Inscritto, dunque, nelle vicende dell’Esodo il Poema sacro (in par-‐‑ ticolare questo primo canto) e, come abbiamo visto prima, in quelle della Pasqua: ma Pasqua ed Esodo sono, a loro volta, strettamente connessi tra loro, come ben sa chi conosce la Bibbia.
IL TEMPO DELLO SMARRIMENTO DI DANTE
A trentacinque anni, nell’anno Santo, nell’anniversario della morte redentrice di Gesù, nell’anno culminante della propria carriera politi-‐‑ ca, quello del priorato, Dante (il personaggio Dante) si accorge («mi ritrovai») di essere nella selva oscura: non sa come vi è entrato (aveva tanto sonno quando abbandonò la verace via; per l’accostamento del peccato al sonno è stato richiamato S. Agostino36). Dunque, se non sa come v’entrò, non sa neppure quando vi entrò: la «notte ch’i’ passai con tanta pièta» è dunque non il tempo in cui è stato nella selva, bensì quello a partire dal quale ha preso coscienza di esservi e perciò ha sof-‐‑ ferto. Più tardi (Inf. XV, 49-‐‑51) dirà: «mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fosse piena». Dunque lo smarrimento non è avvenuto ai trentacinque anni ma prima di quell’età (alcuni critici tentano di quan-‐‑ tificare la durata dello smarrimento: dieci anni, dalla morte di Beatrice nel 1290 fino al 1300, appunto, coincidente col tempo della «decenne sete» di cui parla Dante nel Paradiso terrestre: Purg. XXXII, 2).
Lo stato di peccato precedente a questa presa di coscienza ci si pre-‐‑ senta come una situazione di ottundimento, di sonno, di apatia. Già questo prendere coscienza è stata una grazia, prima ancora che il per-‐‑ sonaggio potesse far niente, nel suo mutismo assoluto, in quel suo stato che è peggiore di una disperazione, in quanto è “sonno” inerte che tarpa ogni iniziativa spirituale37. Non c’è possibilità di un grido, di un’invocazione.
L’atmosfera scura, da incubo, che Dante presenta: lo smarrimento della strada, il sentimento di paura solo a pensarci, l’amarezza di poco inferiore alla morte, il colle illuminato ma subito dopo le tre mostruo-‐‑
36 Vedi nota successiva.
37 «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai». Si tratta del mistero del male morale. Il “sonno”: stato di torpore e di incoscienza determinato dal peccato (vd. le “auctoritates” raccolte da Mazzoni sul sonno: S. Agostino [Enarr. in Ps. LXII, 4]: il sonno fisico, indi-‐‑ spensabile; ma quello dell’anima, no. «Somnus autem animae est oblivisci Deum suum. Quaecumque anima oblita fuerit Deum suum, dormit»). Graziolo: “somnus accipitur pro peccato”; Ottimo: “sonno è immagine di morte”; per Boccaccio si tratta del “sonno mentale”, dal quale ci vuole svegliare S. Paolo: “Hora est iam nos de somno surgere”: cfr. MAZZONI, op. cit., pp. 55 sgg.
se fiere che gli dànno angoscia mortale e paura, e il rovinare di nuovo nella selva e l’aggrapparsi disperato a quell’ombra che gli appare; tutto ci dà la misura dell’angoscia connessa alla situazione mortale nella quale si trova Dante, intonata alla prima parte del Cantico di Ezechia.
Il Dante personaggio, in quella estrema situazione, non sa nulla, non è in grado di valutare nulla; ma il Dante poeta sa che quella situa-‐‑ zione è dovuta allo smarrimento della diritta via. E sa che la diritta via è Cristo; anzi, tutto ciò egli dice in maniera anche non troppo criptica: la “via” del verso 3, la “vita” del verso 1, la “verace” (“via”) del verso 12 ci portano alla frase di Gesù: «Io sono la Via, la Verità, la Vita», cap. 14 del Vangelo di Giovanni; così che il Dante poeta pone fin dall’inizio il suo Poema come cristocentrico, egli che lo terminerà proprio con la contemplazione del mistero dell’Incarnazione della Seconda Persona della Trinità.
Il Cassell sostiene che è implicito, nei primi 61 versi del I canto dell’Inferno, che il fallimento del personaggio Dante è dovuto al fatto che egli era lontano dal Cristo; lo stesso Cassell richiama Par. VII, 35-‐‑ 39, dove questo concetto sarebbe esplicitato: è Beatrice che parla della Caduta, del peccato originale. Con una allusione ancora più esplicita a Gv 14: «questa natura al suo fattore unita, / qual fu creata, fu sincera e buona; // ma per sé stessa pur fu ella sbandita / di paradiso, però che si torse / da via di verità e da sua vita».
Al verso 7 «Tant’è amara che poco è più morte»: lo stato di peccato, preludio alla perdizione eterna, che sfocia paurosamente in essa, sì che è di poco meno amara della morte eterna. I mistici illustrano in maniera drammatica questa predisposizione all’Inferno, come un pre-‐‑ gustarlo, come un tragico scivolare verso di esso, da parte dei pec-‐‑ catori: mirabili le pagine di Santa Caterina da Siena in proposito38.
38 «Questa seconda reprensione, carissima figliuola, è in facto, perché è gionto a l’ultimo dove non può avere rimedio, perché s’è condocto a la extremità della morte, dove il vermine della coscienzia (del quale Io ti dixi che era aciecato per lo proprio amo-‐‑ re che egli aveva di sé), ora, nel tempo della morte, perché vede sé non potere escire delle mie mani, questo vermine comincia a vedere, e però rode con reprensione se me-‐‑ desimo, vedendo che per suo difecto è condocto in tanto male. Se essa anima avesse lume che cognoscesse, e dolessesi della colpa sua non per la pena de l’inferno che ne le séguita, ma per me che m’ha offeso che so’ somma ed eterna bontà, anco trovarebbe misericordia. Ma se passa el ponto della morte senza lume, e solo col vermine della co-‐‑ scienzia, e senza la speranza del Sangue; o con propria passione, dolendosi del danno suo più che de l’offesa mia; egli giogne a l’eterna dannazione». SANTA CATERINA DA SIE-‐‑ NA, Libro della divina dottrina volgarmente detto Dialogo della divina Provvidenza, a cura di Matilde Fiorilli. Seconda edizione interamente riveduta da Santino Caramella, Bari, Laterza 1928, cap. XXXVII, p. 68.
L’espressione risale alla Bibbia: Eccle 7, 27 «amariorem morte», detto, dal pessimista Qoelet, della donna: «et inveni amariorem morte mu-‐‑ lierem».
Al verso 8 il Poeta parla di un “bene” che avrebbe trovato nella sel-‐‑ va, grazie al quale egli dirà delle altre cose che ha visto in essa. Ma qual è questo «ben»? Molti commentatori rispondevano: Virgilio. E appare soluzione facilior. Varie altre risposte sono state date. Per il Bu-‐‑ ti il bene è «lo ragguardamento del pianeta [cioè il sole] sopra il monte e l’apparimento, conforto et ammaestramento di Virgilio», e a propo-‐‑ sito del senso allegorico lo stesso Commentatore scrive:
Et all’ultimo rende le cagioni, perché s’indusse a narrare di que-‐‑ sta selva, dicendo che per trattar del ben che vi ritrovò, dirà dell’altre cose che non sono bene, ch’elli v’à conosciute. Dubite-‐‑ rebbesi che cosa di bene può essere nella vita mondana viziosa, a che si può rispondere che è la grazia preveniente da Dio che fa desiderare d’uscire di tale vita: et appresso, la grazia illumi-‐‑ nante che ci ammaestra come doviamo fare a uscirne, l’una e l’altra significata per lo pianeto, che vide sopra il monte: e la grazia cooperante, che mosse Virgilio; cioè la ragione di Dante, che di tal vita facesse uscire la sensualità. Non che voglia dire che di questo sia cagione la vita viziosa mondana; ma che da Dio sopravviene tale aiuto alcuna volta a chi è in essa, come mostra di sé; e per questo vuole inducere li altri che sono in tal vita a sperar quel medesimo, e sperando cercarlo et addoman-‐‑ darlo.
Acute le Chiose ambrosiane, secondo le quali «il bene fu l’occa-‐‑ sione e la guida al gran viaggio, mediante il quale ei fu ‘di servo tratto a libertate’». Francesco Mazzoni condivide l’interpretazione di Pietro di Dante nella seconda e terza redazione del suo commento: la presa di coscienza da parte del personaggio Dante della propria condizione di spirituale disvalore e l’inizio di un processo di interiore illumi-‐‑ nazione39.
Ma forse il «ben» è, oltre a ciò, il superamento della paura in base al racconto da parte di Virgilio del “prologo in Cielo”, sicché si può ben dire che la selva oscura s’illumini quando si parla di Maria, di Lucia e di Beatrice, e della Corte del Cielo che si è interessata a Dante e che gli permette un viaggio di redenzione (si pensi alla classica in-‐‑
39 MAZZONI, op. cit., p. 52.
terpretazione secondo cui Maria rappresenta la Grazia preveniente, Lucia la Grazia illuminante e Beatrice la Grazia cooperante) come ve-‐‑ dremo nel II canto40.
I poemi epici dovevano iniziare in medias res e così è stato della Comedìa, con quel ritrovarsi da parte del personaggio Dante «nel mezzo del cammin di nostra vita»: «il principio, la fine e il mezzo dei tempi» (Sap 7, 18). Periglioso il mezzo della vita: tanto che Gesù vi muore (Gesù muore al culmine della vita, dice Dante nel Convivio).
Dunque il mezzo del cammin di nostra vita, luogo periglioso, è diventato, grazie a Cristo, luogo di salvezza e di redenzione. Altro motivo di speranza all’inizio del Poema.
Il Poema racconta una Storia non del principio, ma del mezzo: il mezzo è la Redenzione, ma anche il pericolo; la redenzione dal perico-‐‑ lo. Si tratta di una storia drammatica colta “nel mezzo”, cioè a partire da esso. Filosofia pratica, morale, non principalmente metafisica, quel-‐‑ la della Commedia, così come detto nell’Epistola a Cangrande.
Anche Gesù incomincia ad operare “nel mezzo” prendendo l’uo-‐‑ mo così com’era diventato dopo il Peccato e non com’era al principio. In effetti, l'ʹevangelista Giovanni, che pur inizia con l’ἀρχήή (l'ʹorigine divina del Cristo) non presenta racconti dell’Infanzia. Dante incomin-‐‑ cia nel mezzo, anche se poi mostra l’uomo in origine (Paradiso Terre-‐‑ stre). Del resto anche il Vangelo di Giovanni, pur iniziando “In Prin-‐‑ cipio”, sùbito dopo presenta Gesù nel mezzo del cammino della vita, all’età di circa trent’anni41.
40 Anticipiamo qui osservazioni circa l’«oscura costa» del v. 40 del canto II: «Tal mi fec’io in quella oscura costa: per ciò che mostra non fossero ancor tanto andati, che usci-‐‑ ti fossero del luogo oscuro, nel quale destandosi s’era trovato». Questa di Boccaccio mi sembra la migliore e più naturale spiegazione. Così Benvenuto: «Ordina sic literam: e tal me faccio in quella oscura costa, idest, in illa descensione obscura propter tempus nocturnum, et naturam ipsius viae, quia relabebatur in vallem viciorum». Bernardino Daniello, Inf. II, vv. 37-‐‑42: «Il mutar proposito e desister dalla cominciata impresa, alcu-‐‑ na volta è prudenzia, e questo è quando rettamente si giudica poterne resultar vergogna o danno; ma quando si lascia per fuggir fatica e darsi all’ocio, è pusillanimità, come ‘l poeta vuol inferir che fu la sua in quella oscura costa, che era del colle, le spalle del quale la mattina havea vedute vestite de’ raggi del sole, e lungo del quale essi s’eran mossi verso ‘l camino alto e silvestro, per discender alla porta dell’Inf., come vedremo nel seguente canto, che feron poi. Oscura, perché già il sole era andato sotto in occidente, e la costa guardava in oriente, che tanto più oscura veniva ad essere». Per Daniello, dun-‐‑ que, la costa è la selva; per altri no, ma così è pure in Castelvetro: «In quella oscura co-‐‑ sta, non mi movendo da quel luogo, dove gli era apparito Virgilio».
41 Molto significativo è il rimando delle rime di Inf. I, 4-‐‑9 ad alcune della Lauda 50 di Iacopone da Todi operato da PASQUAZI, op. cit., p. 36 sgg.
ANCORA SU D
IVINAC
OMMEDIA ED ESODOIl personaggio Dante (vv. 13 sgg.) esce dalla selva e raggiunge i piedi di un colle illuminato dal sole. Come vedremo, questo esodo rimane incompiuto, in quanto Dante non riesce a salire in cima al col-‐‑ le: l’esodo sarà realizzato dopo il viaggio infernale, quando il viator, uscito a riveder le stelle (Inf. XXXIV), si trova sulla spiaggia del Purga-‐‑ torio, sale su su lungo la Montagna (realizzazione della mancata asce-‐‑ sa del colle, di cui al primo canto dell’Inferno), e poi, anagogicamente, sale lungo i Cieli fino all’«ultima salute», nella Patria Beata, la Celeste Gerusalemme, raggiunta sia pure solo temporaneamente (si veda an-‐‑ cora il mio citato saggio sulla Anagogia).
Ma cosa rappresenta il colle illuminato dal sole?42 Oltre a interpre-‐‑
42 «Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto». Il colle per alcuni antichi commentato-‐‑ ri è la contemplazione (Daniello, Landino, Vellutello) o la Scrittura (Boccaccio), o la virtù, che porta l’uomo al cielo, così come la valle è il vizio, che lo conduce all’Inferno. «Or vedi quanta è la stoltizia de l’uomo, che si fa debile colà dove Io l’ho facto forte, ed esso medesimo si mette nelle mani delle dimonia. Unde Io voglio che tu sappi che nel punto della morte, essendo entrati nella vita loro sotto la signoria del dimonio (none sforzati, però che non possono essere sforzati come detto t’ho, ma volontariamente si sonno messi nelle mani loro), giognendo poi a l’extremità della morte con questa per-‐‑ versa signoria, essi non aspettano altro giudicio, ma essi medesimi ne sonno giudici con la coscienzia loro e come disperati giongono a l’eterna dannazione. Con l’odio strengo-‐‑ no l’inferno in su la extremità della morte; e prima che egli l’abbino, essi medesimi co’ loro signori dimoni pigliano per prezzo loro l’inferno» (SANTA CATERINA DA SIENA, op. cit., p. 80). «Vallis est vicinior centro, et, per consequens, Inferno, qui est in centro ter-‐‑ re»: Benvenuto; «Qui mons significat viam virtutum, que est arta, ducens ad vitam, ut habetur in evangelio; sicut vallis significat viam vitiorum, que est ampla, ducens ad mortem»: Buti. Per altri il colle indica l’altezza dell’umana felicità (Ottimo); il Sole, la sapienza (Landino; ma c’è Guido per il quale il “pianeta che mena dritto altrui per ogne calle” è “stella Venus”) o la grazia illuminante (Vellutello). Per MAZZONI, op. cit., si tratta della felicità naturale, di cui già aveva parlato Dante nel Convivio e poi nella Mo-‐‑
narchia. Il sole, certamente, come documenta Mazzoni, è Dio (varie testimonianze; Maz-‐‑
zoni cita S. Tommaso e, sulla scorta del Casella, il Cantico di S. Francesco: «de Te Altis-‐‑ simu porta significazione»; per Mazzoni il sole, in senso letterale, è il sole sensibile e per metafora immagine di Dio Creatore; in senso allegorico è la divina Bontà come lumen
intelligibile che penetra nel cuore dell’uomo purificandolo dal peccato e dall’ignoranza:
p. 71); la valle, dice Mazzoni, è lo stesso che la selva. Gli antichi commentatori facevano notare che essa, trovandosi in basso, è più vicina all’Inferno, mentre il colle è più vicino al cielo. Si è anche parlato, a proposito di selva, colle, sole di allusioni ai tre regni oltre-‐‑ mondani, rispettivamente: Inferno, Purgatorio e Paradiso (ALBERTO CHIARI, Dalla selva
oscura al vestibolo dell’Inferno, in Lectura Dantis Modenese, Inferno, Modena, Banca Popola-‐‑
re dell’Emilia 1984, p. 17). Lo stesso studioso scrive che il colle è «immagine evidente del necessario, progressivo, superamento di tutti i peccaminosi allettamenti terreni, immagine evidente della necessaria, progressiva, ascesa purificatrice di tutte le colpe; e quindi, immagine e figura del Purgatorio».
tazioni a sé stanti (quali “la contemplazione”, come il Landino e tra i moderni il Pagliaro), s’è pensato, da parte di molti, alla felicità naturale, quella di cui Dante parla nel IV trattato del Convivio (cap. IV, par. I) e nel III libro della Monarchia. Comunque sia, non bisogna pensare, in Dante, ad una soluzione “laicistica”: in lui il fine naturale non è un assoluto, anzi si trova in un contesto in cui c’è anche il fine soprannaturale dell’uomo. Il sole è chiaramente, nel Medioevo, simbolo di Dio («De Te, Altissimu, porta significatione», canta San Francesco): lo stesso Dante, nel Convivio, aveva scritto che nessuna cosa è più degna di simboleggiare Dio che il sole. Dunque, se di felici-‐‑ tà naturale si tratta, a proposito del colle, essa è illuminata da Dio, dalla sua Grazia.
La situazione del personaggio Dante che, attraversata la piaggia diserta costituita dalla selva, si accosta al colle è analoga a quella di Mosè che si accosta al Monte di Dio: «Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb». (Es 3, 1). Anche qui, dunque, Esodo.
La situazione del protagonista che esce del pelago alla riva è anch’essa esodica43: Mosè «salvato dalle acque» (Es 2, 10), secondo l’etimologia popolare. Anche Dante si presenta come un “salvato dalle acque” («e come quei che con lena affannata / uscito fuor del pelago a la riva»)44; e si ricordi il senso fortemente negativo che hanno spesso le acque nella Bibbia.
Al verso 30 «sì che ’l piè fermo sempre era ‘l più basso»: ciò mentre il personaggio Dante cercava di ascendere il monte45.
43 SPREAFICO, op. cit., p. 28.
44 «Lo passo / che non lasciò già mai persona viva». Per MAZZONI, op. cit., p. 83, il
passo è la selva da cui il Poeta si è andato allontanando, cioè la nostra vita attuale, qui
colta come luogo ove si compie il passaggio nostro nel tempo, e respinta dal Poeta nell’atto stesso che ha ripreso coscienza dei fini naturali e soprannaturali di ogni creatu-‐‑ ra. Il problema è se intendere che soggetto oppure oggetto e, di conseguenza, persona
viva, oggetto ovvero soggetto. Passo, per Mazzoni, è sempre nell’area semantica della
selva-‐‑valle; gli antichi o interpretavano il passo che non lasciava che alcuna persona che lo attraversasse rimanesse in vita (il peccato uccide l’anima), oppure “il passo che nes-‐‑ sun vivente ha evitato di attraversare” in quanto anche il giusto pecca sette volte al giorno, secondo la Scrittura. Benvenuto espone due interpretazioni: 1) tutti quelli che passano per la via dei vizi spiritualmente muoiono; 2) nessun vivente (tranne Cristo e Maria) è esente da peccato: nel primo caso, persona viva «stat pro apposito verbi», nel secondo «pro supposito, et debet poni a parte ante verbum».
LE TRE FIERE
La presenza delle tre fiere è stata posta in relazione a vari testi medievali, elencati dal Fallani (nel suo Commento a Inf. I, 31): una vi-‐‑ sione narrata nella vita di S. Domenico scritta da Teodorico di Appol-‐‑ dia, la visione di Daniele profeta interpretata da Riccardo da San Vit-‐‑ tore, la visione di Geremia (che leggeremo più oltre) commentata da Ugo da S. Caro, l’opuscolo XXII di S. Pier Damiani De quadragesima et quadraginta duabus hebraeorum mansionibus, le opere di Ugo da San Vit-‐‑ tore e l’Expositio in Apocalypsim di Gioacchino da Fiore (oltre ai Bestiari medievali). Il tutto è da ricondursi a Geremia 5, 6:
Per questo:
usciranno i leoni dalla foresta per sbranarli,
dalla steppa verranno i lupi per sgozzarli, i leopardi staranno in agguato
vicino alle loro città. Se usciranno, saranno dilaniati perché hanno aumentato i loro peccati e si allontanano sempre più da Dio.
Con riferimento a San Giovanni Evangelista, è stato detto che le tre fiere corrispondono ai tre impedimenti radicali (1Gv 2, 16-‐‑17): «Omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculo-‐‑ rum, et superbia vitae»; (si ricordi, a proposito della liberazione da ogni impedimento, il «Tu m’hai di servo tratto a libertate» di Par. XXXI, 85: anche qui esodo, che completa quello attuato con la guida di Virgilio [Purg. XXVII, 142]). La lonza sarebbe la “concupiscentia carnis”, la lussuria; il leone la “superbia vitae”, cioè la superbia e la lu-‐‑ pa la “concupiscentia oculorum”, la smodata, insaziabile bramosia, la cupiditas (secondo S. Tommaso è «inordinatus appetitus cuiuscumque boni temporalis» e San Paolo la definisce «radix omnium malorum»: è proprio quello che pensa Dante) la quale include anche l’avarizia: es-‐‑ sa, per Dante, è la genesi del male del mondo; ha origine dall’Inferno ed è causata dall’invidia del diavolo (v. 111)46. Dante vede sempre la
46 «Avarus enim vir inferno similis est. Infernus igitur quantoscunque devoraverit, nunquam dicit satis est; sic etsi omnes thesauri terrae confuxerint in avarum, non satia-‐‑ bitur. Alienum te facito, fili, ab hoc» (BASILIUS CAESARAEAE, Admonitio ad filium spiritua-‐‑
lem, P. L. 103, col. 0691). Altro tema biblico, un’altra crux, quella di Inf. I, 111 dove si dice