IL V. 2 E I QUATTRO SENSI
A proposito della “selva oscura” del verso 2, il Cassell25 sintetizza le varie interpretazioni di essa nel secolare commento.
Sull’identificazione tra la selva e la vita presente concordano Jacopo di Dante, Chiose Marciane, Ottimo, Benvenuto, Anonimo fiorentino, Filippo Villani. Per una maggioranza di interpreti essa rappresenta la vita nei suoi significati meramente fisici, dominata dagli istinti, cioè la vita dell’ignoranza e del peccato, o il peccato stesso. Il Vellutello sem-‐‑ bra essere stato il primo ad aver richiamato, a proposito della selva, Conv. IV, xxiv 12: «l’adolescente che entra nella selva oscura di questa vita […]». Per il platonico Landino, la selva è il corpo26.
25 CASSELL, op. cit.
26 La selva oscura. Secondo gli antichi commentatori si riferisce all’ignoranza (mi sembra siano la maggioranza. Si veda Iacopo: «Nel quale [mezzo del cammino della vita] essendo s’avide ch’egli era in una oscura selva, dove la dritta via era smarrita. Per la quale, figurativamente, si considera la molta gente che nella oscurità dell’ignoranza permane, con la quale è impossibile di procedere per la via dell’umana felicità, chia-‐‑ mandola selva, a dimostrare che differenza non sia da loro sensibile e razional suggieto al vegetabile solo. Onde propriamente di cotal gente selva d’uomini si può dire come selva di vegetabili piante»). Secondo altri si riferisce al peccato, alla vita viziosa. Grazio-‐‑ lo: allora – Dante aveva 32-‐‑33 anni, secondo il commentatore – l’Autore era «peccator et viciosus et quasi in quadam silva viciorum et ignorantie»; il Lana: «vita viciosa»; il Sel-‐‑ miano (1337, sec. Hollander) interpreta «il mondo»: «si ritrovò in una selva scura, cioè il mondo. E pone il mondo per selva, per ciò che nel mondo ha tanta moltitudine di delet-‐‑ tazioni che appena si sa l’uomo partire da esse; e se pure partire si vuole, chi non è amaestrato, è malagevole a sapersi partire e tornare a sé e seguire le virtù». Per Boccac-‐‑ cio la selva oscura è l’Inferno; il Landino interpreta secondo il suo platonismo: «l’uomo, arrivato all’età già matura […] comincia a destare la ragione, et allora finalmente cono-‐‑ sce sé essere in obscura selva, cioè l’animo suo essere oppresso da ignorantia et da vitii per la contagione del corpo»; Francesco Mazzoni dà di tutto il contesto una interpreta-‐‑ zione di tipo orizzontale. La selva e i concetti analoghi (la “piaggia”, il “pelago”, “lo passo”) indicherebbero la vita attuale, con il peccato originale (FRANCESCO MAZZONI,
Saggio di un nuovo commento alla ‘Divina Commedia’, Firenze, Sansoni 1967, p. 27), con le
sue contraddizioni. Mazzoni non insiste sul peccato, sull’abiezione di Dante, che invece appare rimproverata da Beatrice nel Paradiso Terrestre. Nel suo commento, Mazzoni indica nella selva e in concetti espressi da parole come “mare”, “fiumana” ed altre, la vita umana attuale, dopo il peccato originale, con tutte le sue contraddizioni, alla quale Dante guarda, oggettivandola e respingendola, dopo averne presa coscienza. Si noti che Dante lascia del tutto indeterminata la selva oscura: non la descrive mentre descrive la selva dei suicidi e la «divina foresta spessa e viva» del Paradiso terrestre, paragonando-‐‑ la alla pineta di Chiassi. Il luogo da dove Dante ha avuto accesso all’Inferno non è detto (a differenza di quanto avviene in Virgilio: Cuma).
Anche a partire dalla “selva oscura” si configura una importantis-‐‑ sima moderna lettura della Divina Commedia. Nel canto XXIII del Pur-‐‑ gatorio, nell’incontro con Forese Donati, Dante ci fa sapere che la selva di cui nel I dell’Inferno è la vita peccaminosa, un periodo di deviazione morale di Dante stesso («di questa vita mi trasse costui»); periodo del quale lo rimprovererà aspramente Beatrice nel XXX canto dello stesso Purgatorio.
Lucia Battaglia Ricci ha dimostrato che la selva oscura significa “anche” la vita peccaminosa, ma conserva il significato di selva. L’importante analisi della studiosa, consegnata ad un volume fonda-‐‑ mentale27, conduce, attraverso analoghi sondaggi all’interno della Commedia, alla tesi secondo cui è il testo stesso del Poema a rivelare in esso la presenza dei quattro sensi biblici: ciò a prescindere dall’Epistola a Cangrande la quale chiede che la Commedia, appunto, sia letta secondo i quattro sensi della Bibbia (letterale-‐‑storico, allegori-‐‑ co, morale e anagogico). Questa è anche secondo noi la posizione di Dante. Essa, bisogna sottolinearlo, appare in contrasto con quella dell’Aquinate: è noto, infatti, che S. Tommaso aveva sostenuto che un autore umano non può andare al di là del senso letterale in quanto solo Dio può fare che le res, le realtà significate attraverso le parole, rimandino a loro volta ad altri significati (si tratta della cosiddetta “al-‐‑ legoria in factis”). Soltanto la Bibbia, dunque, oltre al senso letterale-‐‑ storico (vero) ha anche il senso “spirituale” il quale si tripartisce in allegorico, morale o tropologico ed anagogico. La posizione espressa da San Tommaso (1224-‐‑1274) non viene mai discussa. Già in prece-‐‑ denza anche quando un autore applica i sensi biblici alla propria pro-‐‑ duzione poetica lo fa con un fondamentale distinguo: così Alano di Lilla (1120/28-‐‑1203), pur applicando i quattro sensi biblici alle proprie opere, invita il lettore a non badare al senso letterale, non vero, ma agli altri sensi. In questo caso ci troviamo solo apparentemente di fronte a sensi biblici; in realtà, non essendo vero il senso letterale, si tratta di una “allegoria in verbis”, cioè un’allegoria di tipo classico e non biblico28.
Ma l’autore dell’Epistola a Cangrande chiede proprio che la Commedia venga letta secondo i sensi biblici; non dice per niente che il senso letterale non è vero (anzi, difende quel senso letterale quando difende, come abbiamo visto, la possibilità da parte dell’autore di aver
27 LUCIA BATTAGLIA RICCI, Dante e la tradizione letteraria medievale, Pisa, Giardini 1983.
28 Per la documentazione relativa rimando a PLACELLA, «Guardando nel suo Fi-‐‑
avuto una visione).
Non si tratta di una questione di parole: ciò che chiede al lettore della Divina Commedia l’autore dell’Epistola a Cangrande della Scala è molto, anzi è troppo. Chiede di credere che Dante scriva come Dio (Scrivere come Dio è appunto il titolo di un famoso libro su Dante dello scrittore svedese Lagercranz)29, cioè che il suo testo è stratificato, pos-‐‑ siede quattro sensi, come soltanto la Bibbia.
Già nel Convivio Dante aveva sottolineato la differenza fra l’allegoria dei poeti (in essa il senso letterale non è vero, è una «bella menzogna», ed è vero soltanto un senso allegorico costruito dal poeta; l’esempio del mito di Orfeo – che con il suo canto ammansiva le fiere e faceva muovere le pietre – narrato da Ovidio) e quella dei teologi del-‐‑ la quale, però, in quel contesto non dice altro. La Bibbia, invece, ha il senso letterale vero e, all’interno di esso, il senso spirituale, che si tripartisce in allegorico, morale ed anagogico. Perché Dante poté pensare che alla sua opera principale si potessero applicare i quattro sensi biblici? Forse perché vedeva come disegnata da Dio l'ʹhistoria del suo Poema, da Dio che gli aveva concesso la grazia della visione, dello straordinario viaggio nell’aldilà. Storia sacra, dunque, quella oggetto di narrazione nella Commedia, a sottolineare l’eccezionalità, anzi l’unicità della sua esperienza e della sua opera, in base alla mis-‐‑ sione universale, salvifica, ricevuta dall’Alto.
Guido da Pisa parla inequivocabilmente di allegoria biblica (cioè quadrifaria) per la Commedia, da lui indicata (sulla scia del profeta Ezechiele) come il libro scritto dentro e fuori: è proprio ciò che si dice del Libro sacro, e aggiunge che lo stesso Spirito Santo ha scritto con la penna di Dante delle pene dei dannati e della gloria dei Beati ed ha redarguito prelati, re e principi30.
Importante, a questo proposito, uno studio di Zygmunt Barański, anch’esso vòlto a rintracciare la polisemia nella Commedia partendo
29 OLOF LAGERCRANTZ, Scrivere come Dio: dall’Inferno al Paradiso, Milano, Lampi di stampa 1999.
30 Ecco, Guido a proposito della Commedia: «Ad istum certe poetam et ad suam Comediam potest referri illa visio, quam vidit Exechiel propheta; de qua visione sic scribit idem propheta: “Ecce manus missa ad me in qua erat liber scriptus intus et foris: et scripta erant in eo Lamentationes, Carmen, et Ve”. Ista manus est iste poeta. Liber istius manus est sua altissima Comedia, que ideo scripta dicitur intus et foris, quia con-‐‑ tinet non solum licteram, sed etiam allegoriam». E un poco oltre lo stesso Guido, sem-‐‑ pre a proposito di Dante: «Ipse enim fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum. Ipse etiam Spiritus Sanctus per istum aperte redarguit scelera prelatorum et regum et prin-‐‑ cipum orbis terre».
soltanto dal testo di essa (lo studioso, tra l’altro, non crede alla pater-‐‑ nità dantesca dell’Epistola a Cangrande). Barański nota che nessuno ha continuato il lavoro della Battaglia Ricci e che egli stesso si trova ad essere il primo a ripercorrerne la strada. Occorrerebbe anche, se-‐‑ condo me, continuare l’indagine impostata dalla Battaglia Ricci (già in un mio lavoro31 ho indagato l'ʹeffettiva presenza del quarto senso, l’anagogia, all’interno della Commedia). Il Barański32, dunque, percorre in maniera affascinante il I canto dell’Inferno indicando il grande spes-‐‑ sore dei personaggi (Dante e Virgilio) ben lontani, con ogni evidenza dal verso 63 in poi, cioè dall’apparizione di Virgilio in poi, dai poemi allegorici mediolatini.
La lettura quadrifaria della Commedia, cioè secondo i quattro sensi biblici, apre prospettive di concretezza, di ricchezza e di articolazione del dettato del Poema certamente ben maggiori di quelle che potesse prospettare il metodo figurale di Auerbach e con una maggiore rispondenza alla cultura dell’epoca e a quella dantesca in particolare (si voglia o non si voglia attribuire a Dante l’Epistola a Cangrande).
D
IVINAC
OMMEDIA EDESODO
È stato giustamente visto in quel «mi ritrovai» di Inf. I, 2 l’indicazione di un improvviso accorgersi, di un improvviso aprire gli occhi, una sorta di subitanea illuminazione. Porrei questo «mi ritro-‐‑ vai» in relazione con una situazione biblica: in Es 2, 11-‐‑14 Mosè è presentato due volte come chi “esce” (v. 11), “esce” dai “suoi fratelli”: «Mosè per primo compie un esodo da sé stesso, e uscendo riconosce in quel popolo di schiavi dei fratelli», come afferma lo Spreafico33. Definirei un “pre-‐‑esodo” questo di Mosè: Mosè “esce” e “vede” l’oppressione dei suoi fratelli (anche Dante fa un primo esodo quando si “ritrova” nella selva oscura, nel senso che abbiamo visto di “accor-‐‑ gersi” di esservi). Questo improvviso prendere coscienza in quanto “usciti” (esodo, appunto) da sé stessi34.
31 PLACELLA, Dante e l’anagogia, «Studi Medievali e Moderni», 1/2003, pp. 71-‐‑86. 32 ZYGMUNT BARAŃSKI, Dante e i segni, Napoli, Liguori 2000.
33 Cfr. AMBROGIO SPREAFICO, Il Libro dell’Esodo, Roma, Città nuova 1992.
34 Il CASSELL, op. cit., elenca le interpretazioni del «mi ritrovai», che si possono sin-‐‑ tetizzare, da una parte, nel “s’avide” di Jacopo Alighieri e poi del Landino e del Vellu-‐‑ tello; dall’altra in “mi trovai di nuovo”: è la tesi che segue il Cassell e indicherebbe una recidiva nella caduta nel peccato. Non sono d’accordo: il verbo “ritrovare” ricorre sei volte nella Divina Commedia e una sola volta ha il senso iterativo (in Inf. VIII, 102: il per-‐‑ sonaggio Dante, di fronte al rifiuto dei diavoli di far passar oltre Dante e Virgilio dice: «e se ‘l passar più oltre ci è negato, / ritroviam l’orme nostre insieme ratto»).
Subito dopo, quando il personaggio Dante esce dalla selva e si av-‐‑ vicina al colle, vi è il paragone col naufrago il quale «uscito fuor del pelago a la riva / si volge a l’acqua perigliosa e guata». Mosè «salvato dalle acque» (Es 2, 10), secondo l’etimologia popolare del nome: anche Dante si presenta come un “salvato dalle acque”35.
Il motivo dell’Esodo, si sa, è potentemente richiamato più volte esplicitamente da Dante: nel secondo canto del Purgatorio le anime appena approdate alla spiaggia dell’Isola cantano il Salmo In exitu Israel de Aegypto, evidentemente secondo il senso anagogico e così Beatrice, nel XXV canto del Paradiso, afferma che Dante è venuto «d’E-‐‑ gitto in Ierusalemme», cioè dalla terra, piena di oscurità e di male, nella celeste Gerusalemme, nel Paradiso; e il medesimo Salmo 113 (nella numerazione della Vulgata) viene citato nel Convivio a propo-‐‑ sito del senso anagogico e nell’Epistola a Cangrande a proposito di tutti e quattro i sensi biblici. L’impronta dell’Esodo nella Comme-‐‑ dia viene splendidamente confermata dai famosi versi 22-‐‑24 del XXXIII canto del Paradiso, in riferimento al personaggio Dante: «or questi, che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una», un itinerario esodico molto forte, se l’esodo biblico è, come è stato osservato, non solo un’uscita dall’Egit-‐‑ to verso la Terra Promessa, ma un itinerario a Dio (l’incontro con Dio, nel deserto, sempre secondo Spreafico, ne è una tappa culmi-‐‑ nante).
Altro elemento esodico è, nel I canto dell’Inferno, il deserto, appun-‐‑ to: «ripresi via per la piaggia diserta», v. 29; «nel gran diserto», v. 64; e l’apparizione delle tre fiere che impediscono al Dante personaggio di salire al colle (vv. 31-‐‑60) sono in relazione con le tentazioni nel de-‐‑ serto presenti nel libro dell’Esodo e poi con quelle di Gesù nel deserto
35 Già il Singleton accostava questo passo all’Esodo di cui si narra nella Bibbia: an-‐‑ che qui si tratterebbe di un uscire dal mare, come gli Ebrei salvati dalle acque del Mar Rosso. In realtà l’intera Divina Commedia sembra attraversata da questa realtà centrale per la tradizione ebraica e cristiana, quella dell’Esodo, appunto. Ancora il Singleton vede la discesa del personaggio Dante attraverso l’Inferno e poi la risalita e l’uscita, appunto, verso la spiaggia del Purgatorio, come un ricalco delle vicende esodiche. Vi sarebbero anche altri elementi corrispondenti al racconto dell’Esodo, ad esempio, la presenza dei giunchi, corrispondenti al Mar dei Giunchi di cui parla il libro biblico; e poi la presenza dell’angelo sulla spiaggia del Purgatorio, così come nell’Esodo, durante la traversata del deserto, vi è la presenza tangibile di Dio, in particolare nella nube (Es 40, 34). Nella selva oscura anche vi è un’apparizione soprannaturale, quella di Virgilio; e anche, aggiungerei, si apre una ben più alta luce soprannaturale nel racconto di Virgi-‐‑ lio (lo vedremo nel secondo canto) circa l’intervento, in Paradiso, della Vergine Maria, di Santa Lucia e di Beatrice a favore di Dante in difficoltà: si tratta di una grande luce che squarcia l’oscurità della selva.
(dove convive con le bestie selvatiche: Mc 1, 12).
Inscritto, dunque, nelle vicende dell’Esodo il Poema sacro (in par-‐‑ ticolare questo primo canto) e, come abbiamo visto prima, in quelle della Pasqua: ma Pasqua ed Esodo sono, a loro volta, strettamente connessi tra loro, come ben sa chi conosce la Bibbia.
IL TEMPO DELLO SMARRIMENTO DI DANTE
A trentacinque anni, nell’anno Santo, nell’anniversario della morte redentrice di Gesù, nell’anno culminante della propria carriera politi-‐‑ ca, quello del priorato, Dante (il personaggio Dante) si accorge («mi ritrovai») di essere nella selva oscura: non sa come vi è entrato (aveva tanto sonno quando abbandonò la verace via; per l’accostamento del peccato al sonno è stato richiamato S. Agostino36). Dunque, se non sa come v’entrò, non sa neppure quando vi entrò: la «notte ch’i’ passai con tanta pièta» è dunque non il tempo in cui è stato nella selva, bensì quello a partire dal quale ha preso coscienza di esservi e perciò ha sof-‐‑ ferto. Più tardi (Inf. XV, 49-‐‑51) dirà: «mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fosse piena». Dunque lo smarrimento non è avvenuto ai trentacinque anni ma prima di quell’età (alcuni critici tentano di quan-‐‑ tificare la durata dello smarrimento: dieci anni, dalla morte di Beatrice nel 1290 fino al 1300, appunto, coincidente col tempo della «decenne sete» di cui parla Dante nel Paradiso terrestre: Purg. XXXII, 2).
Lo stato di peccato precedente a questa presa di coscienza ci si pre-‐‑ senta come una situazione di ottundimento, di sonno, di apatia. Già questo prendere coscienza è stata una grazia, prima ancora che il per-‐‑ sonaggio potesse far niente, nel suo mutismo assoluto, in quel suo stato che è peggiore di una disperazione, in quanto è “sonno” inerte che tarpa ogni iniziativa spirituale37. Non c’è possibilità di un grido, di un’invocazione.
L’atmosfera scura, da incubo, che Dante presenta: lo smarrimento della strada, il sentimento di paura solo a pensarci, l’amarezza di poco inferiore alla morte, il colle illuminato ma subito dopo le tre mostruo-‐‑
36 Vedi nota successiva.
37 «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai». Si tratta del mistero del male morale. Il “sonno”: stato di torpore e di incoscienza determinato dal peccato (vd. le “auctoritates” raccolte da Mazzoni sul sonno: S. Agostino [Enarr. in Ps. LXII, 4]: il sonno fisico, indi-‐‑ spensabile; ma quello dell’anima, no. «Somnus autem animae est oblivisci Deum suum. Quaecumque anima oblita fuerit Deum suum, dormit»). Graziolo: “somnus accipitur pro peccato”; Ottimo: “sonno è immagine di morte”; per Boccaccio si tratta del “sonno mentale”, dal quale ci vuole svegliare S. Paolo: “Hora est iam nos de somno surgere”: cfr. MAZZONI, op. cit., pp. 55 sgg.