Vergine Madre, figlia del tuo figlio
La traduzione è Ayyatuhā al-Ummu al-‘aḏr’u, yā ibnata-ibniki Qui il traduttore non sembra rispettare appieno il senso teologico della felice intuizione dantesca di giustapporre i termini Vergine-‐‑ Madre nella loro autonoma funzione di sostantivi. Anteponendo, infatti, il termine Umm dà chiaramente ad intendere di avere letto e interpretato il termine al-‘aḏrā’u come un vero e proprio attributo del primo, schierandosi, quindi, sul crinale della dottrina coranica che vede in Maria, madre di Gesù, la donna che ha saputo conservare e custodire integra la propria verginità persino all’atto della generazione. Il che, sostanzialmente, è in linea con il pensiero espresso nel verso dantesco, ma meno efficace, meno intenso rispetto alla considerazione che Maria è essenzialmente una Vergine da sempre divenuta Madre, come per dire che molte madri, nell’assolvimento della loro naturale funzione di genitrici potrebbero conservarsi vergini se esplicano la suddetta funzione negli argini di una composta dirittura morale. Il traduttore coglie, in nota, la finezza di questo profondo sentimento cristiano nei confronti della Vergine, ma non è nella condizione di spiegarsi e illustrare appieno la dottrina della seconda parte del verso, dove l’assenza di tutto l’iter dottrinale imperniato attorno alla natura di vera madre di Dio riconosciuta dalla Chiesa a Maria, gli fa perdere l’occasione di tradurre il termine Umm con il più pertinente Wālidah, certamente più consono e congruo ad illuminare, in chiave contrastiva e comprensiva, la seconda parte del versetto ‘Ya ibnata ibniki’, altrimenti incomprensibile se non nella linea di una filiazione divina, qual è quella delle creature nei confronti
35 Vedi note 3, 5, 6, 7, 11, 17.
di Dio, Padre misericordioso dell’universo umano. Ma già la tradi-‐‑ zione latina ci presentava Maria come la ‘Dei genitrix Virgo’. Perché tanta diffidenza e distacco da parte del traduttore nei confronti del termine Wālidah, che pur ricorre nel Corano, testo nel quale ogni termine ha una sua singolare valenza di significato e che, perciò, non può essere considerato alla stregua di Umm? Il ricorso al termine
‘ibnah‘ si allinea con la dottrina cristiana espressa nella formula latina
‘genuisti qui te fecit’ che dà l’esatto spessore dei due modi di generare e fare o creare. Nessun cenno a tal proposito troviamo in alcuni tra i più ragguardevoli commentatori ed esegeti del testo coranico, quali
al-Ṭabarī, Ibn Kaṯīr36, al-Bayḍāwī ed altri tra i primi. Dobbiamo sup-‐‑ porre che il particolare passò sotto silenzio sin dall’inizio dell’ela-‐‑ borazione teologica coranica in chiave contrapposta alle tesi cristiane. E Ḥasan ‘Uṯmān è certamente più sbrigativo là dove, traducendo ‘Ya
ibnata ibniki’, l’illustra in nota con le parole: “Questo è quanto cre-‐‑
dono i cristiani”. La stessa traduzione ci è offerta da Rāšid.
Termine fisso d’etterno consiglio
la traduzione è Ayyatuhā al-ġāyatu al-abadiyyatu al-marsūmatu lanā
che traduce certamente un commento, forse quello del Buti, il quale vedeva nel versetto «il termine nel quale ab aeterno la somma Sapienza deliberò di operare la redenzione umana», concetto, questo, messo ancora più in rilievo dall’inciso lanā, che non è nel testo originale di Dante e che il traduttore mutua dal commento al testo. Ed è sicuramente questa lettura che induce poi il traduttore a replicare in nota:
Ovvero, Dio credette opportuno incarnarsi in Maria affinché salvasse il genere umano dal peccato, come è nella credenza dei cristiani, e come a ciò simile è detto nel Convivio IV, V. 3, 537.
Il che mortificherebbe, però, l’altra considerazione teologica secondo la quale detto disegno di fare di Maria il tabernacolo vivente del Figlio
36 IBN KAṮĪR,Tafsīr al-qur’ān al-‘aẓīm, vol. II, Beirut, Dār al-‐‑fikr 1997, p. 123 allude
alla generazione riproponendo la grave accusa e calunnia che i giudei lanciavano contro Maria per aver concepito e generato Gesù. Ad ogni modo l’esegeta non procede ad alcuna analisi linguistica del termine nell’ambito di una vera e propria maternità che si dà per scontata come fatto, ma non nelle sue implicazioni dottrinali, anche perché la sensibilità musulmana non ha mai fatto mistero della reale maternità di Maria che concepisce ‘per opera di uno spirito inviato o mandato da Dio’.
incarnato, essendo stato deliberato ab initio e ab aeterno, sarebbe stato tale anche se l’uomo non avesse peccato e non ci fosse stato, quindi, il peccato. In tale ottica la traduzione perde in ieraticità e solennità, mortifica l’assolutezza del piano soprannaturale nel quale Maria è proiettata dalla cospicua e sintetica mariologia di cui Dante è felice interprete. Il centro gravitazionale di questa sublimità mariana è però tutto nella progettazione divina. È Dio Trino il perno attorno al quale si concentra l’attenta lettura che Dante fa delle testimonianze dei Dottori e dei Padri della chiesa a proposito delle prerogative di Maria.
Ḥasan ‘Uṯmān si muove invece su un registro interpretativo che gli nuoce enormemente non tanto sul profilo delle sue capacità di traduttore, quanto su quello di limiti squisitamente teologici, im-‐‑ pari di per sé al confronto con una dottrina estranea alla sensibilità musulmana. Tale è per l’appunto il fraintendimento nel quale cade traducendo la terzina:
Tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura
che in traduzione suona: Innaki anti afaḍti bi-nubuliki ‘alà ṭabī‘ati
al-bašar, ḥattà lam ya’nif ḫāliquki min an takūnī lahu ḫāliqatan, ossia
«Tu sei colei che della tua nobiltà sommergesti l’umana natura38, sì che il tuo creatore non disdegnò che di lui fossi tu creatrice».
La traduzione è ingannevole sotto molteplici punti di vista, soprattutto nella delicata questione del ruolo di Maria che il Corano e la tradizione musulmana usano considerare nobile per la scelta ch’ella fece di consacrarsi al servizio di Dio nel suo sacro Tempio e per essere stata scelta ed eletta ad essere la madre del profeta Gesù, ma prendendo decisamente le distanze da ogni suo coinvolgimento in qualsivoglia ambito della pura e assoluta nozione e realtà della divinità. La scelta dell’espressione ḫāliqat ḥāliqihā deducibile dalla traduzione, accresce a dismisura la repulsione indignata della sensibi-‐‑ lità musulmana. Se nella precedente triplice sequenza di attributi stilisticamente antitetici e contraddittori si adombra il loro supera-‐‑ mento nella sfera del soprannaturale, qui tale possibilità è del tutto esclusa, perché in nessun senso si può essere creatori del proprio Creatore. La terminologia dantesca afferisce invece all’ambito di un lessico che è pertinente all’assunzione di una natura o specie umana,
38 Non ci sembra rispondente al vero che tale parte della terzina dantesca stia a significare, come ritiene il traduttore, che Dio si è incarnato, come professano i cristiani, nel seno della Vergine Maria. Cfr. ‘UṮMĀN, op. cit., p. 556, nota 6.
dove il concetto di creazione è ovviamente antecedente e già consumato. Maria è creatura tanto sublime e nobile da poter divenire ed essere camera o ricettacolo o dimora di colui che è già stato suo fattore o creatore. La scelta è di Dio, è Cristo che ama incarnarsi in lei e divenire figlio dell’uomo, non disdegna di assumere la natura umana. C’è, quindi, un’amplificazione del precedente concetto, solo in apparenza contraddittorio, in cui si afferma che Maria è figlia del suo Figlio, solo che qui si ha una inversione dei punti di partenza: il divino, ossia il Figlio, non considera disdicevole assumere la forma o la natura umana da Maria.
L’attenzione è di poi nuovamente riportata sulla persona di Maria con la terzina:
Nel ventre tuo si raccese l’amore per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore
che è ricchissima di echi di tradizioni mariane apocrife e delicate intuizioni dei primi scrittori cristiani. La traduzione araba: Fī aḥšā'iki išta‘alat al-maḥabbah, allatī nabatat bi-ḥarāratihā hāḏihi al-zahrah fī
al-salām al-abadī ‘alà hāḏihi al-ḥāl è sostanzialmente fedele, anche
perché in arabo il termine ‘ventre’ è dato in prima istanza da baṭn, è vero, ma in non pochi passi troviamo il suo sinonimo ‘viscere’, ossia
aḥšā’, come appunto fa Ḥasan ‘Uṯmān, che in nota apporta: «Cristo è il
frutto del ventre, baṭn, della Vergine Maria, come è detto nel ‘Libro santo’, Luca I, 43»39.
La traduzione di Rāšid è su diverso registro, più distante e meno aderente al testo, suonando:
Nelle tue viscere è arsa la fiamma dell’amor divino (per l’umanità) e al calore di questa fiamma, nella pace della beatitudine eterna, è germinato questo fiore (la rosa dei beati).
A sua volta Ḥasan ‘Uṯmān puntualizza altresì che l’espressione ‘questo fiore’ è da intendersi con ‘questa rosa’, vale a dire la rosa dei beati
39 Ivi, nota 8. La citazione evangelica più pertinente è però Lc 1, 42. Non ci sembra del tutto condivisibile l’opinione del traduttore secondo la quale la maternità di Maria è il principio o la radice della sofferenza e del sacrificio di Cristo per la salvezza del genere umano dal peccato originale e la possibilità di riguadagnare la dimora di Dio. Ma forse qui egli intende dire che essa è certamente una conditio sine qua non della redenzione attraverso l’incarnazione, mentre il fondamento della medesima è solo la volontà della seconda Persona della Trinità, ossia di Cristo.
dell’Empireo, terminologia floreale dove troviamo più di un’eco d’una particolare tradizione mariana presente tanto nel Corano quanto nella letteratura cristiana, soprattutto apocrifica.
C’è di fatto un versetto coranico dove, parlando di Maria, si dice che il Signore la fece germogliare di germoglio buono40. Gli ante-‐‑ cedenti di questa idea coranica sono innanzitutto la testimonianza di Isaia sul virgulto o germoglio messianico che sarebbe nato dalla radice di Jesse. Ma ci è sembrato più opportuno individuare dei passi apocrifi che sono in sintonia di immagine e di significato con il senso proprio della tradizione musulmana. Così riteniamo che il Protoevan-‐‑ gelo di Giacomo VI, 3 adombra e prefigura il significato di quanto detto dal Corano là dove fa dire ad Anna: «Un frutto della sua giustizia il Signore m’ha elargito, unico e molteplice innanzi a lui».
Su questa premessa, ribadita in altri testi apocrifi, si sviluppa poi il vero e proprio concetto riproposto dalla sura in questione. E di fatto così troviamo narrato nel Vangelo dello Ps. Matteo III, 4: «A voi è stato concesso un germoglio tale, quale mai né profeti né santi ebbero fin dall’inizio né avranno in futuro». Lo stesso testo aveva già detto, al cap. II, 3: «Non ti turbare, Anna», le disse / l’angelo /, «Dio ha deciso un germoglio per te. Ciò che nascerà da te formerà l’ammirazione per tutti i secoli, fino alla fine».
E nel Vangelo di Bartolomeo XVI leggiamo ancora: «Maria nostra sorella, nostra Madre, Madre dei dodici rami». E ancora, al cap. XXIX, troviamo Maria che così prega:
Ed ecco che si sono radunati ed io sono in mezzo a loro come una vite fruttifera, come nei tempi in cui ero con te e tu eri come una vite in mezzo ai tuoi angeli incatenando ogni attività del nemico.
Nella Dormitio Virginis VIII, 12 Maria, dopo aver benedetto il Signore per l’opera da lui compiuta su di lei, conclude l’enumerazione dei benefici ricevuti con queste parole: «Ti benedico per tutta la piantagione delle tue mani che dura in eterno. Santo, santo colui che riposa tra i santi».
Nel testo che Erbetta presenta come Il transito romano, redatto in forma definitiva nel sec. XI, ci sono passaggi identici a quanto riportato nel Vangelo di Bartolomeo. E di fatto al nr. 16 è così narrato:
Poi Maria pianse con accento calmo e tranquillo. Giovanni non
fu capace di trattenersi. Il suo spirito fu turbato e non trovava cosa dirle. Non sapeva ancora che stava per lasciare il corpo. Allora esclamò ad alta voce: “Sorella mia Maria, divenuta madre dei dodici nomi, che cosa vuoi che faccia per te?”41.
I due episodi precedenti sono narrati pure nel Libro del riposo etiopico, il primo alla pagina 431 dell’edizione di M. Erbetta, dove però si dice semplicemente: «Maria, nostra sorella, divenuta madre dei dodici», mentre il secondo, riportato al nr. 52 così recita:
Mi hai detto che mi avresti inviato tutti gli apostoli, quando avessi lasciato il corpo. Ed ecco si sono radunati. Mi trovo tra loro come vite ferace nei suoi dì, come nel tempo in cui eravamo con te; e ancora come vite tra i tuoi angeli, mentre assoggetti i tuoi nemici a tutte le tue opere.
Per quanto concerne poi la terzina:
Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra’ mortali, se’ di speranza fontana vivace.
tradotta con: Innaki lanā hunā fī rābi‘ati nahāri šu‘latu al-maḥabbati, wa-innaki hunāka fī asfala bayna al-bašar al-fānī, yanbū‘u
al-amali al-dāfiqi, la traduzione è in linea con il pensiero dantesco, ma
lo tradisce leggermente scegliendo di tradurre l’aggettivo meridiana con nella pienezza del giorno conferendo una connotazione temporale ad una carità reciproca che per propria natura è piena sempre, in ogni istante e mai viene meno, alimentata come è dall’amore eterno per Dio e di Dio42. Più che il tempo sta ad indicare, di fatto, l’intensità. Che è anche il carattere della speranza che le creature, ancora erranti sulla terra, attendono di mutare in certezza e possesso di beatitudine. La traduzione di Rāšid è sbrigativa, prosaica: «Qui tu sei per noi sole di carità e nel mondo, per il genere umano, fonte di viva speranza».
Ma dove Ḥasan ‘Uṯmān ripropone un ulteriore elemento di turba-‐‑
41 Cfr. MARIO ERBETTA, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, Marietti 1966-‐‑ 1981, pp. 465-‐‑474. Notare l’evoluzione subita dal testo che si trova nel Vangelo di
Bartolomeo, in cui ‘dodici rami’ è qui divenuto i ‘dodici nomi’.
42 Nella nota 12, p. 557, propone invece la sua accezione corrente, alla luce di quanto san Bernardo stesso dice di Maria nel suo sermone sull’Assunzione, II, 9, dove parla di Maria come «la Vergine gloriosa, la cui lampada ardentissima parve miracolosa anche agli angeli».
tiva circa la fruizione oggettiva del contenuto del canto da parte della componente islamica, è il verso 14, e precisamente la sua parte intro-‐‑ dotta dall’invocazione ‘Donna’, che viene tradotto con wa-innaki,
ayyuhā al-ālihatu, che richiederà poi un suo intervento in nota per
asserire che tale sembra essere l’opinione di Momigliano nell’inter-‐‑ pretazione del termine ‘donna’ sulla falsariga del latino domina ma che è, comunque, lontanissima dall’arabo al-ālihah. Di fatto, nel Corano tale termine è oggetto di accesa disputa tra Muḥammad e coloro che vanno dicendo d’aver udito dire da Cristo che lui e sua madre sono due dèi oltre a Dio. La decisa e perentoria smentita di un simile assunto da parte di Cristo esclude, per conseguenza, che di Maria si possa predicare tale termine, come è detto in sura V, 116:
E quando Dio disse: “O Gesù figlio di Maria! Sei tu che hai detto agli uomini: ‘Prendete me e mia madre come dèi oltre a Dio’?” E rispose Gesù: “Gloria a Te! Come mai potrei dire ciò che non ho il diritto di dire? Se lo avessi detto Tu lo avresti saputo: Tu conosci ciò ch’è nell’intimo mio, e io non conosco ciò che è nell’intimo Tuo. Tu solo sei il fondo conoscitor degli arcani!”43.
Non era proprio opportuno privilegiare una peregrina e discutibile allusione di un dantista a tutto danno di quanto Dante stesso intendeva dire di una donna che da siffatta sua dimensione creaturale seppe avvicinarsi ed innalzarsi a Dio, grazie ad una sua costante sottomissione e umiltà, raggiungendo uno stato di pura grazia. Rāšid traduce con naturalezza ayyatuha al-mar’atu e intuisce altresì l’oppor-‐‑ tunità stilistica della congiunzione tra ‘tanto grande’ e ‘tanto vali’ che poi rende in traduzione con «grandissima tu sei e ancor più grande è la tua potenza», mentre Ḥasan ‘Uṯmān la omette, creando una ino-‐‑ pinabile giustapposizione tra la grandezza e la capacità effettuale di intercessione e di esaudimento di cui Maria gode al cospetto di Dio, tanto che lo stesso san Bernardo usava dire «Nihil nos Deus habere voluit, quod per Mariae manus non transiret», vale a dire: «Dio volle che nulla noi avessimo, che non passasse per la mani di Maria».
43 Il termine qui usato al duale è ilāhayn. Ma il Corano esclude altresì che Gesù possa essere considerato rabb o Signore, come è detto in sura IX, 31 e anche di ciò il traduttore avrebbe dovuto tener conto nella traduzione del termine ‘donna’, prefe-‐‑ rendone l’accezione più semplice che le conservava anche il saluto dell’angelo là dove la considerava benedetta tra le donne. La tradizione islamica dissente sul tempo in cui Dio rivolge di fatto a Gesù la domanda di cui sopra. Nel giorno in cui innalza a sé Gesù oppure nel giorno della Resurrezione?
Or dunque il termine ‘donna’ di cui in Dante, a null’altro starebbe se non a significare una donna, nella fattispecie Maria, nella sua dignità creaturale, in quella accezione archetipale e volutamente identitaria di ishah contrapposta o complementare di ish, ossia uomo nel suo principio identificativo di carne inabitata poi dallo spirito da Dio in esso insufflato. Non signora, quindi, non sovrana, non deessa, ma solo donna, come donna era colei alla quale Cristo si rivolse dall’alto della croce per indicarne una successiva e mistica maternità, congiungendo alla sua esistenza il destino di Giovanni già trasformato dal suo sangue redentivo. «Donna, ecco tuo figlio», le disse egli e, rivolto al discepolo amato: «Ecco tua madre»44.
I distinti piani delle due creazioni convergono in un identico ruolo materno della Vergine in quanto essenzialmente donna. Il senso enfatizzato e metaforico che Ḥasan ‘Uṯmān gli conferisce con la discutibile voce ālihah è piuttosto quello che nella letteratura classica è attribuito alle regine, come in Omero, Iliade, III, 204; C. Dione, LI, 12.
La terzina comprendente i versi 16-‐‑18:
La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre.
Qui come altrove assommati in due emistichi di disuguale andamento metrico e che così recitano:
Inna ra’fataki ġayru qāṣiratin ‘alà maddi al-‘awni li-man yaṭlubuhā, bal innahā kaṯīran
Mā tasbuqu muḫtāratan su’āla man yas‘aluki iyyāhā.
La sistemazione dell’avverbio kaṯīran mā, che nella resa a stampa figura scisso, potrebbe di per sé causare fraintendimento e prestarsi ad una di quelle classiche letture e interpretazioni dei responsi del-‐‑ la Pizia che provocavano gioie o lutti a seconda di come venivano recepiti e vissuti. Nonostante questo particolare, la traduzione ren-‐‑ de bene il senso che Dante affidava alla terzina, non lasciando naufragare l’accezione della piena e benigna disponibilità della Vergine a soccorrere in ogni frangente chi a lei ricorre. Qui tuttavia si pone il problema dell’intercessione che nell’Islām è riservata a Dio solo e, in particolari circostanze, al profeta Muḥammad. Perciò, pur se tradotta egregiamente quanto al significato letterale, la
44 Cfr. Gv 19, 26-‐‑27.
terzina è riconsiderata nella sua portata teologica e messa in discussione, per il tramite della formula ‘come credono i cristiani’, sotto il profilo dell’efficacia dell’intercessione mariana e della reale capacità della Vergine nel farci ottenere ogni genere di grazia e di favore da Dio. Il primato di Maria nell’intercessione, così come ci è presentato da Dante, andrebbe a scalzare il primato che all’interno dell’Islam spetta a Muḥammad nei confronti dei membri della sua comunità. In certo senso nel primo è adombrata l’efficacia univer-‐‑ sale della redenzione e della salvezza operata da Cristo al quale si arriva, come nella dottrina della Chiesa, per via di Maria; nel secondo, invece, tale universalità è pressoché assente, giacché la tradizione musulmana confina la possibilità di intercessione nel ristretto perimetro dei suoi membri.
Non bisogna nemmeno dimenticare che in non poche circo-‐‑