III.4 Discussione dei risultati della ricerca
III.4.2 Ecco come ho affrontato la diagnosi, racconti di resilienza
Gli aspetti che incidono sulla reazione alla diagnosi sono influenzati da diversi fattori, quali appunto l’età, l’eziologia della malattia, il decorso, le reti familiari e sociali. In
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forza di ciò ogni agente intervistato è stato un portatore di esperienze con modalità differenti di rielaborazione dei vissuti, di significati connessi alla patologia, di espe- rienze significative94.
In modo particolare, durante le conduzioni dell’intervista, si è deciso di partire proprio dal momento della storia della diagnosi e della sua rielaborazione, focalizzando l’at- tenzione su due parole chiave: resilienza e normalizzazione. Dando voce e spazio a persone di sesso, età e patologie visive differenti è emerso come, un’esperienza co- mune possa tradursi in infinite risposte e reazioni che con uno strumento di rilevazione standard come il questionario non sarebbero certamente emerse. La resilienza in par- ticolare, il cui significato trae origine dalla capacità dei metalli di resistere a forze di- namiche (ovvero gli urti) rappresenta la capacità di ogni individuo, nella complessità che lo riguarda e lo coinvolge, di reagire davanti alle difficoltà. Boris Cyrulnik95, neu- ropsichiatra e psicanalista francese, rende bene il significato di questa parola attraverso una metafora, egli afferma che la resilienza è come l’azione di “risalire su una barca rovesciata”, restituendo al meglio il profondo significato di questa parola.
Chi si trova a doversi scontrare con il “buio” o con “l’oscurità” non ha scelta diversa, se non quella di affrontarli direttamente, attraverso un duro percorso di accettazione che passa per momenti difficili e di forte sofferenza. Nelle interviste, una signora cieca da appena un anno, parla con difficoltà della sua cecità paragonandola ad un lutto, ed auspicando ad una sua veloce rielaborazione. Come si vedrà più avanti, il tentativo di “razionalizzare l’irrazionalizzabile” è un processo ricorrente nei soggetti intervistati, che descrivono le loro emozioni di sofferenza come una fase, un duro momento prima dell’accettazione e della normalizzazione.
Il primo focus quindi, ha riguardato le capacità di resilienza dei soggetti intervistati, ossia come questi hanno reagito davanti ad un importante mutamento sensoriale, quale la perdita della vista. Dalle interviste emerge chiaramente che la reazione emozionale è intensa ed estremamente dolorosa e simile, sia a livello del vissuto soggettivo che
94 Da intendersi come riflessività. La sociologia fa derivare il concetto di riflessività dall’impostazione
fenomenologica di Husserl, rielaborata in seguito da Schutz. La riflessività come una facoltà individuale, una modalità attraverso la quale l’individuo guarda se stesso per capire il proprio comportamento. Ciò implica un distacco momentaneo dall’agire: è uno sguardo rivolto a se stessi e al passato ma, allo stesso tempo, il vissuto personale è significativo solo se lo sguardo riflessivo riesce ad inserirlo nell’insieme dell’esperienza. Cfr.
Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e una filosofica fenomenologia, Einaudi, Torino, 1965; Schutz A., Saggi Sociologici, Utet, Torino, 1979.
95 Malaguti E., Cyrulnik B., Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione
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del comportamento, a quella del lutto; il deficit visivo è vissuto come la perdita o la morte di una parte di sé che comporta dei nuovi adattamenti:
Intervista 5: “È stata una tragedia all’inizio, quando è venuto tutto buio. Mi sono anche messo a piangere non mi vergogno a dirlo, il buio è terribile, specialmente in età adulta. [..] finché riesco a percepire qualcosa mi posso muovere in casa, ma se mi venisse a mancare questa poca luce mi sentirei morire, sarebbe orribile!”.
In questo caso l’intervistato ha ancora un limitatissimo residuo visivo in un occhio, non sufficiente a renderlo autonomo. Tuttavia questo elemento “della percezione della luce” diventa centrale nell’affrontare la malattia, l’ipotesi di restare “al buio” è causa e motivo di forte sofferenza riportata da tutti i soggetti con un residuo visivo (anche minimo) che sono stati intervistati. Questo processo, come affermano anche Folkman e Lazarus96 è sicuramente introspettivo e si riferisce all’autopercezione del soggetto non vedente, alle ansie date dalla nuova situazione, alla limitazione dell’autonomia, alla paura e al rifiuto. In particolare, diventa difficile anche la relazione con i familiari o le persone più vicine, in alcune interviste infatti, la consapevolezza della progressiva perdita della vista è motivo di forte dolore o angoscia per Sé ma anche per gli altri, in modo particolare per i familiari, impotenti tanto quanto l’intervistata davanti alla ma- lattia:
Intervista 8: “E poi ovviamente c’è stato un periodo in cui ho incominciato a peggiorare. Era un problema di visione notturna che era già meno sospetto perché durante il giorno facevo le mie attività tranquillamente. E nell’avanzare dell’età che questa difficoltà notturna si è trasmessa anche al giorno e si è creata una difficoltà a delineare i contorni, sai le persone, le cose che vedevo. Ma il peggioramento più assoluto è arrivato dopo i 30 con tutti i problemi dell’accettazione nel senso che speri sempre che ci sia una cura, poi la diagnosi non è stata fatta subito anche perché io non volevo dire a casa questo aggravamento della vista per non far stare in pensiero i miei.”
Nei casi di ipovedenza grave invece, i margini di autonomia, essendo più ampi, ren- dono il momento della diagnosi quasi una liberazione. Dopo un primo momento nel quale si affronta il limite dato dal deficit visivo e si riesce a trovare nuovi equilibri, che supportano le azioni finalizzate a favorire l’autonomia, si ha la sensazione di non
96 Gli autori propongono un approccio che trae origine da strategie focalizzate sulle emozioni: il modo
in cui il paziente “legge” la propria condizione, la relazione tra fattori interni ed esterni, determina un progressivo cambiamento nell’immagine di Sé e nell’identità del soggetto che affronta una vera e propria “transizione di vita”.
Da Folkman S., Lazarus R.S, An Analysis of Coping in a Middle-Aged Community Sample, Journal of Health and Social Behavior, Vol. 21, No. 3 (1980), pp. 219-239.
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essere creduti o di non riuscire a far comprendere97 all’altro la propria sofferenza. Nella porzione di intervista seguente, la diagnosi rappresenta un riscatto rispetto alle ansie e paure di non essere riconosciuta:
Intervista 10: “La mia patologia l’ho battezzata a 59 anni, età in cui sono riuscita finalmente a darle un nome e un cognome. Era un po’ come se fossi stata per la prima volta in vita mia “legalizzata”! Ecco io infatti al medico gli dissi “me lo metta e per iscritto” e lui mi chiese il perché e io gli dissi “perché ho bisogno di averla scritta questa cosa qui!”, la sensazione di non essere riconosciuta e anche talvolta di non essere creduta, l’ho avuta sempre”.
Chiaramente, dopo questo primo momento di reazione alla diagnosi, in cui dopo di- verse fasi di accettazione, rifiuto o ansia depressiva, si devono necessariamente rista- bilire degli equilibri rispetto all’organizzazione della quotidianità e il rapporto con gli altri, l’intervistata (ipovisione grave in età adulta) ne è un esempio:
Intervista 7: “Non mi sono mai compatita, non mi sono mai… sono comportamenti che non fanno parte di me, capito? Quindi no. È come uno che ha una cicatrice piuttosto che uno che è claudicante, fa parte di me, io sono così. O uno prende il pacchetto o sennò va dall’altra parte, io così sono”.
Quello che emerge quindi, è che le malattie croniche e le disabilità invalidanti possono compromettere la visione del “sottomondo” dell’individuo malato: la comparsa dei primi sintomi pone l’individuo di fronte ad una realtà minacciosa e, soprattutto, sco- nosciuta che lo costringe a riformulare la percezione della propria identità e a ristrut- turare le relazioni con gli altri. L’autocontrollo e l’autorappresentazione del proprio corpo infatti, determinano in modo sostanziale la presenza dell’individuo in società e dunque l’acquisizione di un ruolo pubblico socialmente riconosciuto.
All’interno delle interviste inoltre, emerge come il fenomeno dei “viaggi della spe- ranza” (specialisti, ospedali, viaggi all’estero) è molto attivo nella prima e nella se- conda fase della malattia (rifiuto e non accettazione), ma che, in un secondo momento, subentrata la disabilità in maniera assoluta e definitiva, i percorsi terapeutici vengono sospesi o limitati alle visite di routine per il controllo delle protesi o di monitoraggio
97 Comprendere, nel suo significato latino, composto di “cum” (con) e “prehendere” (prendere).
L’etimologia della parola “Comprendere” ci rimanda al bisogno di approfondire la comprensione della malattia, il “prendere con Sé” le esperienze di sofferenza e i vissuti, di aprire le porte verso la Medicina Narrativa (mutuato dall’inglese Narrative Medicine) con cui si intende una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. La narrazione diventa così lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura).
Zannini L., Medical humanities e medicina narrativa: nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Cortina Editore, Milano, 2008.
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arrivando così ad un’accettazione, in cui il bisogno sanitario diventa progressivamente prevalentemente sociale e in cui ci si focalizza verso aspetti come l’orientamento, il supporto per imparare ad utilizzare gli ausili98.
È da questo momento che inizia la fase di normalizzazione, c’è chi scopre lentamente un nuovo equilibrio nel quale non riesce più ad immaginare la sua vita “da vedente”. Come, ad esempio, il caso di un giovane intervistato, ex pasticcere, che da adulto e non vedente a causa di una degenerazione retinica è diventato un ballerino professio- nista: interrogato sulla possibilità di mettere l’occhio bionico (e recuperare così parte della vista), dichiara di non averne bisogno perché la sua vita è unica così com’è, con la vista non sarebbe più lui.
O ancora, c’è chi si rifugia nella fede, trovando il sostegno e la forza per affrontare le difficoltà quotidiane:
Intervista 15: “[..] Ritengo di avere fede. Ora, il fatto che la mia fede sia forte o no, questo non so, però mi aiuta tantissimo sentirmi vicino al Signore la domenica e quindi questo mi aiuta un po’ a supe- rare i momenti di incertezza e quindi a superare i dubbi su cosa e come sarà insomma il domani”.
Ecco allora che i vissuti legati alla diagnosi, i processi che hanno favorito la normaliz- zazione di coloro che hanno perso la vista in età adulta e le variabili sociali, non pos- sono assolutamente essere trascurate. Rita Charon99 definisce la “normalizzazione” come il tentativo che opera il malato per cercare di mantenere più immutata possibile la sua vita quotidiana, rinegoziando le proprie relazioni sociali e familiari, al fine di superare la linea di demarcazione tra “illness”, ovvero il vissuto personale e psicolo- gico della malattia e “sickness”, legata invece al vissuto sociale della malattia. Alcuni disabili e malati cronici, infatti, si trovano a vivere uno stato di profonda e continua sofferenza, mentre altri invece sembrano attivarsi nei tentativi di normalizzazione del proprio stato e si dimostrano più autodeterminati e fiduciosi nel futuro.
Concludendo questa prima analisi sul vissuto della diagnosi e la successiva normaliz- zazione, quello che sembra emergere è un bisogno psico-sociale che segue quello sa- nitario. Per questo le azioni di prevenzione e cura per la patologia non possono disco- starsi da una presa in carico unitaria della persona non vedente, soprattutto in quel
98 V. paragrafo “III.4.5 Medici e servizi, un rapporto ambivalente”.
99 Charon R., Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness, Oxford University Press, New York,
2008.
Rita Charon R., Marcus E. R., The Principles and Practice of Narrative Medicine, Oxford University Press, New York, 2016.
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momento in cui è completamente assente ogni margine di recupero visivo e il bisogno diventa squisitamente sociale come vedremo nei paragrafi successivi.