri possibili, Slobin (1987).

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condizionata ad una sorta di deformazione che esso deve subire per essere sottoposto ad un regime logico — quello della forma tema-commento — che ad esso imprime una torsione, facendogli in effetti violenza. L’idea è quindi che le “strutture”, messe al centro della scena dallo strutturalismo, debbano essere intese — a rigore, e soprattutto sul piano dell’ontologia — come dispositivi per la trasmissione dei contenuti di informazione da un parlante ad un altro, ma non come una condizione intrinseca per il possesso dei contenuti da parte dell’individuo. Vorremmo sostenere che è per questo che l’individuo — in quanto tale, cioè in quanto sottratto ana- liticamente alla trama delle relazioni sociali — può conservare un termine per il confronto per valutare la densità espressiva ottenibile attraverso le strutture predisposte dal linguaggio per la comunicazione intersoggetti- va, secondo un tipo di idea che sarebbe interessante confrontare con Go- odman (1968²). È inteso però che una certa misura di indeterminazione del significato rimane necessariamente ineludibile (come è intuitivo co- munque che debba ammettersi) e che ogni codice sia gravato nei fatti da ciò che Eco chiama “ipocodifica” (1975, p. 204-5). Il riconoscimento di un tale vincolo può forse essere utile da mettere in relazione con i punti pri- ma indicati discussi da Marsciani: senza l’accettazione di una misura di in- determinatezza come “regola” preliminare dello scambio comunicativo, le significazioni emergenti — anche oltre ogni intenzionalità — nel corso della relazione sarebbero presumibilmente del tutto resistenti a rigore ad ogni tentativo di neutralizzazione.

Il modello teorico entro cui ci muoviamo può essere fatto derivare dall’epistemologia genetica di Jean Piaget (1937): il neonato, secondo le classiche ricerche di questo studioso, non dispone delle nozioni di spazio e tempo, di sostanza semi-permanente, del principio di conservazione e del- la distinzione tra soggetto (io) e mondo oggettivo. È impossibile in questo quadro ammettere che il bambino comprenda il senso delle “relazioni”. Tutte queste nozioni sono costruite gradualmente nei primi anni di vita. Il mondo del neonato è radicalmente sincretico (oltre che continuamente e del tutto fluttuante): l’assenza di una logica delle relazioni porta a vedere i contenuti di ogni quadro percettivo dato in un certo momento come for- mato da contenuti tra loro intrinsecamente associati. La possibilità della dissociazione tra questi contenuti viene appresa per esperienza, osservan- do che alcuni di essi scompaiono anche se altri permangono, e imparando che nel variare dei contesti alcuni contenuti sono isolabili però come gli

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“stessi”. In generale, si tratta di una logica induttiva, il cui fondamento psicologico sta verosimilmente proprio nel fatto che il bambino non può uscire da un così radicale sincretismo. Nelson Goodman (1983², trad. it. 1985, pp. 80-1), parla dell’induzione come di un prendere l’insieme dei dati osservati per una immagine completa del mondo. In questo senso, l’indut- tivismo del bambino (e nei termini di Piaget, il suo egocentrismo) è così radicale che in ciascun nuovo istante, essendo diversa l’evidenza imme- diata, è diverso anche il campo generale delle “induzioni” effettuate, che consistono in realtà nello scambiare il dato-ora (tutto ciò che è dato-ora) per il mondo. In termini intuitivi, è una lunga serie di generalizzazioni in- duttive ciò che fonda e costituisce l’immagine del mondo che man mano viene elaborata. Data però la forte dipendenza di questo modello dalla psicologia, è facilmente intuibile che l’induzione, entro questo quadro, sarà caratterizzata soprattutto come forma di inferenza non-monotona.

Parlare qui di sincretismo è una mossa che ci invita ad applicare la no- zione di Gestalt, con un esito che è immediatamente in controtendenza con gli indirizzi di pensiero della psicologia del ‘900: essendo l’induzio- ne una forma di pensiero non-monotona, ogni nuovo elemento acquisito come dato crea un diverso effetto di campo nell’insieme delle induzioni ef- fettuate. Per questa via, il tipo di induttivismo che difendiamo è collega- bile molto più alla Gestalt Psychologie che non, per esempio, al comporta- mentismo. Rudolf Arnheim critica l’associazionismo empirista perché per produrre una generalizzazione sarebbe necessario sapere già preliminar- mente su quali proprietà generalizzare (1969). È essenziale però osservare che l’induttivismo qui difeso — per quanto si possa inscrivere ancora nel quadro dell’empirismo — si sottrae decisamente alle critiche di Arnheim. Gli items presenti ogni volta all’attenzione, riuniti in Gestalten, danno luo- go implicitamente a quella che l’adulto interpreta come una “generalizza- zione”, ma ontologicamente rimangono un singolo contenuto figurativo. Il richiamo prima fatto a Schlick può portare a chiedersi in che modo, in base al nostro approccio, debbano giudicarsi le classiche posizioni di Louis Hjelmslev (1961) sulla doppia opposizione tra espressione e contenu- to, e tra forma e sostanza. L’argomentazione che ora abbiamo portato dà una traccia per rispondere. La nostra ipotesi è che l’adulto accetti come autoevidente l’intuizione metafisica che si diano individui-con-proprietà (sostanze e accidenti, richiamandoci al più illustre filosofo che espone que- sta concezione, Aristotele), sulla base di un condizionamento operato dai

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processi di comunicazione entro cui è immerso, dato che questi sistemati- camente avvengono mediante la forma tema-commento — anche se solo per le ragioni di carattere funzionale appena indicate: se non si ricorresse ad una forma espressiva di tipo (almeno) diadico, non potrebbe esservi, per principio, comunicazione di contenuti nuovi. Il bambino molto pic- colo, non ancora esposto all’influenza dei processi di comunicazione (per semplicità, qui ci riferiamo solo a quelli di natura linguistica), è ancora sot- tratto a questo condizionamento, ed è portato quindi in modo spontaneo ad usare più liberamente l’inferenza induttiva nelle sue forme più elemen- tari e primitive, che consistono in un semplice sincretismo che percepisce come inestricabilmente associate delle unità di esperienza (dei dati) che solo le esperienze successive gli insegneranno che possono presentarsi come dissociate tra loro. In questo quadro, l’obiettivo di Hjelmslev di una “linguistica immanente”, autonoma rispetto ad altri campi del sapere, per- de a nostro avviso di mordente (e da questa opinione deriva anche la piena legittimazione che ci sembra di poter dare allo studio della “materia” e della “sostanza” dell’espressione come del contenuto, ai fini di una corret- ta impostazione nello studio del significato e della lingua). Nei termini di Frederick Strawson, quella cui noi ci rifacciamo è una metafisica “corretti- va”, non “descrittiva”, e questo rende molto più improbabile che il lingui- sta, riferendosi ai fenomeni che spontaneamente si giudicherebbero come afferenti alla linguistica, centri davvero il suo bersaglio. Il rischio è quello di ritagliare l’oggetto della linguistica isolandolo da uno sfondo di altri fenomeni che in realtà sono di estrema utilità per comprendere anche ciò che — nello sguardo stesso di chi si limiti alle evidenze più dirette — della linguistica è più proprio. Al tempo stesso, Hjelmslev, distinguendo tra una forma e una sostanza sia per il piano dell’espressione, sia per quello del contenuto, arriva a conclusioni che indirettamente agevolano in qualche modo il nostro lavoro, allestendo uno spazio concettuale entro cui una “sostanza” si manifesta in una “forma”, che dà così alla prima il potere di vincere il caos della “materia” e “della ‘massa del pensiero’ amorfa” (1961, trad. it. 1968², pp. 56-7): noi da parte nostra aggiungiamo il riferimento ad un processo ontogenetico che dovrebbe portare a scandire il processo di costituzione nel tempo di questi rapporti in modi anche relativamente diversi da quelli che può aspettarsi invece l’adulto che si basi sulle sole sue intuizioni immediate. Per Hjelmslev (1961, trad. it. 1968², p. 26), “gli ‘oggetti’ del realismo ingenuo non sono […] che intersezioni di fasci” di

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dipendenze e rapporti (“funzioni”). Questa posizione, a nostro avviso, ha proprio l’effetto in generale di rendere più plausibile l’idea di costruzione (nel tempo) che è alla base dell’epistemologia genetica, dato che vengono smobilitate impalcature ontologiche metafisicamente più impegnative, che la mente dell’adulto tende a prendere implicitamente per ovvie, sen- za che in effetti lo siano (anche se certamente sappiamo di muoverci in questo modo molto oltre le intenzioni dello stesso Hjelmslev). Al tempo stesso, dato che il nostro contesto metodologico è quello di una “natura- lizzazione” dell’epistemologia (da farsi valere necessariamente anche per la linguistica), gli stessi contributi di autori come René Thom (2006) e Jean Petitot (1985), oltre che per esempio di Ruth Millikan o Thomas Sebeok, possono essere citati con interesse, anche se per ognuno dovrebbe profi- larsi l’impegnativo compito di stabilire in modo più preciso se e in che cosa possano venirsi a trovare in frizione con parti della nostra impostazione.

Come esempio di applicazione di queste idee, possiamo portare l’im- portante volume di Guido Ferraro (2019), che discute in modo assai sti- molante il significato della forma topic-comment, da lui chiamata topic/fo- cus. Per un verso, consideriamo la tesi dell’autore che la coppia topic/focus possa “farsi riconoscere come forse la più fondamentale delle strutture semiotiche” (2019, p. 19), insieme a quella per cui essa “non si situa, pro- priamente, a livello linguistico” e che si tratti piuttosto di un “universale di ordine logico-cognitivo” (2019, p. 63). Entrambe sono affermazioni nelle quali ci riconosciamo con forza. È da osservarsi che l’autore è interessato a trattare come topic e focus unità che nelle opere artistiche da cui sono pre- se, occupano uno spazio ampio e sono molto lontane dall’essere le unità elementari cui qui ci riferiamo. Al di là di quest’aspetto, però, la dialettica tra nuovo e già noto, molto discussa nella letteratura sul tema e ripresa am- piamente dall’autore, viene da noi identificata come esigenza di livello lo- gico-formale e viene inoltre “distribuita” per così dire tra le parti compo- nenti, senza distinguerne una che sarebbe portatrice del “nuovo”: il nuovo, nella comunicazione, emerge in connessione a ogni unità di senso, perché parlanti diversi, partendo da esperienze diverse, danno significati almeno leggermente diversi ai termini, creando con ciò stesso una componente di novità nel messaggio (rispetto al ricevente). È interessante inoltre come l’autore critichi una troppo “miope visione funzionalista” che mal si pre- sta a “ragionare intorno al significato di un testo letterario, di un dipinto, di una composizione musicale” (2019, p. 227). Il nostro punto di vista è

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che una corretta semiotica delle creazioni dell’arte — per essere adeguata- mente ricca — deve essere (anche) semiotica di contenuti, non delle sole forme generali (strutturali o funzionali che siano): in questo modo forse riusciamo a cogliere almeno una parte delle posizioni di Ferraro. Il nostro approccio però (nell’analisi semantica delle unità elementari cui ci siamo riferiti nelle nostre argomentazioni, quindi senza poter fare estrapolazioni applicabili a testi complessi) si serve in effetti di un modello funzionalista (Bühler, Jakobson): un funzionalismo che però interviene nella comuni- cazione piuttosto confondendo la mente dei parlanti. In questo senso, ci sembra che la stessa analisi da noi condotta de Il colore del melograno, mo- stri il potenziale ermeneutico che (almeno in alcuni casi) può avere questa specie di funzionalismo rovesciato, interessato più alle disfunzioni create dal linguaggio (come in Wittgenstein) che non al potere ad esso associabile. Vorremmo quindi almeno esprimere l’opinione che una parte della ten- sione psichica creata dall’arte — tensione bella, produttiva e vivificante — sia l’effetto del maggiore contatto che essa ci permette di coltivare nel rapporto con le parti più antiche della nostra anima, quelle dove le forti astrazioni e scissioni prodotte dal linguaggio e dalle sue “strutture” cer- cano di (o comunque, come forze impersonali, tendono a) imporsi, senza però potervi mai riuscire. Basandoci su Ferraro, possiamo sostenere che un funzionalismo che non voglia essere miope, dovrebbe confrontarsi co- stantemente con il lato oscuro delle situazioni comunicative, quello in cui il linguaggio dimostra di non funzionare (a monte, si situano la filosofia di Bergson, spesso richiamato proprio da Schlick, oltre che alcune idee della Teoria estetica di Adorno, ma anche, in ambito psicoanalitico, teorie come quelle di Wilma Bucci).

In merito alla tematica del volto, su cui qui intendiamo soffermarci, l’i- dea è che (i) l’unità sincrtica percepita nel volto umano sia interpretabile come pur sempre derivata dalle caratteristiche dell’induzione; (ii) in certo qual modo, le strutture “impersonali” dello strutturalismo sono esse stesse poggianti su degli a priori (a rigore soggettivi e di ordine psicologico, ma comunque vincolanti l’attività del pensiero), che diventano tali, degli a prio- ri, nel momento stesso in cui i dati offerti all’attenzione sono acquisiti, (iii) il contrasto tra unità percettiva irriducibile del volto e la variabilità storica e sociale dei patterns di interpretazione delle sue valenze e della sua espres- sività, può essere giudicato apparente, nella misura in cui i paradigmi di pensiero con cui ci si orienta (empirismo, innatismo, gestaltismo, struttu-

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ralismo, come più abitualmente intesi) potrebbero richiedere essi stessi di dover essere rimodulati, come effetto di una diversa considerazione del si-

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