VINCENZO JACOMUZZI
LA FINE DEL TEMPO NEI CIELI DI DANTE
Dire l’indicibile: questo è il problema. Rappresentare in modo concreto, visibile e attraverso le parole, non più o non solo per allegoria, il mondo ultimo dello spirito: questo l’ossimoro, questa la potenza e l’impotenza di Dante scriba Dei, cioè soprattutto del Dante del Paradiso. Qui appunto leggiamo il noto verso che riassume la difficoltà e l’ineffabilità di «quella materia ond’io son fatto scriba» (canto X, 27)1.
A questo è da attribuire il costante richiamo nella terza cantica all’impossibilità di riferire la propria esperienza, nel continuo gioco al ribasso dall’esperienza alla memoria alla trascrizione. Si comincia dai celebri versi del proemio paradisiaco (I, 4-‐‑9):
Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire.
E proseguirà senza soluzione di continuità lungo tutta la cantica, fino agli altrettanto celebri versi del canto XXXIII (vv. 67-‐‑72):
O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente.
1 Citiamo il testo dantesco, qui e in tutto l’articolo, secondo l’Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana a cura di G. Petrocchi, Milano 1966.
Si potrebbe, si dovrebbe parlare di una “poetica dell’impotenza poetica”, con i suoi stilemi retorici e sostanziali: «Attraverso il topos dell’ineffabile, dunque, è acquisita sino in fondo quella coscienza dell’inadeguatezza tra il ‘fatto’ e il ‘dir’ che rinvia alla possibilità generale della Commedia di legittimarsi e costituirsi come supremo esemplare di un uso non mimeticamente rappresentativo, ma cono-‐‑ scitivo e giudicante del linguaggio poetico»2.
Così certa critica cerca di nobilitare e giustificare ciò che altra critica ritiene in realtà il fallimento gnoseologico del poema dantesco.
Impotenza ad esprimere, perché «trasumanar significar per verba non si poria». E questo segna, fin dall’inizio, la differenza, il discrimine rispetto all’Inferno e al Purgatorio.
A consentire il concepimento intellettuale di tale impresa, è vero, contribuisce quella continuità, quella contiguità fra fisica e metafisica che è “privilegio” della cultura medievale. Il viaggio “all’eterno dal tempo” si inserisce nell’ordinata, gerarchica struttura della concezione cristiana del mondo così come era tracciato dalla cultura scolastica, e tuttora presente in tanta lettura popolare del religioso.
A questo si riferisce Silvio Pasquazi nel titolare appunto All’eterno dal tempo la sua ormai classica raccolta di saggi danteschi. Qui leggiamo infatti, proprio nella pagina d’apertura e a proposito del significato anagogico della Commedia: «il senso anagogico è quello che si ottiene trasvalutando le cose narrate, per contingenti che siano, sul piano dei valori eterni, dove le cose del tempo e della creazione rivelano la loro connessione con la verità assoluta da cui traggono l’essere e a cui tendono come a ultimo fine». E poco dopo aggiunge: «La tensione affettiva e intellettuale del poeta procede dalla servitù alla libertà, dal contingente all’assoluto, dal tempo all’eterno»3. Che così parafrasa e interpreta i versi del canto XXXI, 37-‐‑39:
ïo, che al divino da l’umano, a l’etterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano.
Così Dante sintetizza il proprio pellegrinaggio nel momento in cui ha raggiunto la meta, l’Empireo, unico luogo della perfezione eterna. La tensione affettiva e intellettuale, l’itinerarium mentis in Deum, raffigura dunque il vero significato del viaggio oltremondano di Dante, che si risolve in una contrapposizione, anzi, in un passaggio
2 ANGELO JACOMUZZI, L'ʹimago al cerchio, Milano, Franco Angeli 1995. 3 SILVIO PASQUAZI, All'ʹeterno dal tempo. Studi danteschi, Roma, Bulzoni 1985.
dal tempo terreno all’eternità del Paradiso, che è trascendenza del contingente in assoluto. Una distanza incommensurabile che solo una miracolosa superinfusa grazia divina (così la definisce Cacciaguida) può rendere possibile a chi ancora vive.
Due “smisurate” similitudini la esprimono, che proprio nel se-‐‑ gnare la distanza dal mondo materiale palpitano dell’emozione sba-‐‑ lordita di affetti terreni. La prima, nel canto XI del Purgatorio, ai versi 100-‐‑108:
Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’, pria che passin mill’anni? Ch’è più corto spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto.
La seconda, come noto, negli ultimissimi versi del poema, canto XXXIII, 94-‐‑96:
Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ‘mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Un solo infinitesimo istante d’eternità è spropositatamente mag-‐‑ giore a venticinque secoli di tempo mitico.
Il tempo è dunque indubbiamente una delle misure fondamentali dell’eccezionale esperienza dantesca, e una delle strutture portanti della sua rappresentazione del mondo. E d’altra parte, come potrebbe non esserlo? Il tempo e lo spazio, l’incommensurabile distanza fra spazio e tempo terreno, e spazio e tempo dell’eternità.
Non a caso, a fare da cardine fra tempo ed eternità, a sancire la fine del tempo con le sue verità effimere nell’eternità delle verità divine, è il sommo mistero che Dante intuisce al culmine della propria espe-‐‑ rienza mistica, cioè la visione, la comprensione del mistero dell’in-‐‑ carnazione di Cristo, pilastro e garanzia ontologica di ogni fede cri-‐‑ stiana. Sono tra le ultime terzine del poema (XXXIII, 127-‐‑138):
Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova.
Spazio e tempo. Le due dimensioni procedono indivisibili nella riflessione dantesca. Anzi, nella sua analisi filosofica il primo rilievo, la prima definizione del tempo viene data proprio attraverso considerazioni di spazio. Nel Convivio leggiamo infatti che il «tempo è numero di movimento, secondo prima e poi», e più precisamente «il tempo è numero di movimento celestiale (il primo Mobile), lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informa-‐‑ zione».
Dunque, l’intera creazione e il suo procedere è “tempo”. Tempo come “movimento” e “cangiamento”: anche in questo Dante segue esattamente le indicazioni della Fisica di Aristotele. Il tempo come “movimento celestiale”, al punto che potremmo leggere come indica-‐‑ zioni di tempo ogni rilievo e riferimento astronomico, e quindi soprattutto concentrate nella cantica del Paradiso.
Non è qui il caso di riprendere, per approfondirlo e precisarlo, tutto il dibattito scientifico-‐‑filosofico della cultura scolastica: basti sapere che Dante si pone con piglio da teologo come interlocutore in un dibattito accesissimo di quella cultura, cui partecipano, sulla scorta di Aristotele, Platone e Averroè, tutti i grandi maestri: da Agostino a Boezio, da Alberto Magno al Tommaso d’Aquino del De tempore. Accenno soltanto alla posizione di Bonaventura da Bagnoregio, poiché è l’autore il cui Itinerarium mentis in Deum più Dante ha presente. Questione centrale: il rapporto fra Dio e il tempo. Tempo creato e finito, o tempo coincidente con l’eternità di Dio. E Bonaventura, come Agostino, sostiene che Dio abbia creato il tempo, luogo del mutabile e del corruttibile, mentre la divinità è fuori dal tempo. Ed è questa indubbiamente la posizione di Dante: il magno volume in cui da sempre sono compresenti tutte le realtà di tutti i tempi, è un libro che poggia sulle mani di Dio, esterne a lui, all’eternità dell’Empireo e della felicità assoluta dei beati.
occupare il ruolo di protagonista. Torniamo al tempo, come struttura ideologico-‐‑concettuale della Commedia, e del suo rapporto con l’eternità dell’oltremondo.
Certo, il tempo è presente già nell’Inferno. Ma lì la realtà descritta è ad un livello subumano, magmatica come il nucleo incandescente dell’entroterra, e il senso dell’eternità sembra più proporre un protrar-‐‑ si all’infinito di condizioni che vivono nella concretezza del tempo. È un succedersi concitato di avvenimenti dolorosi, macabri, strazianti. E l’orizzonte è sempre solo quello della vita terrena ormai lasciata e in-‐‑ travista ancora grazie alla virtù profetica. Ma in questo affollarsi di figure e situazioni, il tempo continua a muoversi e intervenire in un presente eterno ma cangiante: movimento e cangiamento, “misure” del tempo, presiedono alla vita del regno, e cominciano a proporre la contrapposizione con la “quiete”, “misura” dell’eternità. Il tempo prepara cambiamenti significativi all’Inferno: basti pensare al ricon-‐‑ giungimento con il corpo dopo il giudizio universale, che determinerà stravolgimenti di paesaggio, come nell’esempio a caso della selva dei suicidi.
E altre rare schegge di eternità: il meccanico alitare e manducare di Lucifero, l’incombente oscurità nelle arche degli eretici.
Il Purgatorio, ovviamente, esiste nel tempo, e solo nel tempo. E nel movimento. È passaggio in una valle di lacrime, il presente, in cui si pagano le colpe terrene, il passato, per giungere alla beatitudine eterna, il futuro. E l’attesa, la stasi, l’apparente quiete è “punizione di tempo”, non certo beata contemplazione della divinità. Ma tutto questo è risaputo.
Dunque, se voglio leggere in Dante il tempo in rapporto all’eter-‐‑ nità, cioè la sua fine, devo tornare al Paradiso. Dove sarà opportuno precisare subito che parlare di Paradiso significa parlare di Empireo. Lì è vera eternità, che coincide con perfetta beatitudine e eterna quiete, con l’assoluta verità, con il definitivo significato di ogni cosa. Lì, è ve-‐‑ ro, il tempo apporterà ancora dei cambiamenti, ma saranno minimi, non di qualità, e Dante vi accenna solo di sfuggita. Saranno i pochi scranni ancora vuoti nell’anfiteatro celeste, preannuncio appunto della fine dei tempi: Beatrice così infatti dice a Dante nel momento del pri-‐‑ mo sguardo all’anfiteatro celeste (XXX, 128-‐‑132):
[...] Mira
quanto è ‘l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant’ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira.
E sarà il ricongiungimento con i corpi che non comporterà significativa modificazione alla realtà dei beati.
Empireo come unico vero assoluto paradiso. Empireo come unica eternità. E se nell’ascesa di cielo in cielo Dante ha incontrato le diverse schiere di beati disposte a parlare in termini di tempo e del tempo terreno, questo, lo sappiamo, è funzionale ai limiti umani di Dante ancora vivo, perché agli uomini bisogna parlare secondo codici “fisici”, altrimenti non capiscono. Quindi, in termini di tempo. Così come vengono attribuiti a Dio e piedi e mano (cfr. Paradiso IV, 40-‐‑48).
Molte funzioni e molti aspetti assume il rapporto fra eternità e tempo in tutta la Commedia, e soprattutto, come sto cercando di evidenziare, nel Paradiso. Cesare Vasoli ne propone un validissimo esame nella corrispondente voce della Enciclopedia dantesca, riassu-‐‑ mendo tanti eccellenti saggi, da quelli del Nardi a quelli del Ghisalberti.
Abbiamo già accennato alla principale questione concettuale, quella sulla creazione del tempo e sulle sue determinazioni: movimen-‐‑ to, cangiamento, prima e poi. Dal rapporto fra tempo ed eternità discendono numerose considerazioni e convinzioni dantesche, che diventano strutture del suo fare poetico. La visione provvidenzialisti-‐‑ ca della storia, ad esempio, che compie nel tempo il disegno divino. Da qui deriva la partizione cronologica e quasi millenaristica del mito di un passato giusto e felice, della corruzione del presente, e della pro-‐‑ fezia di un futuro in cui l’intervento di Dio darà un senso all’intera evoluzione dell’umanità. La fine del tempo è compimento, realizza-‐‑ zione ed esaurimento delle cose che vivono nel tempo: anche della Fede e della Speranza.
La stessa lettura della Commedia come libro profetico, come poema sacro dell’annuncio di tempi nuovi, si fonda sull’intervento di una conoscenza assoluta (eterna) contrapposta all’ignoranza di chi agisce nel contingente terreno (tempo). È questa che permette la costante sequela di profezie che si fanno trama sempre più fitta del racconto, man mano che ci si alza di cielo in cielo.
E già nelle profezie varie si manifesta la predisposizione, quasi l’ossessione dantesca di “quantificare” il tempo nella sua finitezza. Tutta l’opera è costellata da precise indicazioni di tempo, di volgere d’anni. Un esempio eccellente ed esaustivo è quello dei canti di Cacciaguida. Ma si tratta comunque di caratteristica costante, fin dai primi canti infernali.
Il momento più “clamoroso” e opportuno, nel discorso che vengo facendo, è però quello del canto XXVI del Paradiso, con l’intervento del
gran padre Adamo. Nella richiesta sull’età del mondo è implicito il concepimento di quella fine del mondo che anima, appunto, tante profezie dantesche, con il provvidenziale e definitivo intervento di Dio: complementari alle precisazioni di Adamo, in quest’ottica, sono gli immediati annunci di san Pietro (canto XXVII) e poi di Beatrice (e siamo già nell’Empireo, canto XXX).
E potremmo continuare a lungo. Ma il tempo concesso è breve. Ed è ora di vedere il tempo dal punto di vista di Dio, dal punto di vista dell’eternità, unica dimensione della verità. Il tempo che coincide con l’atto della creazione: canto XXIX, vv. 10-‐‑21.
Il tempo che porta con sé la morte. «Gran segreto è la vita, e nol comprende che ‘l momento estremo», dice l’Adelchi manzoniano mo-‐‑ rente. E Leopardi discanta: «A me, se di vecchiezza / la detestata so-‐‑ glia / evitar non impetro, / quando muti questi occhi all’altrui core, / e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro / del dì presente più noioso e tetro, / che parrà di tal voglia? / Che di quest’anni miei? Che di me stesso? / Ahi pentirommi, e spesso, / ma sconsolato, volgerommi indietro».
Misura primaria e fondamentale del tempo è la morte, la propria morte. E quindi la durata della vita, della propria vita. Questo è il con-‐‑ cetto che spira da tutta la nostra tradizione, non solo letteraria. Anche quando il senso della fine del tempo coinvolge e travolge l’intera storia umana, questa viene sempre riportata alla condizione indivi-‐‑ duale. Lo leggiamo in Foscolo, nel grandioso finale dei Sepolcri. Lo leggiamo anche e ancora in Leopardi, il più sensibile alla “globaliz-‐‑ zazione” del tempo per poi riportarla sempre alla propria esperienza esistenziale:
Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume.
Questa centralità dell’uomo, conquista definitiva della modernità, giunge fino a noi, fino al Novecento come una delle poche convinzioni e prospettive costanti che sopravvivano al relativismo delle conoscen-‐‑ ze. Convinzione inevitabile, ma a volte pericolosa, addirittura nefasta, quando porta a confondere il proprio tempo biologico con il tempo esterno e grande della Storia:
Capiscimi: nei miliardi dei secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte. E tutte le carne-‐‑ ficine e derive di continenti e scoppi di stelle sono soltanto canzonetta e commedia al confronto di questo minuscolo e irri-‐‑ petibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa non farei per ritar-‐‑ darlo di un attimo. La puttana, la spia, l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto.
così dichiara disperata la Marta di Bufalino, in Diceria dell’untore. Prendo a caso esempi comunque significativi. Il sogno del tenente Drogo di Buzzati. L’invecchiamento del principe di Salina. Il tempo dal punto di vista dell’uomo. Unico punto di vista possibile. Che coin-‐‑ volge e a volte travolge nel nichilismo i destini dell’intera umanità. Come se l’alternativa fosse solo la rimozione del tempo stesso.
Bene. Ma esiste anche il tempo dal punto di vista di Dio, quindi dal punto di vista dell’eternità e della verità. Ed è quello che Dante forni-‐‑ sce proprio dal Paradiso, dalla prospettiva alta in cui il mondo è ridotto alla lontana aiuola che ci rende tanto feroci.
Ci sono alcuni versi rivelatori, eppure trascurati dalla critica. Forse per la loro troppa evidenza, per cui ho il timore che il mio rilievo sia da attribuire più ad ingenuità che ad altro. In ogni caso: mi ha stupito percorrere i più noti commenti al testo dantesco, e notare l’assenza di un qualche cenno anche solo retoricamente denotativo. Siamo nel canto XVI. Il meno frequentato tra i canti di Cacciaguida, forse perché schiacciato fra le somme tensioni affettive, ideologiche e poetiche dei grandi classici canti XV della Firenze sobria e pudica e XVII della pro-‐‑ fezia ultima dell’esilio dantesco; forse perché apparentemente obso-‐‑ leto per il lungo elenco, la lunga rievocazione delle antiche famiglie fiorentine.
Qui Cacciaguida, prendendo a pretesto il decadere delle città, tro-‐‑ va parole folgoranti per definire la relatività delle cose umane, l’evi-‐‑ dente e fatale limitatezza del loro tempo (Paradiso XVI, 73-‐‑81):
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia come son ite e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, udir come le schiatte si disfanno non ti parrà nova cosa né forte, poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
Il tempo e l’eternità, dal punto di vista di Dio. Il punto di vista che appiattisce il tempo di tutto, annullato nella prospettiva dell’eternità. E che resta a noi come lampante lezione sulla relatività della nostra umana, troppo umana percezione del tempo.
Università degli Studi di Santiago de Compostela
MARIA CICALA
«DONNA È GENTIL NEL CIEL»: ITINERARIO
VERSO MARIA NELLA COMMEDIA
I.
“GEOGRAFIA” MARIANA NELLA C
OMMEDIADare avvio a una riflessione sull’itinerario di Dante a Maria nella Commedia comporta certamente un notevole disagio, dal momen-‐‑
to che molte, ovvero troppe sono le ottiche percorribili e per di più spesso si intersecano insidiosamente. Sembrerebbe certamente oppor-‐‑ tuno – cosa che ho tentato di fare – in prima istanza verificare, quantitativamente e qualitativamente (il «quanto» e il «quale»), e so-‐‑ prattutto con rigore sistematico, per evitare di ripetere genericamente cose ormai note a tutti, la presenza di Maria nella Commedia; ma già questa operazione, in apparenza semplicissima, non lo è poi tanto. Infatti subito si prende atto del particolare rapporto quantità-‐‑qualità, data la polivalenza1 delle singole occorrenze nella Commedia.
1 Boccaccio nelle Esposizioni parla di polisemia, non a torto visto ciò che Dante stesso suggerisce ai suoi lettori nel Convivio e nell’Epistola a Cangrande, dettando la plurivalen-‐‑ za della sua scrittura. Tra gli studi sull’argomento vd. in particolare il capitolo dedicato da VINCENZO PLACELLA a I presupposti biblici dell’esperienza cristiana e poetica di Dante: la
particolare valenza esistenziale e spirituale della tropologia e dell’anagogia, in «Guardando nel suo Figlio…». Saggi di esegesi dantesca, Napoli, Federico & Ardia 1990, pp. 63-‐‑124.
Nell’Esposizione allegorica a Inf. I (GIOVANNI BOCCACCIO, Esposizioni sopra la Comedìa, a
cura di Giorgio Padoan, Milano, Mondadori “Oscar classici” 1994 [1965¹], vol. 1, canto I (II), 18 e sgg.) Boccaccio definisce il «poema» dantesco un «libro poliseno [sic], cioè di più
sensi», in linea con l’Epistola a Cangrande, 20 («polisemos, hoc est plurium sensuum»), che –
suggerisce Padoan (ivi, vol. II, nota 18 al canto I (II), p. 788) – «tiene sotto gli occhi», avendola conosciuta però «priva della parte noncupativa». Dell’Epistola il certaldese omette il «sive anagogicus», annota Padoan (nota 19, ibid.), infatti parla di due sensi: «il primo […] chiamasi “litterale”, […]. Il secondo […] “allegorico” o vero “morale”» (BOCCACCIO, ivi, 18-‐‑19) e propone di conseguenza due tipi di Esposizione: litterale e alle-‐‑
gorica; ma mi sembra che di fatto egli lasci intuire cosa intenda per allegoria (una allegoria