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Il volto di Altri e il punto di vista dell’epistemologia

Nel documento Volti artificiali / Artificial Faces (pagine 85-94)

Alfonso Di Prospero*

4. Il volto di Altri e il punto di vista dell’epistemologia

Possiamo così introdurre il nostro punto di vista ricorrendo al pensiero di Emmanuel Lévinas, che proprio a Platone spesso di richiama, accettando con entusiasmo il valore da lui dato all’oralità (1971, trad. it. 1990², p. 96). «Esiste una tirannia dell’universale e dell’impersonale, ordine inumano benché distinto dal brutale. Contro di essa, l’uomo si afferma come singo- larità irriducibile, esterna alla totalità in cui entra» (ibidem, p. 248). Per Lév-

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inas: «L’accoglienza del volto [...] è sin dal primo istante pacifico in quanto risponde al desiderio inestinguibile dell’Infinito» (ibidem, p. 153). Ma: «La congiuntura del faccia a faccia non presuppone affatto l’esistenza di verità universali in cui la soggettività possa assorbirsi e che sarebbe sufficiente contemplare perché l’Io e l’Altro entrino in un rapporto di comunione» (ibidem, p. 257). «Il pluralismo, nella filosofia occidentale, si manifesta solo come pluralità dei soggetti che esistono. Non è mai apparso nell’esistere di questi esistenti» (ibidem, p. 283).

Invece: «Il pluralismo presuppone un’alterità radicale dell’altro che non concepisco semplicemente in relazione a me, ma che affronto a partire dal mio egoismo» (ibidem, p. 121).

Ciò che Lévinas scrive può essere da noi essenzialmente accolto. Il nostro tentativo però vorrebbe essere quello di inserire in questa di- scussione il confronto con quelli che sono stati i risultati di un modello di pensiero estremamente diverso. È proprio nell’ambito degli studi di lo- gica formale, che si è ormai consolidato un indirizzo di ricerca dedicato al ragionamento non-monotono, iniziato con McCarthy (1980) e che ha portato a parlare di una Nonmonotonic turn in Gabbay-Woods (2007), na- scendo proprio per l’esigenza di realizzare programmi che consentano al computer di rispondere in modo adeguato agli inputs forniti dall’utente umano, che tipicamente (specie se in confronto ad un computer) ragiona in forma non-monotona.

Muovendoci entro questo diverso contesto teorico, le posizioni di Lév- inas acquistano un senso differente ma ugualmente interessante. Le pa- gine di questo autore sono di una densità estrema, e sarebbe opportuno procedere in analisi puntuali delle conseguenze concettuali che l’adozione dei nostri diversi presupposti gnoseologici comporterebbe su ciascun pas- saggio della sua riflessione. Le intuizioni di fondo sono però conservate.

È interessante osservare che un’epistemologia in forte debito verso gli strumenti della logica formale potrebbe a questo punto mostrare di po- tersi integrare — in modo niente affatto meccanico o forzato, anche se dovendo passare attraverso il filtro di operazioni concettuali molto im- pegnative — con una tradizione di pensiero abitualmente vista in decisa opposizione con essa.

L’obiezione che Lévinas solleva contro le pretese del sapere nomologi- co è a nostro avviso di estremo interesse:

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se la parzialità dell’individuo, intesa appunto come il principio della sua individua- zione, è un principio di incoerenza, in base a quale magia la semplice somma di incoerenze produrrebbe un discorso coerente impersonale e non un vociare di- sordinato di folla? La mia individualità è quindi una cosa completamente diversa da questa parzialità cui verrebbe ad aggiungersi una ragione, nata dalla contrad- dizione in cui si oppongono le spinte ostili delle particolarità animali.

(Lévinas 1990 (1971), p. 259)

Nei nostri termini, il punto è che la filosofia della scienza mette al cen- tro del proprio interesse il concetto di prova, declinato come dispositivo di tipo sperimentale e quindi empirico, i cui risultati sono quindi da cogliersi in ultima istanza da parte di soggetti singoli (ma esigenze corrisponden- ti compaiono anche nella fenomenologia di Husserl, da cui, come è ben noto, Lévinas prende molto). Al tempo stesso, un dispositivo sperimentale scientificamente validabile deve essere intersoggettivamente riproducibi- le, ma in realtà — nel senso più ovvio — una “prova” generale del fatto che ogni ipotesi interessante possa essere in linea di principio dimostrata o corroborata con dispositivi sperimentali riproducibili socialmente, non è affatto disponibile, né i contenuti “empirici” che direttamente sottopongo ad ispezione sono essi stessi socialmente condivisibili nel loro contenu- to specifico. Quindi il sapere (intersoggettivo) prodotto dalla “comunità” scientifica riposa logicamente sulla conoscenza di contenuti empirici che sono rigorosamente individuali. Individualità diverse, anche se di osserva- tori bene istruiti al sapere e ai metodi della ricerca scientifica, sono por- tatrici di esperienze diverse, quindi è proprio dal punto di vista di un em- pirismo rigoroso (e di un’applicazione congruente dell’induzione) che il giudizio espresso da Lévinas acquista un particolare interesse.

Il confronto tra questi due diversi percorsi di pensiero — paradigma del pensiero non-monotono e metafisica del volto, all’interno di una prospet- tiva derivata dall’epistemologia genetica — si presta per formulare interes- santi proposte teoriche.

Con riguardo più direttamente al pensiero di Lévinas, possiamo sugge- rire le seguenti chiavi di lettura. Parlare da una parte di infinito e dall’altro di un essere che è totalmente altro è una scelta estremamente efficace per esprimere intuizioni che anche il modello del pensiero non-monotono cerca di cogliere. Il volto di Altri è — fisicamente — una realtà che mi si offre percettivamente, rimandando però — nella nostra formulazione — a

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quella che implicitamente è una diversa pretesa di totalità, che proprio per questo non può che essere tematizzata se non come invisibile e irriduci- bile alla mia propria pretesa di totalità. L’egoismo e la separazione, la di- stanza infinita tra le diverse egoità, trovano nel modello dell’induttivismo non-monotono nozioni che permettono di darne una formulazione non oppositiva verso le metodologie della ricerca scientifica. Se — induttiva- mente — il mio campo di riferimenti possibili è determinato, e quello di Altri, è altrimenti determinato, e se i diversi campi formano (come vedre- mo meglio tra breve) ciascuno un’unità sincretica che vale come una Ge- stalt (perché l’inserimento di un qualunque nuovo item — atomisticamen- te inteso — produce di fatto riverberi nel tutto olisticamente determinati, che rendono a rigore incommensurabili tra loro le valenze che il singolo item, se potesse essere atomisticamente inteso, acquisterebbe nei diversi campi), ne segue che la distanza tra i diversi campi è infinita.

Nel rapporto tra il Medesimo e l’Altro, il linguaggio opera in modo che i due “termini non sono limitrofi […] l’Altro, malgrado il rapporto con il Medesimo, resta trascendente al medesimo” (ibidem, p. 37).

Al tempo stesso, ci sembra del tutto corretto parlare di una “deforma- zione” (ibidem, p. 299), o di una “curvatura dello spazio intersoggettivo” (ibidem): individualità diverse guardano una “stessa” realtà (uno “stesso” lampadario, per esempio, nella “stessa” stanza), ma da prospettive diver- se. Il contenuto percettivo — e le rispettive estrapolazioni induttive — è diverso, ma pure ciascuno di noi capisce che con Altri condivide il riferi- mento ad uno stesso mondo.

Gli studi sulla psicologia e sulle funzioni cognitive del bambino natu- ralmente hanno largamente dibattuto la questione del rapporto del bam- bino con il volto degli altri esseri umani (si ricordino qui i lavori di Andrew Meltzoff ). Deve pensarsi al riguardo a conoscenze o attitudini che sono innate oppure sono apprese? In base al nostro approccio, questa distin- zione in qualche modo sfuma. Un contenuto che compare nell’attenzio- ne più facilmente per ragioni geneticamente determinate, è comunque un contenuto dell’attenzione, soggetto quindi alle leggi del sincretismo e dell’induttivismo così come da noi inteso — sincretismo e induttivismo che sono meccanismi logici di carattere essenzialmente sincronico e non diacronico. È essenziale però che — anche nella prospettiva, al riguardo non innatista, di Piaget — nella nostra interpretazione possiamo prevede- re un primato ontologico ed assiologico fondamentale del volto umano,

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così come in Lévinas, nella misura in cui il volto umano, in quanto cen- tro di interesse dell’attenzione del neonato, costituisce presumibilmente nell’ordine temporale una delle prime Gestalten riconosciute come signi- ficative dal bambino, che farà quindi da base e piattaforma sulla quale edificare le conoscenze successive. Inoltre — e soprattutto — nel modello di ontogenesi delineato da Piaget, è la stessa struttura che attribuiamo al mondo fisico (il suo essere analizzabile come una pluralità coordinata di punti di vista, secondo dimensioni spazio-temporali che tengono conto a monte di una massa di informazioni ottenuta di fatto anche attraverso il rapporto con gli altri) che fa sì che l’altro essere umano ci si presenti come portatore di uno sguardo sulle cose che è geneticamente imbricato con il nostro stesso sguardo. Per non riconoscere la legittimità dello sguardo de- gli altri sulla vita e sul mondo, se consideriamo i risultati dell’epistemolo- gia genetica, dovremmo negare psicologicamente a noi stessi l’accesso ad un’informazione, quella del suo punto di vista, che fa sistema logicamente e strutturalmente con quella che ci è essenziale per vivere (per una collo- cazione dell’opera di Piaget nel contesto storico della cultura filosofica di lingua francese, Perri [1996]).

5. Conclusioni

Questa questione naturalmente è molto complessa. L’egoismo spontaneo del sé, «la mia gloriosa spontaneità di essere vivente», Lévinas (1971, trad. it. 1990², p. 83), è quasi una proiezione etica di un egocentrismo episte- mologico che l’induttivismo rende formalmente inevitabile — anche se la riflessione su come opera l’induttivismo può rendere meno pericolose le sue conseguenze.

In quest’ordine di questioni, Lévinas si pone un problema importan- te: «Il linguaggio, come presenza del volto, non invita alla complicità con l’essere preferito, all’‘io-tu’ auto-sufficiente e dimentico dell’universo […] Il terzo mi guarda negli occhi d’altri – il linguaggio è giustizia» (ibidem, p. 218). La «presenza del terzo» è quella «di tutta l’umanità che ci guarda» (ibidem).

Il nostro approccio ci porta a considerare forse come più delicato que- sto punto. Il problema dell’Altro che mi appare in un volto, è anche il problema dell’empatia (Boella 2006), ma ci sono — in generale — buone

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ragioni per considerare l’empatia come legata a condizioni contestuali, per le quali ciò che suscita o richiede empatia per alcuni, non ha lo stesso effetto per altri (Stueber 2006). Lo stesso Lévinas (1990²[1971], p. 272), riconosce implicitamente la possibilità di questo tipo di ambiguità.

Ma più in generale, il problema di fondo — così come vorremmo qui formularlo — è che l’empatia verso un volto, verso una persona, o porta a quella che Lévinas chiama “bontà” verso la persona oppure è lettera morta. Ma se la bontà è verso quella persona, che poi ha però certi interessi e non altri, che possono essere in conflitto con quelli di altri, può essere allora molto difficile trovare il giusto equilibrio tra l’istinto di bontà che sorge verso gli uni e quello che sorge verso gli altri. In questo, si vedano anche i problemi posti da una società sempre più policentrica, che nelle risorse tecnologiche e concettuali discusse dalle filosofie del trans-uma- nesimo dovrebbe cercare strumenti per armonizzare tra loro le diverse e contrastanti operazioni di definizione di un “centro” da far valere di volta in volta come punto di riferimento nei rapporti tra le persone. Una filoso- fia del pensiero non-monotono, aperta sia alla riflessione sulle emozioni (oltre che con Lévinas, anche, per esempio, con Gregory Bateson) sia alla forza della razionalità più astratta, è — a nostro avviso — una possibilità da far valere proprio in questa prospettiva.

Sotto questo profilo, in generale, sono le strutture del vivere sociale che producono la maggior parte degli effetti osservabili, nel bene come nel male, anche se sono le individualità in quanto tali a dare il terreno e il seme — invisibili al linguaggio — che nella comunicazione offriranno in modo visibile il proprio frutto.

Sappiamo che per Lévinas, «il pensiero consiste nel parlare» (ibidem, p. 38). «L’esplicitazione di un pensiero è possibile solo se si è in due» (ibidem, p. 99).

In parte, questo punto di vista è in contrasto con il senso della nostra argomentazione sulla forma tema-commento, in parte, però, la priorità empirica del volto degli adulti per il bambino, in base a tutti i suoi interessi, ci sembra che possa fondare psicologicamente anche nella nostra prospet- tiva l’affermazione fatta da Lévinas.

È infine di estremo interesse che per Lévinas: «La presentazione del volto non è vera, poiché il vero si riferisce al non-vero, suo eterno corri- spettivo […] La presentazione dell’essere nel volto non lascia alcuno spa- zio logico alla sua contradditoria» (ibidem, p. 206).

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In questo senso, il volto di Altri è una presenza figurale, portatrice in modo immediato di un discorso e di un contenuto di senso, ma che con- serva ancora in sé il carattere di unità sincretica immune dalla possibilità stessa di negazione, trasgredendo così la logica del quadrato semiotico, ol- tre che del dispositivo logico della forma tema-commento, situandosi cioè a monte di essa, su di un piano che è ancora quello di un senso non-predi- cativamente articolato.

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Rappresentazione ed espressione: note

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