RICCARDO MAISANO
IL CANTO III DELL’INFERNO
Il modello virgiliano offre a Dante lo spunto di un vestibolo infernale destinato ad accogliere le anime di coloro che non hanno avuto sepoltura (Aen. VI, 326: «inops inhumataque turba est»), cioè di coloro che non sono stati onorati sulla terra dalla comunità in mezzo alla quale hanno trascorso la propria vita. Dante invece colloca nel vestibolo da lui concepito gli spiriti dei pusillanimi, cioè di coloro che sono morti privi di un’altra specie di onoranza, quella derivante da scelte e azioni compiute sulla terra, di qualunque segno esse siano state. Nel creare tale rappresentazione, di cui non si conoscono esempi significativi nella tradizione cristiana, l’autore ha modo di dare e-‐‑ spressione compiuta alla predominante istanza etica, che caratterizza costantemente la sua ispirazione.
Non a caso la sezione centrale di questo canto, che rappresenta l’inizio del racconto del viaggio vero e proprio, evoca, sia pure in forma implicita, il servo infingardo della parabola dei talenti (Mt. 25, 14-‐‑30). E non è estraneo alla stessa sezione del canto anche un altro spunto biblico, da individuare in Apoc. 3, 15 s. (lettera del veggente di Patmos alla comunità di Laodicea):
Scio opera tua, quia neque frigidus es neque calidus: utinam frigidus esses aut calidus! Sed quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo.
Questi e altri riecheggiamenti scritturali contribuiscono a precisare la fisionomia dei dimoranti nel vestibolo dantesco, che non sono propriamente gli ‘ignavi’ evocati dalla definizione corrente (una definizione estranea, peraltro, al lessico di Dante e introdotta dai commentatori ottocenteschi), ma per l’appunto i pusillanimi e i vili, emuli del servo pigro della parabola.
Il canto si presenta articolato in tre sezioni, contrassegnate da altrettante visioni: della porta infernale (vv. 1-‐‑21), delle schiere dei pusillanimi (vv. 22-‐‑81), delle anime traghettanti (vv. 82-‐‑136). Non
hanno fondamento le osservazioni, formulate in passato, circa una pretesa immaturità manifestata dal poeta nella composizione di questo canto, il quale avrebbe, a giudizio di alcuni, un andamento slegato ed episodico. C’è stato anche chi ha ipotizzato (Tommaseo) che questo canto sia stato composto per primo, e che di ciò rechi anco-‐‑ ra le tracce. È manifesto invece che la Commedia non reca tracce di incompiutezza: sappiamo che fu pubblicata, in diverse fasi, durante la vita dell’autore, come è attestato, tra l’altro, dalla diffusione proprio di questo terzo canto dell’Inferno a Bologna fin dal 1317 (i vv. 94-‐‑96 e 103-‐‑104 sono copiati su fogli dei registri della Curia del Podestà per riempire due degli spazi bianchi di quell’anno). L’esame linguistico del testo fornisce non solo una verifica della precisa strutturazione di esso, ma anche gli indizi necessari e sufficienti alla comprensione de-‐‑ gli intendimenti del poeta.
Gli elementi (che rispondono, come sempre in Dante, a un’esigen-‐‑ za che è didattica, mnemonica e poetica nello stesso tempo) sono offerti al lettore tutti assieme nelle terzine di apertura, per essere poi ripresi separatamente nello svolgimento del canto.
Nella scritta posta al sommo della porta, subito dopo la triplice ricorrenza anaforica del sintagma per me (vv. 1-‐‑3), e quindi in una posizione di rilievo ed evidenza, è nominata (v. 4) la giustizia divina, per significare che è ai fini di quest’ultima che l’inferno risponde nella sua totalità. Il poeta riprende il vocabolo al v. 50 (misericordia e giustizia li sdegna) con riferimento, ancora una volta, all’inferno (mentre la misericordia si riferisce al purgatorio e al paradiso). Il vocabolo ritorna ancora in chiusura del canto (v. 125: ché la divina giustizia li sprona), in esecuzione di una strategia collaudata (Ringkomposition nel moderno linguaggio tecnico), di cui l’autore trovava innumerevoli esempi nelle sue frequentazioni letterarie sacre e profane.
Basterà qui ricordare l’esempio più noto della ripresa a distanza di uno spunto significativo (ripreso perché significativo per l’autore e, nello stesso tempo, significativo per il lettore perché ripreso), costi-‐‑ tuito dalla notazione con cui il solo evangelista Luca commenta l’uscita di scena del demonio dopo la tentazione di Gesù (Lc. 4, 13: «E, quando il diavolo ebbe finito ogni tentazione, si allontanò da lui, fino ad un certo tempo»), in vista della ripresa all’inizio della passione (Lc. 22, 3: «Or Satana entrò in Giuda, soprannominato Iscariota»; 22, 31: «Ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano»).
Gli altri motivi conduttori del canto, segnalati dalle caratteriz-‐‑ zazioni lessicali delle terzine iniziali e dai successivi recuperi, sono quelli del dolore, della eternità e della difficoltà di comprensione.
te / …dolore), con ripresa ai vv. 17 (…dolorose) e 26 (…dolore). Il partici-‐‑ pio iniziale, a differenza dell’uso italiano moderno, ha significato attivo, come spesso nella cantica infernale (VI, 46; VII, 17; VIII, 120; IX, 32; XXVIII, 40; e cfr. Purg. VII, 22), e sempre con riferimento al luogo della pena. Nella visione dantesca la collocazione degli spiriti nella dimensione del dolore coincide con la loro collocazione nella dimen-‐‑ sione dell’eternità.
Non a caso, col primo motivo che abbiamo rilevato si intreccia il secondo, quello dell’eternità:
v. 2 ...ne l’etterno dolore
v. 8 ...se non etterne, ed io etterno duro v. 29 ...in quell’aura sanza tempo
vv. 85-‐‑87 non isperate mai veder lo cielo... ne le tenebre etterne
Le ricorrenze che si concentrano in questo canto liminare stanno a significare la valenza che l’autore attribuisce al tema dell’eternità in rapporto all’inferno e alle sue pene. Proprio qui Dante chiarisce una volta per tutte che queste e quello sono stati creati nel tempo, ma sono destinati a durare per sempre (v. 8: create / duro). Di questo ha già dato anticipazione in Inf. I, 114: e trarrotti di qui per loco etterno (anche in questo caso è presente la matrice scritturale: in Mt. 25, 41 il fuoco ri-‐‑ servato a Lucifero e alla schiera degli angeli ribelli è definito ignem aeternum). Il concetto è ribadito dall’ultimo verso dell’iscrizione (v. 9: lasciate ogne speranza, voi ch’intrate). La condanna è eterna perché chi entra attraverso quella porta ha perduto definitivamente la speranza di riavere Dio (‘il ben de l’intelletto’), di cui, con la dannazione, si è privati per sempre.
Il terzo elemento concettuale che caratterizza questo canto è costituito, come abbiamo detto, dal motivo della difficoltà di com-‐‑ prensione:
v. 10 queste parole di colore oscuro v. 12 maestro, il senso lor m’è duro v. 21 mi mise dentro a le segrete cose v. 31 e io ch’avea d’error la testa cinta
Questa serie di segnali forma una vera e propria griglia, entro la quale si colloca la serie di quesiti rivolti da Dante a Virgilio, che pun-‐‑ teggia il canto e lo connota. Le domande rivolte dal poeta alla sua guida sono sei (vv. 12, 32, 33, 43 s., 72 s., 73 s.), coprendo un ampio spettro tematico e collocandosi in una climax di insistenza e di
ampiezza di formulazione che prepara il troncamento di Virgilio ai vv. 76-‐‑78. Ciò costituisce un insieme organico che si estende fino al v. 129 (coincidendo dunque pressoché con l’intero canto) e contri-‐‑ buisce in modo determinante a fare di esso anche la descrizione di un’esperienza di iniziazione (v. 21: mi mise dentro a le segrete cose).
Il crescendo si scioglie nell’ultima risposta di Virgilio (vv. 121-‐‑129), la quale si rivela procrastinata non per impazienza dell’antico poeta, ma per essersi dovuta valere della intervenuta dichiarazione di Caronte, che proscioglie il pellegrino (e infatti, non a caso, il maestro è definito ‘cortese’ al v. 121, come già due volte nel canto precedente, vv. 58 e 134). A Dante il traghetto di Caronte è precluso non già per-‐‑ ché egli è rivestito ancora del suo corpo, ma perché la sua anima è ‘buona’, cioè vivificata dalla presenza di Dio. Dunque soltanto ap-‐‑ prossimandosi alla fine del canto il lettore apprende il motivo della precedente durezza (apparente) di Virgilio, che non è manifestazione di autorità o di intenzione pedagogica, come più volte inteso dai commentatori, ma espediente letterario.
Il percorso cognitivo del personaggio-‐‑poeta è segnato non solo dalla serie delle domande e dall’evolversi delle risposte, ma anche, una volta ancora, dagli strumenti stilistici e lessicali. Si rilevano, in tale prospettiva, gli espedienti messi in atto ai vv. 51 s. (non ragioniam di lor, ma guarda e passa —> ed io, che riguardai, vidi un’insegna), 58-‐‑61 (poscia che v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi...—> incontinente intesi e certo fui), 70 s. (e poi ch’a riguardare oltre mi diedi, vidi gente a la riva d’un gran fiume), ecc.
Per quanto riguarda la tessitura letteraria del canto nel suo complesso, va sottolineato quanto già anticipato più sopra riguardo alla forte presenza del modello scritturistico. Per l’uso dell’anafora e per l’espressione il libro delle Lamentazioni è sullo sfondo delle tre ter-‐‑ zine iniziali. I concetti in essa solennemente espressi riecheggiano Deut. 11, 18-‐‑20 («scribes ea [scil. haec verba mea] super postes et ianuas domus tuae»); Iob. 8, 17 («apertae sunt tibi portae mortis et ostia tenebrosa vidisti»); Ps. 106, 18 («appropinquaverunt ad portas mortis»); Mt. 16, 18 («portae inferi non praevalebunt adversum eam»). L’immagine della rena nel turbine al v. 30 è un’eco quasi letterale dal libro del profeta Isaia (Is. 17, 13: «Sonabunt populi sicut sonitus aquarum inundantium... et rapietur sicut pulvis montium a facie venti, et sicut turbo coram tempestate»). Né va dimenticato che l’oracolo di Isaia è rivolto contro gli Assiri, che per Dante sono il simbolo dei peccatori.
La descrizione della pena dei pusillanimi è ispirata anch’essa alla Bibbia. Si riconoscono Sap. 16, 9 (riferito a coloro che si allontana-‐‑
rono dalla benedizione divina): «illos enim lucustarum et muscarum occiderunt morsus et non est inventa sanitas animae illorum quia digni erant ab huiusmodi exterminari»; Iob. 24, 20 (sul destino dell’empio): «obliviscatur eius misericordia dulcedo illius vermes non sit in recordatione sed conteratur quasi lignum infructuosum».
Il riferimento agli angeli neutrali, ignoti alla Bibbia, è tratto dalle leggende popolari e da accenni contenuti nelle disquisizioni teologi-‐‑ che medioevali. Pietro Alighieri, animato – specialmente dopo la condanna del De monarchia da parte del delegato del papa, Bertrando del Poggetto – dalla preoccupazione di dimostrare l’ortodossia dottri-‐‑ nale di suo padre (e, di riflesso, di garantire anche la propria posizione nei confronti della Chiesa), cita Ugo di San Vittore (da identificare con un passo del De creatione et statu angelicae naturae in Migne, Patrologia Latina, CLXXVI, coll. 83-‐‑85). Studiosi moderni hanno anche richiamato testi francescani, come Alessandro di Hales, Duns Scoto e Pietro di Giovanni Olivi.
Quest’ultimo nome offre lo spunto per una ulteriore notazione. Nei vv. 52-‐‑69 è presentata la figura centrale del canto III, «colui che fece per viltate il gran rifiuto», identificato fin dai primi commentatori con l’eremita Pietro da Morrone, papa col nome di Celestino V, canonizzato dopo la morte col nome di san Pietro Confessore. Pietro Alighieri e altri dopo di lui, alla luce del processo di beatificazione avvenuto nel 1313, tentarono di spostare l’identificazione su perso-‐‑ naggi diversi, ma la posizione di Dante, ispirata alla corrente dei francescani spirituali delusi dall’abdicazione di Celestino, è netta (ve-‐‑ di anche Inf. XXVII, 103-‐‑105, riferito a Bonifacio VIII, successore di Celestino: «Lo ciel poss’io serrare e disserrare, / come tu sai; però son due le chiavi, / che ’l mio antecessor non ebbe care»). Il citato Pietro di Giovanni Olivi fu per due anni (1287-‐‑1289) lettore presso lo studio fiorentino di Santa Croce, e lasciò ai confratelli francescani ed ai loro futuri allievi un’eredità di pensiero e di scritti (fra cui l’opuscolo De renuntiatione papae Coelestini V) che durerà fino all’inizio del ’400. Egli propugnava il rinnovamento morale della Chiesa, il ritorno alla semplicità e alla povertà evangeliche e la lotta contro la corruzione ecclesiastica, responsabile prima della corruzione morale. Tutti coloro che la pensavano come lui (e Dante era uno di questi) avevano riposto grandi speranze nell’elezione di Celestino, per cui grande era stata la loro delusione. Per questo nel III canto dell’Inferno la prima figura di dannato che incontriamo è quella del papa che col suo rifiuto ha tradito le aspettative: in tutto il poema, e in particolare nella prima cantica, attraverso il variare dei toni e l’alternarsi dei li-‐‑ velli narrativi l’autore persegue il suo progetto politico e morale di
rinnovamento e purificazione*.
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
* Ripropongo qui, a distanza di tempo e nell’impossibilità di ricostruire l’apparato documentario, la traccia dell’esposizione orale utilizzata, alla quale contribuirono in modo determinante scambi di idee con i colleghi (in particolare Maria Simonelli, che mi fornì materiali e spunti numerosi) e una serie di seminari con i miei alunni di allora. A tutti loro va la mia gratitudine e il merito di eventuali contributi originali riconoscibili; a me saranno da ascrivere inesattezze e lacune.
ANNA CERBO
LODOVICO CASTELVETRO: LA SPOSIZIONE DEI
CANTI I-‐‑XXIX DELL’INFERNO
1. La Sposizione di Lodovico Castelvetro dell’Inferno dantesco fu stesa probabilmente negli ultimi mesi della sua vita, durante l’esilio di Chiavenna, e fu interrotta dalla morte nel febbraio del 15711. È stata pubblicata per la prima volta nel 1886, «in Modena coi tipi della Società Tipografica, Antica Tipografia Soliani», ad opera di Giovanni Franciosi che, nel 1881, era venuto a sapere per caso del codice che la conteneva. Si tratta di un codice tutto di pugno di Castelvetro, caratterizzato da lettere fitte e minute: 237 facciate scritte, di cui l’ultima non intera, e 65 bianche, già posseduto da Lodovico Vedriani e poi nell’Archivio del Collegio San Carlo di Modena. Franciosi dice di aver conservato «la grafia del Codice», intervenendo solo a «virgolare e punteggiare accuratamente dove le virgole e i punti erano tralasciati o fuor di posto»2.
Il testo della Sposizione, pp. 1-‐‑410, è preceduto dall’Introduzione di Franciosi, Di Lodovico Castelvetro come espositore della Divina Commedia, pp. IX-‐‑XXXI, datata Siena, novembre del 1885, da una tavola di Correzioni, Sostituzioni e Aggiunte, dalla riproduzione di due pagine (pag. 1 e pag. 48 del Cod. Autogr. Castelv.), ed è seguito da tre Tavole: Luoghi del Poema, su cui cadono le chiose e le opposizioni più notabili
1 Si tratterebbe di un rifacimento, perché Castelvetro avrebbe commentato quasi tutta la Commedia, ma il manoscritto sarebbe stato distrutto in Lione nel 1567, durante il saccheggio della propria abitazione in una sommossa religiosa. Cfr. LODOVICO ANTONIO MURATORI, Vita del Castelvetro, in Opere varie critiche di L. C. gentiluomo
modenese non più stampate, Lione [ma Milano], Stamperia di Pietro Foppens [ma
Stamperia Palatina] 1727, rist. anast., Monaco, Fink 1969, p. 47 («[...] andarono a sacco [...] molti suoi Libri stampati de’ migliori che si trovassero, e quel che è peggio, gli Scritti suoi [...]. Vennero meno del pari le Chiose, ch’egli aveva fatto alla Commedia di Dante, e che tentò poi di rifare, ma senza condurle più oltre del cap. XXIX dell’Inferno») e p. 71 («A Dante, da lui altamente stimato, fece di gran carezze, e sopra quasi tutta la sua Commedia [...] aveva egli composta una Sposizione, che dovette perire col naufragio dell’altre sue letterarie fatiche in Lione»). Si veda anche GIROLAMO TIRABOSCHI,
Biblioteca Modenese, Modena, Società Tipografica 1781-‐‑1786, vol. I., pp. 481 sgg.
2 Cfr. il saggio introduttivo, Di Lodovico Castelvetro come espositore della Divina