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Reinterpretazione coerente con i quadri di riferimento concettuali

Prima di addentrarci nella parte conclusiva del lavoro si vorrebbe, nel presente para- grafo, inserire una serie di riflessioni col fine di reinterpretare la ricerca coerentemente con i riferimenti epistemologici proposti dall’Interazionismo Simbolico.

Come abbiamo premesso nel primo capitolo, è ad Herbert Blumer che dobbiamo la definizione di “Interazionismo Simbolico”, inserita all’interno del suo lavoro pubbli- cato nel 1937. All’interno di questo volume, dal titolo appunto, “Iterazionismo Sim- bolico”, egli riprende ed approfondisce i concetti già proposti da Mead e, in qualche modo, sposta il fulcro dell’analisi di Mead da un campo più prettamente psicologico e filosofico ad uno squisitamente sociologico: nella versione di Blumer il “Sé” è conce- pito non come una entità statica, ma come un processo, un continuo dialogo interiore che modifica costantemente l’Io, da intendersi come un principio attivo che interpreta la realtà in cui si imbatte e agisce in base a tale interpretazione.

Per comprendere meglio il senso di quanto sopra descritto, ci possiamo rifare ad un famosissimo sociologo contemporaneo, Zygmunt Bauman che utilizza il termine “Per- sona” nel senso in cui viene usato dall’Interazionismo simbolico, per cui è inteso nel senso di una maschera che ricopre un ruolo. L’identità di ogni individuo è la somma di tutti i ruoli che copre, per questo si parla solo di persone, cioè di attori che ricoprono ruoli. È inoltre importante l’atto morale che consente di incontrare l’altro non come persona/maschera, ma come volto, cioè nella sua vera identità e non nel ruolo. Con l’atto morale l’agente si abbandona ad una debolezza assoluta (essendo l’antitesi del

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potere o della sua logica, che è forza) perché viene riconosciuta all’altro la possibilità di comandare senza avere però il pieno controllo dell’Io.

Questa premessa, rivista alla luce delle evidenze sulla disabilità visiva, può essere rein- terpretata in maniera coerente con i riferimenti concettuali dell’Iterazionismo Simbo- lico grazie alla scelta di avvalersi dell’ausilio di una scuola anticonformista della so- ciologia attuale qual è la drammaturgia di Goffman.

La prima premessa Interazionista si basa sul principio fondamentale per cui le persone agiscono nei confronti di ciò che li circonda in relazione ai significati che gli eventi hanno per loro. I significati emersi in riferimento alla disabilità visiva conducono verso interpretazioni più disparate che riportano però alcune costanti. In modo particolare le testimonianze raccolte mostrano come ci siano “altri” da cui la persona non vedente si sente avvilita, bloccata, e “altri” da cui viene invece rassicurata. Maggiore è il rilievo che l’interlocutore assume agli occhi del soggetto e maggiore è la pregnanza di ciò che comunica; tenendo presente che qualsiasi messaggio ricevuto viene sempre interpre- tato da chi lo riceve, c’è una serie di azioni che fanno da “filtro” e cioè che rendono la persona non vedente o ipovedente più sensibile ai messaggi negativi piuttosto che a quelli positivi, a seconda dell’immagine che quest’ultima ha di Sé.

Durante le interviste sono emersi numerosi riferimenti all’auto-percezione dei soggetti intervistati rispetto alle interpretazioni degli “altri”:

- Il sentirsi inutili rispetto al nuovo “Io” non vedente nel lavoro di una vita, (che utilizzo si può fare ora di me?): “[..] il direttore disse “e io che ti faccio fare

ora?” e io gli dissi “tanto io non mi licenzio quindi bisogna che mi licenziate voi semmai!” e allora poi si trovò il modo di utilizzarmi anche perché imparai a far lavorare il computer al posto mio. [..]”.

- La paura di gestire autonomamente le finanze, in questo passo in particolare si coglie la paura “dell’altro” e il sentirsi indifesi “[..] dopo l’ultima volta in cui

mi hanno rubato sull’autobus i soldi con cui avrei dovuto pagare l’idraulico ho detto a mia figlia: io non voglio più gestire quattrini e roba del genere! [..]”

- Il confronto con gli altri ciechi, la paura del confronto con gli “altri”: “[..]

parlando con degli amici ciechi, effettivamente ci siamo resi conto che nessuno vuole avere a che fare con i ciechi. I ciechi diciamo, hanno troppo bisogno di aiuto, a differenza di altre persone. Ad esempio il mio amico a cui manca una gamba è più autonomo. Lui guida, lui legge, guida la macchina, e addirittura

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va in barca. Cosa che un cieco non può fare. Un cieco può solo ed esclusivamente ascoltare. [..]”.

- L’implicito senso di colpa, come se la mancanza della vista possa essere fonte di dolore per gli altri, che unito al senso di impotenza che genera sofferenza nell’intervistato: “[..] Quello che mi dispiace è appunto far soffrire le persone

che ho vicine e non poter fare nulla per gli altri”.

- Il cercare di avere una relazione “normale” con l’altro: “[..] perché io penso a

come ci si fa vedere all’esterno, cioè che comunque siamo felici, perché la vita è bella comunque sia, e viverla. Io penso che anche le altre persone che non sanno come rapportarsi a noi dall’esterno si aprono e quindi c’è una relazione normalissima, se si può parlare di normalità”.

- La possibilità di trovare sostegno da persone che hanno una certa influenza migliora l’approccio alla malattia: “[..] è tutta una elaborazione e quindi grazie

anche al presidente dell’associazione che è una grande forza, mi sta spingendo: “ah ma te che hai una forza e una grande potenzialità ti devi impegnare” perché ti dirò, io ho una limitazione, a volte penso a come gestirmi autonomamente e l’utilizzo del bastone a me fa paura”.

Da queste brevi perifrasi tratte da alcune interviste, è stato evidenziato come i signifi- cati attribuiti alla disabilità ed alla sua gestione quotidiana, sono il frutto dell’intera- zione che l’individuo ha con i suoi simili e dai significati che emergono da essa, come affermato anche dal secondo principio dell’Interazionismo. Chiaramente questi ele- menti vengono elaborati e trasformati in un processo interpretativo, che si verifica ogniqualvolta il soggetto non vedente deve affrontare gli ostacoli o gli avvenimenti in cui si imbatte, come ad esempio il comunicare la propria sofferenza alla famiglia. La scelta di riprendere la scuola drammaturgica di Goffman, non è stata casuale, anzi, tra la vita quotidiana e il teatro vi sono notevoli analogie: per apparire agli altri come desiderano, gli individui indossano maschere e mettono in atto strategie drammaturgi- che per evidenziare ciò che vogliono mostrare e nascondere quello che deve restare celato. Per quanto i deficit visivi possano sembrare qualcosa di lampante, -il bastone bianco, gli occhiali scuri, il cane da guida sono una chiara esplicazione del fatto che ci troviamo davanti una persona cieca o ipovedente-, capita spesso che chi ha una disa- bilità visiva (specie nei casi di ipovisione) desidera che gli altri non se ne rendano conto, cercando di occultarla o lasciarla nello sfondo. Queste sono le parole di una signora ipovedente durante le interviste:

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Intervista 14: “[..] l’Ipovisione è una cosa che chi ti vede da lontano o da vicino, o anche chi ti vede

camminare e chi ti vede vivere, non si rende conto di quello che hai; perché quando una persona è ipovedente si cerca sempre di non farlo vedere agli altri. Cioè si escogitano tutta una serie di meccani- smi tali per cui la persona ipovedente, cioè io per lo meno l’ho sempre fatto, ho sempre cercato di non far trapelare questa mia difficoltà.

Intervistatrice: ad esempio?

F65: ad esempio attraverso la strada col semaforo quando passano tutti. Non è detto che io realmente veda il semaforo. E poi… ecco questa è bellina, io non conosco i colori, non ho termini di paragone sui colori perché non li ho mai visti e quindi non so di forza re come vedo bianco e nero, però li ho concet- tualizzati per cui so che il nero sul blu non va bene (anche se oggi so che va di moda anche questo e quindi non è più vero nulla di quello che ho imparato). Però ecco io so cosa è il marrone, cosa è l’arancione, so cosa è il rosso, non lo conosco ma so cosa è. il rosso è calore, è. L’arancione è una cosa tra il rosso e il giallo, ecco insomma, io in questa maniera do parecchio l’impressione… Ecco mi na- scondo parecchio dietro questa cosa qui, se uno non lo sa non se ne accorge [..]”.

Capitano però altri casi in cui, a seconda delle circostanze, può essere utile mostrarla e sottolinearla, come nel caso di un’altra intervista in cui ci viene raccontato come il bastone bianco rappresenta un prezioso strumento che, richiamando la sensibilità di chi sta intorno, riesce a far ottenere aiuto e attenzioni fondamentali a chi si muove autonomamente per la città. Quello che è stato costruito attraverso le interviste è un ponte speciale con il mondo dei deficit visivi, dapprima parzialmente sconosciuto o alimentato da false rappresentazioni. La disabilità visiva non ha incorporata al proprio interno il concetto di “disabile bisognoso di aiuto”, ma acquisisce il senso che noi le attribuiamo. Un signore racconta che non appena persa la vista odiava tutte le atten- zioni che gli venivano date da amici e parenti, per lui il sentirsi compatito era elemento di forte disagio che gli causava forte sofferenza e senso di inadeguatezza. Oggi, alla luce di un vissuto che lo ha portato a diventare, nonostante le difficoltà visive, il diret- tore di un noto teatro, riconosce l’utilità dell’altro e l’importanza del saper chiedere aiuto, riconoscendo in questi due elementi un importante fattore che lo ha reso, ripren- dendo le sue stesse parole “una persona migliore”.

Infine, riprendendo anche quest’ultimo racconto, i significati connessi alle esperienze di chi ha un deficit visivo, possono cambiare. Impossibile allora non notare come il modificarsi dei significati connessi a certe esperienze (come la perdita di un senso quale la vista) è strettamente legato al mutare dei termini con cui lo si indica: nono- stante le divergenze date dai differenti vissuti, nelle interviste è emerso un orienta-

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mento condiviso, sembra esserci un rifiuto verso la parola “Handicappato”, si ricono- sce di avere un handicap ma la personalità non si esaurisce in essa. Un intervistato osserva:

Intervista 9: “Bisogna sempre anteporre la persona alle sue difficoltà. Un giorno mi trovavo ad un

mercatino di natale, in centro a [omissis], e sentii che una disse, pensando che io non la sentivo “Quel cieco riesce a muoversi come se vedesse”, eppure quelle parole mi... mi rimasero impresse ecco, io per gli altri ero solo un cieco capace di muoversi, non una persona che aveva il piacere di fare una passeg- giata nonostante le difficoltà”.

Nelle parole riportate emerge un concetto centrale, legato alle interpretazioni di un vissuto che ritorna anche in altre interviste: mentre la persona viene assimilata alla sua menomazione e tutto il resto passa in secondo piano, ciò che l’intervistato cerca di evidenziare è che l’handicap è uno degli aspetti, ma la sua persona non si esaurisce in questo, va oltre. Ecco allora che Goffman, il teorico dello stigma, diventa strategico nella riflessione sui processi di stigmatizzazione delle persone non vedenti. Infatti sep- pure oggi è sufficiente un click per ricevere numerose informazioni, nel senso comune poco si sa sul mondo della disabilità visiva e la maggior parte delle informazioni sono legate a pregiudizi spesso infondati, elemento che emerge anche dai racconti degli in- tervistati. Questi ultimi si vedono ancora associati allo stereotipo della persona che indossa occhiali scuri, che cammina accompagnata da un cane o col bastone bianco, o che si accompagna a qualcuno e che quindi deve essere un soggetto da compatire bi- sognoso della clemenza altrui. Per quanto questi elementi possano parzialmente essere parte della quotidianità delle persone che hanno disabilità visiva, è vero anche che spesso questi stessi elementi sono fonte di esclusione e di discriminazione. I racconti parlano chiaro: quando ci si imbatte in una persona non vedente difficilmente si parla rivolgendosi direttamente a questa, ma se c’è una terza persona si parla con l’accom- pagnatore come se fosse il “mediatore della conversazione”. Camminando per strada poi, se un cieco o un ipovedente si avvale dell’utilizzo del bastone bianco, deve sentire i più assurdi consigli come quello di fare attenzione e non muoversi da solo per evitare “ulteriori problemi”, o ancora i commenti più disparati come le preghiere ai santi, le invocazioni, o i consigli più impraticabili.

A tutto ciò si sono aggiunte poi le numerose inchieste pubbliche, servizi televisivi o articoli di giornale (come la terrificante inchiesta del marzo 2011 intitolata “Scrocconi d’Italia), che a più riprese hanno raccontato le scoperte di falsi ciechi in tutta Italia,

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spesso riprendendo persone (affette da ipovisione, malattie rare, cecità parziale) svol- gendo le più svariate attività quotidiane, e quindi condannandole, senza una adeguata informazione che spiegasse le differenze, oggi ancora sconosciute ai più, tra cecità e ipovisione e i rispettivi margini di autonomia, facendo ancora emergere l’idea comune del cieco come persona immobile e incapace di gestirsi autonomamente.

Soprattutto nel caso della cecità, il prodotto di questa “caccia alle streghe” condotta verso i falsi ciechi, ha danneggiato i veri ciechi che, anche da esponenti politici di spicco sono stati definiti “parassiti”, “rami secchi dell’economia”, o addirittura “sog- getti privilegiati”.

Intervista 9: “La mia abilità con l’auto era tale che io essendo ipovedente ad un occhio, ma non vedente in un altro, riuscivo a percepire qualcosa e quindi riuscivo a parcheggiare l’automobile in retromarcia (sempre sotto casa eh!). Cosa che persino mia moglie si stupiva perché lei con due occhi e due braccia non riusciva. Addirittura qui sotto casa, quando mia moglie aveva difficoltà a parcheggiare, io riuscivo nonostante il deficit, a mettere bene l’auto. Eravamo e siamo soli, come dovevo fare! E quindi addirittura una signora che non credeva alla mia cecità voleva denunciarmi, per vendicarsi perché avevo chiesto la piazzola per i disabili, che mi era stata concessa, e lei si lamentava perché le era stato tolto uno stallo blu. Quindi lei non credeva che io non avessi la vista. Erano pochi metri, ma la mia era solo abilità! Riuscirei anche ora che sono completamente cieco!”110

Possiamo dire quindi, che la stigmatizzazione condotta dai media negli ultimi anni, ha prodotto e amplificato una cattiva informazione nella cittadinanza che ha leso la di- gnità dei disabili visivi e delle loro famiglie che, in molti casi, sono stati privati delle indennità loro spettanti e dei già pochi servizi cui avevano diritto. Il prodotto conclu- sivo è stato un clima di sospetto che deve essere combattuto attraverso campagne in- formative e la sensibilizzazione della popolazione, in quanto, ancora oggi purtroppo, fa più notizia la scoperta di un falso cieco piuttosto che le vere e proprie odissee che centinaia di veri ciechi assoluti e parziali, e le loro famiglie, sono costretti a subire per far valere i propri diritti ed essere inclusi pienamente nella società.

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IV CAPITOLO

CONCLUSIONI