UNIVERSITÀ DI PISA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea in Sociologia e Management dei Servizi
Sociali
Classe LM-87
TESI DI LAUREA
L’ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI
Una ricerca empirica sulla disabilità visiva in età adulta
CANDIDATA
RELATRICE
Dott.ssa Ilaria Concu
Prof.ssa Rita Biancheri
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Sommario
Sommario ... 1
I.1 Sottomondi sconosciuti e ospiti che li abitano, la fondamentale importanza della teoria ... 8
I.2 L'Interazionismo Simbolico come metodologia di ricerca ... 10
I.3 Gli strumenti qualitativi ... 12
I.4 L'intervista non strutturata ... 13
I.5 In conclusione: perché le metodologie qualitative ... 15
II.1 Un’introduzione al capitolo ... 17
II.2 Definire la disabilità ... 18
II.3. Dalla definizione di Cecità e Ipovisione alle principali cause di insorgenza ... 20
II.3.1 Cenni di fisiologia dell'occhio ... 22
II.3.2 La miopia degenerativa ... 23
II.3.3 Retinopatia diabetica ... 24
II.3.4 Il Glaucoma ... 25
II.3.5 Le degenerazioni retiniche ... 26
II.3.6 Il distacco di retina e cecità dovuta a traumi ... 27
II.4 Diventare ciechi in età adulta ... 28
II.4.1 Deficit visivo e senilità ... 31
II.5 Deficit visivo e disuguaglianze sociali di salute in Italia ... 33
II.6 Ausili e strumenti a supporto dei disabili visivi ... 34
III.1 Scopi del progetto e interrogativi che hanno guidato la ricerca ... 38
III.2 Rendere operativa la ricerca: il metodo ... 40
III.2.1 Raccontare chi si racconta: l’intervista semi strutturata ... 42
III.2.2 Dall’intervista alle variabili ... 44
III.3 L’utilizzo di RQDA: i memos e i codici come fondamentale strumento di analisi ... 50
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III.4 Discussione dei risultati della ricerca ... 52
III.4.1 Variabilità del campione: il deficit visivo in età adulta ... 53
III.4.2 Ecco come ho affrontato la diagnosi, racconti di resilienza ... 55
III.4.3 Sono un “peso”? Il ruolo strategico della famiglia ... 60
II.4.4 La dimensione di genere, essere donna e non vedente: ecco come mi percepisco ... 63
III.4.5 Medici e servizi, un rapporto ambivalente ... 66
III.5 Reinterpretazione coerente con i quadri di riferimento concettuali ... 70
IV.1 Riassunto obiettivi, strumenti, risultati raggiunti/attesi ... 76
IV.2 Bilancio del lavoro svolto e contributo offerto dal lavoro al dibattito scientifico ... 77
IV.3 Conclusioni ... 78
Appendice A – Traccia dell’intervista ... 80
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A mamma e papà,
esempio e fonte di amore inesauribile,
Grazie.
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La cecità dell’anima
Una notte ho sognato un bambino, da solo giocava in mezzo al prato. Aveva gli occhi chiusi, sfiorava i petali. Mi chiese: “Come sono questi fiori?” “Belli” gli risposi. “Perché sono belli?”, mi guardava con gli occhi chiusi e mi sentii stringere il cuore. “Perché sono colorati di giallo, rosso, verde e blu” risposi. “E com’è il giallo? Il rosso? Il verde? Il blu?” mi chiese, mi guardava con gli occhi chiusi e mi sentii mancare il fiato. “Non lo so” risposi. “Te lo spiego io” mi disse. Con gli occhi chiusi si avvicinò a me, mi fece sedere. Mi chiuse gli occhi, mi accarezzò, mi baciò, mi abbracciò. Con gli occhi chiusi, sorrideva. La mattina mi svegliai e mi accorsi che avevo gli occhi ancora chiusi. Provai ad aprirli, ma non ci riuscii. Provai ad immaginare, ma non ci riuscii. Con gli occhi chiusi non ho ancora imparato a sorridere.
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Introduzione
Il cieco muove il suo bastone bianco come a misurare la temperatura dell’indifferenza umana. (Ramón Gómez de la Serna)
C
on il nome Omero (in greco antico: Ὅμηρος, Hómēros) la letteratura antica identi-fica lo scrittore per antonomasia, l'autore dell'Iliade e dell'Odissea, i più noti e massimi poemi epici della letteratura greca. Omero rappresenta un personaggio tanto misterioso quanto affascinante la cui esistenza è dubbia e impregnata di mistero: tutto ciò che sappiamo su di lui lo dobbiamo alle tradizioni orali o a fonti incerte, tanto è vero che grandi dibattiti tra gli studiosi hanno portato alla nascita della nota “Questione Ome-rica”.Eppure ciò che è interessante in questa sede non è tanto dimostrare se realmente Omero sia esistito o se è legittimo attribuirgli la paternità dei due poemi, quanto, piuttosto, l'analisi semantica del suo nome il cui significato rimanda ad una caratteristica fisica dell'autore: ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn) significa letteralmente "colui che non vede", ma anche ὅμηρος (hómēros) "l'ostaggio", "pegno", ossia "il cieco" inteso come "persona che si accompagna a qualcuno", da ὁμοῦ ἔρχομαι (homû érchomai), "vado insieme". La tradizione classica voleva quindi Omero cieco, una caratteristica che per i greci godeva di un significato ben preciso: la cecità infatti aveva una connotazione sacrale e spesso era simbolo di doti profetiche e di profonda saggezza; la mancanza della vista, secondo la tradizione, era colmata dall'ispirazione proveniente dalle Muse che guida-vano i poeti nella stesura di versi che narraguida-vano gesta sovrumane di eroi leggendari. La storia antica ci insegna dunque che una menomazione fisica non necessariamente rappresentava un limite fonte di emarginazione o isolamento, ma che, al contrario, la disabilità visiva poteva trovare uno spazio e dei significati nuovi che rendevano il “di-verso” speciale e, talvolta, anche sacro.
Le società antiche difatti, erano profondamente dissimili rispetto alla società occiden-tale in cui i significati dietro le disabilità visive sono incredibilmente cambiati: è tan-gibile nella quotidianità di tutti cogliere come, negli anni della società videocratica, il cieco o l'ipovedente vive un forte disagio in cui deve ridefinire non solo il suo rapporto
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col mondo, ma anche i significati e il suo “Esserci” (Dasein) per riprendere Heideg-ger.1
In forza delle presenti considerazioni nasce questo lavoro, il cui fine è quello di arric-chire i contributi che hanno studiato le conseguenze psicologiche e relazionali corre-late alla presenza di patologie visive. È noto infatti che gli studi e le ricerche che si occupano dell'influenza della disabilità visiva sulla qualità della vita sono molto esi-gue, seppure, al contrario, numerose evidenze mettono in luce come queste incidano notevolmente sulla quotidianità di quanti ne sono affetti.
In particolare non si può non considerare il ruolo di primaria importanza della dimen-sione visiva nelle relazioni interpersonali e come una sua (seppure parziale) compro-missione, determini la mobilitazione di risorse alternative non solo nel disabile, ma anche all'interno della famiglia. L'incertezza emotiva causata dal carattere degenera-tivo della patologia in particolare, produce spesso uno stato che rende difficoltosa la progettualità esistenziale del disabile e dei suoi familiari e per questo aspetti pretta-mente sanitari come il canale visivo lesionato, l'eziologia delle malattie, il carattere degenerativo, incidono sul ménage familiare con delle ripercussioni sociali che questo lavoro vorrebbe analizzare, mettendo in evidenza i vissuti esperienziali di chi contrae la malattia in età adulta e dunque deve completamente riorganizzare la sua vita. La tesi sarà articolata su tre fasi principali che rappresentano la metodologia di lavoro: una prima parte introduttiva all'interno della quale sarà esplorato il quadro concettuale di riferimento, che consiste in una rassegna della letteratura sulla disabilità visiva, col fine di illustrare le argomentazioni teoriche alla base della ricerca adottando però una prospettiva multidisciplinare che favorisca un sincretismo dei saperi scientifici e una comprensione approfondita degli argomenti trattati.
La seconda parte rappresenta invece la fase operativa in cui verrà illustrato il disegno della ricerca e in cui verranno descritti gli scopi del progetto e gli interrogativi che hanno guidato l’indagine, con un'attenzione particolare alle fonti dei dati, alle variabili analizzate e alle tecniche utilizzate. Infine, la parte conclusiva, è suddivisa in ulteriori due momenti: l'analisi dei risultati e le conclusioni, da intendersi come un bilancio conclusivo del lavoro svolto. Il primo discuterà i risultati ottenuti coerentemente con i quadri di riferimento concettuali individuati nella rassegna della letteratura, il secondo invece sarà un bilancio di comparazione tra i risultati raggiunti e quelli attesi, verrà
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posto un particolare focus sui limiti e le possibilità di sviluppo, in quanto, l'intento conclusivo è quello di è far luce sul ruolo delle reti familiari e sociali, evidenziando la loro capacità di veicolare risorse strategiche sotto forma di beni materiali e servizi di conoscenza e informazioni, finalizzati a garantire un supporto alle menomazioni visive subentrate in età adulta.
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I CAPITOLO
FERMARSI A RIFLETTERE
I.1 Sottomondi sconosciuti e ospiti che li abitano, la
fondamentale importanza della teoria
In qualsiasi ricerca sociale il metodo è basilare, rappresenta la garanzia, l'ancora con-cettuale che garantisce piena scientificità al lavoro svolto.
Ma all'interno delle scienze umane2, è possibile ottenere un sapere assoluto e sempre verificabile? No, e la vera grande difficoltà dello scienziato sociale è proprio questa, comprendere la complessità umana. Ecco perché, sempre più spesso, il paradigma scientifico del sapere ricondotto a leggi sempre verificabili, viene messo in discus-sione, soprattutto da quelle scienze che si occupano dell'irriducibile a leggi universali per antonomasia: l'uomo. La pluralità che avvolge i comportamenti umani richiede un nuovo approccio che abbandona i tradizionali metodi galileiani e si apre ad un sincre-tismo di saperi e metodi non convenzionali che cercano di scomporre la complessità per comprenderla e analizzarla senza la pretesa di ridurla a leggi universali e sempre valide.
Possiamo immaginare questo nuovo metodo come degli occhiali appena confezionati che mostrano una realtà visibile a tutti ma che permettono di guardare dettagli nuovi e inattesi. Ecco allora che, con uno sforzo teorico molto grande, bisogna abbandonare le tradizionali forme del sapere per aprirsi ad un modello teorico e interpretativo funzio-nale a questo lavoro di ricerca, l'Interazionismo Simbolico. Tale corrente di pensiero è stata decisiva all'interno di questo studio, il cui obiettivo è stato quello di analizzare le conseguenze della disabilità visiva contratta in età adulta, poiché mette in evidenza le modalità con cui gli individui definiscono se stessi e la realtà di cui hanno espe-rienza. Esattamente come un sottomondo sconosciuto porta alla luce nuove pratiche, le ricerche che seguono questo orientamento non utilizzano le metodologie standard (questionari, metodi statistici etc.) ma si aprono a strumenti flessibili e non uniformi
2 Intendendo con questo termine le scienze che si interrogano sulla vera natura dell'uomo e dei suoi
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come le interviste non direttive, le storie di vita, l'osservazione e tutto ciò che è fina-lizzato a produrre una narrazione.
L'idea di fondo di questo lavoro è quella di investigare sul vissuto esperienziale e il ruolo della famiglia nelle disabilità visive contratte in età adulta, e, proprio per questo, il tentativo è stato quello di aprirsi alle esperienze di chi le vive, utilizzando i significati e le narrazioni per produrre conoscenza e comprendere meglio cosa significa essere ciechi da adulti e dover riorganizzare la propria vita.
Spesso la persona non vedente deve darsi delle nuove interpretazioni con cui ridefinire se stesso e la ridefinizione porta ovviamente con sé un carico emotivo che non può e non deve passare in secondo piano. Blumer, padre dell'Interazionismo Simbolico, mette in luce come l'individuo non assimila passivamente le definizioni che riceve dall'esterno, ma le rielabora, criticandole, modificandole o rifiutandole. Ecco allora che tutte le tecniche connesse con l'Interazionismo permettono di dare voce a persone che in genere non vengono ascoltate. Guardare nuovi elementi connessi ai vissuti espe-rienziali rende evidenti cose che si era abituati a non vedere, mettendo così in crisi tutte le certezze intese come realtà date per scontato.
L'esempio più ovvio è quello presente nell'introduzione a questo lavoro, Omero che nonostante la cecità aveva il dono dell'ispirazione delle muse, ci insegna che determi-nate caratteristiche fisiche o mentali considerate “handicap” in una data cultura pos-sono non esserlo altrove e questo perché la “disabilità” in sé non esiste ma è sempre socialmente costruita, detto in altri termini, è il frutto di una definizione.
In forza di quanto segnalato diventa quasi scontato e automatico domandarsi come si formano queste definizioni e le risposte le troviamo all'interno dei tre principi messi in luce da Blumer3:
1. Gli individui non reagiscono automaticamente agli stimoli ma prima di agire li interpretano e li definiscono.
2. Le definizioni vengono apprese dall'iterazione con gli altri e pertanto non sono né innate e né incorporate nei soggetti.
3. Gli individui non assimilano passivamente le definizioni ma le elaborano, pos-sono criticarle e pospos-sono anche modificarle.
Spesso il portatore di handicap viene definito come diverso o deviante rispetto alla norma e per questo stigmatizzato, nel suo noto lavoro Goffman4 definisce lo stigma
3 H. Blumer, Interazionismo Simbolico, Il Mulino, Milano, 2008 4 E. Goffman, Stigma. L'identità negata, Giuffrè, Milano, 1983.
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come il marchio di infamia che colpisce chi non è all'altezza degli standard di norma-lità condivisa. Perciò se la cecità viene considerata come una deviazione non deside-rabile rispetto alla norma, il portatore di questo handicap viene colpito da stigma e subisce forme di discriminazione.
Queste premesse ci mostrano in che modo adottare l'approccio Interazionista significa avere un solido ancoraggio concettuale che consente di comprendere come nessuna persona è intrinsecamente disabile, ma che qualsiasi definizione varia a seconda degli attori che interpretano e definiscono.
Una volta chiarita l'importanza dei modelli teorici si analizzerà nel dettaglio l'Intera-zionismo Simbolico in relazione agli obiettivi della ricerca.
I.2 L'Interazionismo Simbolico come metodologia di ricerca
Quando si parla di qualsiasi tipo di disabilità si è spesso abituati a quantificarla in termini puramente quantitativi: quali sono i principali fattori di rischio? Quali inter-venti è possibile mettere in campo per contrastare il problema? Quale percentuale di popolazione è coinvolta? Altrettanto frequentemente si parla di interventi che possono prevenire l'insorgenza di determinate patologie, di barriere architettoniche e ausili per il disabile. Al contrario, raramente si parla di barriere culturali, stigma o di risorse prettamente sociali (il sostegno della famiglia, il ruolo del caregiver, il potenziale delle associazioni di volontariato etc).
L'idea positivista per cui l'unico modo per costruire il quadro di un problema sia la raccolta di informazioni fattuali attraverso strumenti quantitativi ha impregnato anche il senso comune. Fortunatamente però, anche all'interno della comunità scientifica ci sono stati diversi tentativi di liberarsi da questa egemonia scientista attraverso nuove metodologie tese a svelare come, per avere una cultura altra, che non sia una mera raccolta di dati e informazioni finalizzata a produrre conoscenza, occorre squarciare il velo di Zeno e aprirsi ad altre informazioni strettamente qualitative con le quali si pos-sono esplorare aspetti nuovi come la resilienza, la normalizzazione, i processi di ac-cettazione o di rifiuto della malattia, le dinamiche familiari, insomma, tutto ciò che ha a che vedere con i significati che le persone attribuiscono ai loro vissuti.
Così, per riuscire a produrre questo nuovo sapere strettamente qualitativo, anche ai fini della ricerca che verrà presentata, occorre sollecitare i soggetti intervistati a raccontarsi
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e a raccontare aspetti della loro vita quotidiana che attraverso una metodologia stan-dard non sarebbero emersi.
In tal modo, nell'esplorazione di questi nuovi mondi sommersi, diventa di vitale im-portanza l'Interazionismo Simbolico che trova le sue fondamenta nella Fenomenologia e che ha come massimo esponente Herbert Blumer, il quale, allievo di Mead, riprese le teorie del suo maestro sulla “Socialità del Sé”5 per rielaborarle in una sofisticata critica agli approcci quantitativi.
Secondo Blumer infatti, la ricerca sociale deve essere strettamente legata al punto di vista del soggetto intervistato e ad una metodologia flessibile, capace di correggersi in itinere e di utilizzare gli strumenti qualitativi più disparati (narrazioni, storie di vita, interviste non strutturate). Questo approccio rivoluzionario innova completamente il rapporto intervistatore/intervistato: accettare che i soggetti indagati non sono portatori di informazioni “oggettivamente” rilevate dal ricercatore implica che l'informazione viene negoziata e, dunque, svela la natura interattiva della ricerca, da intendersi come un processo di costruzione della conoscenza che avviene nel contesto di una relazione tra ricercatore e attori sociali coinvolti. Detto in altri termini, si passa dalla raccolta sterile di informazioni, ad una più feconda interpretazione di ciò che viene raccontato in cui il ricercatore è chiamato a mettere in prima linea anche la sua esperienza; non è un caso infatti se una delle principali critiche che vengono mosse nei confronti dell'In-terazionismo Simbolico è legata ai rischi dell'accogliere acriticamente il punto di vista dei soggetti senza riuscire ad analizzarlo, ma, col fine di scongiurare questo rischio ci viene incontro Blumer6 con quelli che egli chiama “Concetti Sensibilizzanti”7 che con-sentono al ricercatore di non conformarsi alla realtà di coloro che studia.
Infine, un altro elemento significativo è che l'Interazionismo Simbolico esclude tutti gli aspetti della società che pur avendo avuto origine dall'interazione hanno poi assunto carattere di autonomia rispetto alle scelte del singolo (es. le grandi istituzioni bancarie, economiche, istituzioni governative etc.) gli Interazionisti infatti, non sembrano nem-meno preoccuparsi dei condizionamenti storico-sociali. Per quanto riguarda invece il suo sviluppo in particolare, l’Interazionismo ha avuto due momenti di auge in periodi
5 Mead G. H, La socialità del Sé, (tr. it. a cura di R.Rauty), Armando Editore, Roma, 2011.
Mead G. H., Mente sé e società, Giunti Editore, Milano, 2010.
6 Blumer H., Symbolic Interactionism. Perspective and Method, University of California Press,
Berke-ley, 1969.
7 Venturini R., Blumer e il problema dei concetti nelle scienze sociali, Published by PLUS, Pisa
University Press, in Volume No. 2 of the Proceedings of the International Symposium held in Pisa in June of 2010 on Symbolic Interactionism.
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diversi: il primo, con Mead e gli altri autori appartenenti alla Scuola di Chicago (primi decenni del ‘900 in cui la prospettiva resa era particolarmente idonea allo studio dei problemi che travagliavano Chicago in quel periodo); il secondo, negli ultimi decenni del secolo, in corrispondenza alla crisi della teoria funzionalistica e sotto l’influenza dello stato del benessere che richiedeva alle scienze sociali di sottolineare l’importanza del “mondo privato”. Ciò dimostra, seppur come ipotesi, che anche l’Interazionismo, nonostante il suo carattere formale e astorico, si pone al di fuori dei condizionamenti storico-sociali.
I.3 Gli strumenti qualitativi
La ricerca qualitativa è spesso oggetto di forte critica da parte dei contestatori dell'ap-proccio “non standard” poiché mediante questo genere di indagine non si ottengono conoscenze “oggettive e generalizzabili”, presupposto indispensabile di ogni ricerca standard. Definire una ricerca “oggettiva” significa che il prodotto conclusivo del la-voro non deve contenere valutazioni o conoscenze degli studiosi che le elaborano, mentre per “generalizzabile” si intende che i risultati di una ricerca su un dato oggetto possono essere estesi allo stesso fenomeno o a fenomeni simili in un contesto spazio-temporale più ampio. Ma come abbiamo già avuto modo di evidenziare, per il ricerca-tore qualitativo l'insieme del sapere personale, esperienza, empatia, non solo è ineli-minabile, ma costituisce un’importante risorsa ermeneutica; a tutto ciò non si può non integrare ciò che rivelano recenti filoni di ricerca di cui Polany8 fu il precursore e che evidenziano come anche all'interno dell'approccio quantitativo si fa uso di conoscenze personali di cui il ricercatore è più o meno consapevole, Campelli9 afferma che:
“È irreale la rappresentazione degli strumenti standardizzati come capaci di sfuggire completamente, per definizione, ai rischi dell'interazione [..] Le opinioni di un intervistato sono qualcosa che accade nel corso della situazione di intervista con questionario”.
Non è un caso infatti che la riflessione epistemologica che si è sviluppata negli ultimi anni ha reso evidente come, chi scrive il report della ricerca interpreta, elabora, sele-ziona le informazioni rendendole una narrazione attraverso la quale tenta di costruire
8Per ulteriori approfondimenti sul tema si rimanda a:
Polany M., Personal Knowlwdge. Toward Post-Critical Philosophy, Routledge & Kegan Paul, London, 1958.
Polany M., “The Unaccountable Element in Science”, in Philosophy, n.37, 1962, pp. 1-14. Polany M., “The Logical of Tacit Inference”, in Philosophy, 41, pp.369-386, 1966.
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in modo convincente e plausibile la sua interpretazione dei fatti. Per quanto riguarda invece la generalizzabilità dei risultati, afferma Marradi10 riferendosi ai risultati di ri-cerca nelle scienze umane:
“Gli oggetti di molte scienze fisiche possiedono una caratteristica che non hanno gli oggetti delle scienze umane: sono fungibili, cioè si può dare per scontato che gli oggetti dello stesso tipo reagiscano sempre nello stesso modo e nelle stesse condizioni.”
Inoltre, lo stesso autore mette in evidenza come i concetti di rappresentatività statistica di un campione così come viene inteso nelle scienze sociali e nel senso comune, sol-levano innumerevoli dubbi11; in genere, l'analisi di ricerche non standard propone l'u-tilizzo di tipi ideali, classificazioni, tipologie che hanno una valenza generalizzante molto limitata a causa del ridotto numero del campione. Il gruppo di soggetti viene selezionato individuando nel campione coloro che possono contribuire meglio ad ac-crescere le conoscenze sul tema e, per questo, è il vissuto che diventa protagonista attraverso l'espressione di orientamenti e comportamenti che appartengono a più vaste categorie di persone che si inseriscono all'interno di gruppi sociali definiti, o come nel caso del presente lavoro, che presentano problemi specifici, senza la pretesa di gene-ralizzazioni indebite. Infine, come sottolinea Bertaux12 con il suo criterio della satura-zione, il ricercatore (spesso inconsapevolmente) smette di interrogare i soggetti quando ritiene che le ultime interviste non contribuiscano ad arricchire ciò che già è stato elaborato.13
I.4 L'intervista non strutturata
Tra i vari strumenti di lavoro l'intervista non strutturata è quella più peculiare e che caratterizza maggiormente gli approcci non standard. Riprendendo l'immagine di Var-giu14 è possibile immaginarla come attrezzo che consente di esplorare un iceberg:
10 Marradi A., Metodologia delle scienze sociali, p.81, Il Mulino, Bologna, 2007.
11 Marradi A., Causale e rappresentativo: Ma cosa vuol dire? in Ceri P., Politica e Sondaggi, Rosenberg
& Sellier, Torino, 1997.
12 Bertaux D., L'approche biographique. Sa validitè méthodologique, ses potentialités, in Chaiers
Internationaux de Sociologie, 27, 69, pp. 197-225.
13 “[..] Il criterio della saturazione è quel fenomeno per il quale dopo un certo numero di interviste il
ricercatore ha l'impressione di non apprendere nient'altro di nuovo riguardo al suo oggetto di ricerca. Il campione viene costruito progressivamente, tentando di diversificare il più possibile la casistica da esaminare finché si abbia la sensazione di averla esaurita. L'applicazione del criterio di saturazione dovrebbe garantire, al campione di un'indagine condotta con le tecniche delle storie di vita, le stesse prerogative riconosciute ad un campione probabilistico di una survey [..]”:
- Bichi R., La società raccontata. Metodi biografici e vite complesse, FrancoAngeli, Milano, 2000.
14 Vargiu A., Metodologia e tecniche per la ricerca sociale. Concetti e strumenti di base, FrancoAngeli,
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“[..] ciò che sta al di sopra della superficie dell'acqua è generalmente quanto l'intervistato tende a resti-tuire all'intervistatore. Questi però, potrebbe essere interessato a ciò che si situa all'interno dell'iceberg, sotto del livello del mare, ossia alla parte nascosta e profonda, quella più ampia e rilevante ai fini di una più completa conoscenza ed empatica comprensione della natura complessiva di ciò che intende stu-diare. [..]”
Partendo da questa metafora l'autore spiega che le metodologie non standard sono un utile strumento per analizzare le parti sommerse, soprattutto attraverso l'ausilio delle “sonde”, utilizzate nell'ambito di una strategia di esplorazione identificata nella con-duzione non direttiva.
Per queste ragioni, nella sociologia, lo strumento più adatto a favorire le narrazioni del mondo “sommerso” della vita quotidiana è l'intervista non direttiva poiché, basandosi sulla relazione con l'intervistatore, consente all'intervistato di esprimersi liberamente senza temere di uscire fuori tema o dire cose non pertinenti, come afferma Montespe-relli è:
“Flessibile e adattabile a ciascun intervistato, il quale potrà esprimersi con parole sue e al suo livello di comprensione.”15
L'intervista, inoltre, si basa su una grande carica empatica tra intervistatore e intervi-stato, il clima rilassato e l'atteggiamento non giudicante sono strategici in quanto con-sentono all'intervistato di esprimere il suo pensiero e di articolarlo spiegandolo sere-namente e in maniera approfondita; questo consentirà di superare il limite delle rispo-ste “banali o rispo-stereotipate” arricchendo il lavoro con argomentazioni, riflessioni, appro-fondimenti; non di rado infatti, l'intervista può essere un'occasione di riflessione “gui-data” in cui l'intervistatore diventa un facilitatore di processi riflessivi e di costruzione di nuovi significati.
Questa particolare modalità di conduzione dell'intervista è finalizzata a ottenere il mas-simo grado di spontaneità ed è anche quella più funzionale: spesso, quando si tratta di vissuti esperienziali connessi alle disabilità, le persone che subiscono un disagio legato ad una condizione che è motivo di sofferenza o di imbarazzo, sono più restie ad accet-tare domande chiuse, mentre sono più disposte alla narrazione ma pur sempre nel ri-spetto dei tempi, dei vissuti, del dolore.
Altro aspetto che emerge dalle iterazioni ricercatore-intervistato è la forte carica em-patica della conversazione che può portare ad una immedesimazione, e ciò, nonostante
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i rischi connessi ad un possibile coinvolgimento del ricercatore, è una preziosa oppor-tunità per superare le resistenze di qualsiasi tipo ad aprirsi al dialogo in quanto ciò che prevale sulla ricerca stessa è l'elemento relazionale.
Naturalmente tale relazionalità si realizza solo se chi esegue l'intervista riesce a creare un clima di fiducia, a questo fine è molto importante il tono della voce, l'atteggiamento non giudicante, la postura. Ovviamente l'intervista non deve essere trasformata in un fluire di chiacchiere, occorre sempre mantenere il filo del discorso poiché il fine è sempre quello di ottenere racconti sui vissuti ed i significati ad essi connessi, tenendo presente anche il prezioso ruolo dei silenzi, le pause, indicativi della difficoltà a parlare di certi argomenti perché dolorosi o imbarazzanti.
I.5 In conclusione: perché le metodologie qualitative
Di recente, su Facebook, popolarissimo social network, il medico e professore Roberto Burioni16 scriveva in riferimento alla controversa diatriba sulla pericolosità dei vac-cini17:
“[..] ricordo a questi [coloro che si oppongono ai vaccini n.d.s.] che chi sostiene che due più due fa quattro non è un arrogante maleducato, ma uno che ha studiato la matematica; allo stesso modo chi sostiene che faccia cinque non è un coraggioso libero pensatore, ma molto più semplicemente un somaro [..]”.
Senza la pretesa di entrare nel merito del dibattito proposto, si ritiene che questo “post” possa veramente essere illuminante rispetto alla forma mentis dello scienziato che pro-viene da una formazione legata alle scienze naturali rispetto a quella del sociologo: a quest'ultimo infatti non importa se il risultato della somma sia quattro o cinque o se il soggetto è un somaro, un libero pensatore, o ancora un maleducato. Ciò che è rilevante per lo scienziato sociale è comprendere le ragioni che portano, per la stessa operazione algebrica, a sostenere risultati diversi. Il sociologo sa bene che se per farlo si fermasse solo al procedimento matematico che rende oggettivo il risultato, si perderebbe un mondo di significati che aiuterebbero a capire perché, cose apparentemente oggettive e incontestabili vengono invece criticate, stravolte, arricchite di nuovi significati. Ecco allora l'importanza, per la sociologia, ed in particolare per la sociologia della salute, di
16 Si rimanda al link seguente per visualizzare il post originale:
https://www.facebook.com/robertoburioniMD/, ultima consultazione, luglio 2017.
17 Tema, peraltro, fortemente dibattuto dalla disinformazione di quelle persone che il giornalista italiano
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aprirsi ai saperi non convenzionali che rappresentano una preziosa risorsa ed un im-portante elemento di studio.
Questa riflessione ci consente inoltre di mettere in luce le differenze fondamentali ri-spetto ad un tradizionale percorso di ricerca: chi adotta un approccio standard è sempre in grado di giustificare una gran parte delle scelte che compie attraverso l'utilizzo di un sistema di garanzie a base tecnico-procedurale formalizzate, ma al contrario, chi sceglie metodologie non standard deve legittimare il proprio discorso ricorrendo a stra-tegie sovente opposte e tendenti a porre in risalto la vicinanza del ricercatore ai contesti in cui è prodotto il dato. Questo chiaramente comporta l'osservanza di determinate regole, non sempre formalizzate o formalizzabili, che il ricercatore qualitativo cono-sce, riconocono-sce, interiorizza, spesso anche in maniera non cosciente; con un processo paragonabile a quello che Bourdieu18 definirebbe come la creazione di un “habitus”. Proprio questo elemento soggettivo, svincola la ricerca da tutte le premesse metodolo-giche della ricerca standard e la rende libera di esplorare altri aspetti “nuovi” che spesso non emergono ma che incidono nelle relazioni di chi le vive. Così, con l'intento di ampliare le conoscenze sulla disabilità visiva, si cercherà nelle prossime pagine di offrire un contributo nuovo e svincolato dalle metodologie standardizzate con un focus non tanto sulla quantità dei dati, quanto, piuttosto sulla “qualità” dei soggetti intervi-stati, sulle loro narrazioni ed esperienze di vita, attraverso un'iterazione finalizzata all’esplorazione dei significati che gli agenti attribuiscono ai vissuti individuali.
18 Per ulteriori approfondimenti sul concetto di habitus si rimanda a:
Bourdieu P., Campo intellettuale, campo del potere e habitus di classe in Campo del potere e campo intellettuale, Manifestolibri srl, Roma 2002.
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II CAPITOLO
DENTRO IL PROBLEMA
“Ciò che si è visto una sola volta non esiste ancora. Ciò che si è sempre visto non esiste più.” (Elias Canetti) “In ogni organismo, uomo compreso, c'è un flusso costante teso alla realizzazione costruttiva delle sue possibilità intrinseche,
una tendenza naturale alla crescita” (Carl Rogers)
II.1 Un’introduzione al capitolo
Diventare disabile in età adulta significa rimettersi in gioco e scontrarsi con nuove modalità di rapportarsi al mondo del lavoro, al tempo libero, agli affetti, alla sessualità. Avere una disabilità non congenita, ma subentrata in età adulta, significa ricostruire un'intera esistenza che necessita dell'ausilio di una molteplicità di interventi speciali-stici volti a ripristinare un'autonomia relativa a tutti gli aspetti della vita quotidiana. L'indipendenza e l'integrazione del disabile non passano solamente dalla tutela del le-gislatore che opera attraverso disposizioni normative, bensì passano per il singolo rap-portarsi alla malattia e alla sofferenza. Coloro che hanno acquisito una disabilità in età adulta, in genere, assumono consapevolezza della loro condizione in seguito ad una diagnosi che funge da spartiacque tra la vita prima e dopo la diagnosi: è come se attra-verso un misterioso sortilegio una “normale”19 persona con ansie e paure venisse
tra-sformata in un “disabile”. Questo passaggio può avere numerose conseguenze: può trasformarsi in una vera e propria crisi depressiva caratterizzata da sofferenza e rifiuto della diagnosi, oppure, se la fase del rifiuto viene superata, si può cominciare con l'ac-cettazione della disabilità che passa per resilienza e, dunque, la normalizzazione. L’ammissione della propria condizione infatti, se adeguatamente supportata, può ad-dirittura mettere in luce gli aspetti positivi legati alle piccole conquiste quotidiane.
19 Il termine “normale” nella sua accezione di “normodotato” è qui volutamente inserito come
19
Nel presente capitolo si cercherà di presentare il fenomeno oggetto di studio attraverso un breve excursus sul concetto di “disabilità”, si analizzeranno le principali patologie visive con un focus sulle cause dell'insorgenza della cecità in età adulta, i risultati emersi da altri studi che evidenziano cosa significa diventare ciechi o ipovedenti in età adulta e i principali ausili e strumenti a supporto.
II.2 Definire la disabilità
Chi decide di affrontare uno studio sulla disabilità facendo ricerca qualitativa, si trova davanti al fatto che il concetto stesso di “disabile” non è universale; spesso, nella let-teratura, capita di trovare termini come “invalido”, “handicappato”, “disabile” o “ina-bile” utilizzati in maniera imprecisa o come sinonimi. Per questo una chiarezza termi-nologica e concettuale rappresenta il punto di partenza di qualsiasi ricerca: in questo studio si è scelto di seguire le indicazioni adottate dall’ISTAT che a sua volta, fa espli-cito riferimento alle definizioni di “menomazione”, “disabilità” ed “handicap” illu-strate nei due documenti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il focus della definizione OMS è la sequenza di determinazioni che porta dalla meno-mazione all’handicap: la “menomeno-mazione” è il danno biologico che una persona riporta a seguito di una malattia (congenita o meno) o di un incidente; la “disabilità” è l’inca-pacità di svolgere le normali attività della vita quotidiana a seguito della menoma-zione;” l’Handicap” è lo svantaggio sociale che deriva dall’avere una disabilità. Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicò un primo documento dal titolo International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH)20. Nel testo veniva fatta l’importante distinzione fra “menomazione” (Impair-ment), intesa come:
“Perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica”
E gli altri due termini. Questi venivano rispettivamente definiti: “disabilità” (Disabi-lity) come:
“Qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano” e “handicap” come la “condi-zione di svantaggio conseguente a una menoma“condi-zione o a una disabilità che in un certo soggetto limita
20 Definizioni ICIDH: http://www.ashpi.it/DefinizioniOMS.html, ultima consultazione: Novembre
20
o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali”.
Volendo fare un esempio, in base alle definizioni che sono state specificate sopra, un non vedente è una persona che soffre di una menomazione oculare che gli procura disabilità nella locomozione e comporta handicap, ad esempio, nella mobilità e nell’occupazione. L’aspetto più significativo del primo documento pubblicato dall’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità è stato quello di associare lo stato di un individuo non solo a funzioni e strutture del corpo umano, ma anche ad attività a livello indivi-duale o di partecipazione nella vita sociale.
Il secondo documento elaborato dall'OMS ha per titolo “International Classification of Functioning, Disability and Health” (ICF)21 e venne approvato dalla 54° World Health Assembly il 22 maggio 2001. Il titolo è indicativo di un cambiamento sostanziale poi-ché sottolinea un’unificazione nelle forme di descrizione dello stato di una persona: non ci si riferisce più a un disturbo, strutturale o funzionale, senza prima rapportarlo a uno stato considerato di “salute”.
Così il nuovo documento sostituisce i vecchi “Impairment”, “Disability” e “Handicap” che indicano una mancanza, per dare spazio al pieno “Funzionamento”, descritto con una differente terminologia: “Funzioni Corporee”22, “Strutture corporee”, “Attività”, “Partecipazione” e “Fattori Ambientali”. Le “Strutture Corporee” sono parti anatomi-che del corpo come organi, arti e loro componenti, le “Attività” invece sono l’esecu-zione di un compito o di un’al’esecu-zione da parte di un individuo e, la “Partecipal’esecu-zione”, è da intendersi come il coinvolgimento di un individuo in una situazione di vita. Infine abbiamo i “Fattori Ambientali” che sono invece caratteristiche del mondo fisico, so-ciale e degli atteggiamenti che possono avere impatto sulle prestazioni di un individuo in un determinato contesto.
Il documento ICF copre tutti gli aspetti della salute umana, raggruppandoli nel dominio della salute (health domain, che comprende il vedere, l'udire, il camminare, l'imparare e il ricordare) e in quelli “collegati” alla salute (health-related domains, che includono mobilità, istruzione, partecipazione alla vita sociale e simili). Secondo l’ICF:
21 Definizioni documenti OMS http://www.asphi.it/DisabilitaOggi/DefinizioniOMS.htm, ultima
consultazione Ottobre 2017.
22 Che rappresentano tutte le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei includendo anche le funzioni
21
“Le persone con deficit visivo sono genericamente quelle affette da una menomazione agli organi ed alle strutture anatomiche riguardanti la vista, o interessate da un’alterazione delle funzioni collegate a questo senso.”23
È importante inoltre precisare che ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone e per questo ha un uso e un valore universale.
Rispetto a ciascuna delle centinaia di voci classificate, ad ogni individuo può essere associato uno o più qualificatori che descrivono il suo “funzionamento”. Per le fun-zioni e strutture del corpo il qualificatore può assumere i valori riportati nella tabella:
Tab.1 - Tabella con valori di menomazione 0 - 4% 0 Nessuna menomazione 5 - 24% 1 Lieve menomazione 25 - 49% 2 Moderata menomazione 50 - 95% 3 Grave menomazione 96 - 100% 4 Totale menomazione
Analoghi qualificatori esistono per le “attività”, per le quali si parla di restrizioni e per la partecipazione, per la quale si possono avere limitazioni. Infine sui fattori ambientali si hanno delle barriere. La classificazione “positiva”, che parte dal funzionamento per dire se e quanto ciascuno se ne discosta, ha il vantaggio rispetto alla classificazione ICIDH di non aver l’obbligo di dover specificare le cause di una menomazione o di-sabilità, ma solo di indicarne gli effetti. È da notare poi il fatto che il termine “handi-cap” è stato abbandonato e che il termine disabilità è stato esteso fino a ricoprire sia la restrizione di attività che la limitazione di partecipazione.
23 Gargiulo M.L., Dadone W., Crescere toccando: Aiutare il bambino con deficit visivo attraverso il
22
II.3. Dalla definizione di Cecità e Ipovisione alle principali
cause di insorgenza
Prima di analizzare le principali patologie alla base dell'insorgenza delle disabilità vi-sive occorre analizzare il quadro normativo. Una fondamentale premessa alla defini-zione di cecità e ipovisione la troviamo all'interno della legge n. 138 del 200124 che classifica le persone con problemi visivi in “ipovedenti” lievi, medio-gravi e gravi, e “ciechi” parziali o totali a seconda dell’ampiezza del campo visivo e della acuità della vista. Questa legge ha riconosciuto che:
“La disabilità visiva non equivale alla mancanza completa della vista, né alla sua drastica riduzione quantitativa [..], va tenuto conto non solo della quantità di visus residuo posseduto, espressa sotto forma di frazione, ma anche della percentuale del campo perimetrico disponibile.”25
La cecità, quindi, può essere:
“Totale quando il visus è assente o il campo visivo binoculare risulta inferiore al 3% rispetto a quello normale, o parziale quando il visus [..] non supera 1/20, oppure il campo visivo binoculare risulta infe-riore a 1/10 rispetto a quello normale”26.
Ulteriori definizioni di “cecità” e “ipovisione” ci vengono fornite da Fiocco, il quale afferma che:
“Il significato di “cecità” è sempre risultato di facile comprensione, in quanto sottintende una condi-zione fisica e sensoriale oggettivamente riscontrabile, caratterizzata dall’assenza di visione; chi ne è affetto è totalmente privo di capacità visiva intesa quale funzione cerebrale attiva, nondimeno può pos-sedere la percezione della luce, che comunque non dà luogo a tale funzione. Per contro, la voce “ipovi-sione” si presta per sua stessa natura a svariate interpretazioni, dato che non fornisce alcuna indicazione precisa circa l’entità della visione residua; essa è stata individuata quale termine di riferimento per de-signare una riduzione grave della funzione visiva che non può essere eliminata per mezzo di lenti cor-rettive, di interventi chirurgici o di terapie farmacologiche.”27
Per quanto riguarda invece i numeri, IAPB Italia in occasione della giornata mondiale della vista28 scrive:
24 Legge 3 aprile 2001, n. 138: “Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive e norme in
materia di accertamenti oculistici”, (Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 21 aprile 2001, n. 93).
25 Caldin R., Percorsi educativi nella disabilità visiva, Erikson, Trento, 2006, p.47.
26 Pavone M., L'inclusione educativa. Indicazioni pedagogiche per la disabilità, Mondadori Università,
Milano, 2014, p.86.
27 In Bonfigliuoli, C., & Pinelli, M., Disabilità visiva, Erikson, Trento, 2010. (p. 11)
28 La Giornata mondiale della vista è stata effettuata il 12 Ottobre 2017, generalmente viene celebrata
23
“Le ultime stime su cui sta lavorando l’Organizzazione Mondiale della Sanità relative ai deficit della vista, non ancora pubblicate, riportano la quantità e la distribuzione nelle diverse aree del pianeta: nel mondo ci sono 227 milioni di persone con una ipovisione grave e sono 25 milioni i ciechi per malattie non curabili. In Italia i ciechi sono stimati essere circa 362 mila e oltre un milione gli ipovedenti. [..] Le malattie oculari interessano tutte le età, ma la loro incidenza aumenta considerevolmente dopo i 50 anni. L’allungamento progressivo della vita media, con la conseguente aumentata frequenza di diverse pato-logie oculari degenerative (come la degenerazione maculare legata all’età e il glaucoma) e la diffusione sempre maggiore del diabete con le gravi complicanze oculari che comporta, hanno messo a duro rischio la salute visiva della popolazione”29.
Infine, relativamente alle malattie oculari dell'adulto i dati di IAPB30 ci informano che sebbene la cecità e l’ipovisione dell’infanzia si presentano con una frequenza dello 0,3
per mille nei Paesi industrializzati e sino all’1 per mille in quelli in via di sviluppo, le malattie oculari nell'adulto provocano la cecità in una percentuale compresa tra il 5 e l'8 per mille e l'ipovisione con una frequenza molto più alta, strettamente legata all'età (con un incidenza del 20% nella popolazione ultrasettantenne).
Nei paragrafi successivi, col fine di garantire una migliore comprensione dell'argo-mento verrà riportata una breve descrizione dell'occhio che sarà funzionale all'esplica-zione delle patologie oculari che riguardano la disabilità visiva negli adulti.
II.3.1 Cenni di fisiologia dell'occhio
La vista è uno dei cinque sensi mediante il quale è possibile percepire gli stimoli lu-minosi e quindi la figura, il colore, le misure e la posizione degli oggetti. Tale perce-zione avviene per mezzo degli occhi che sono contenuti all'interno delle orbite oculari, due cavità del cranio ai lati della radice del naso, disposte simmetricamente rispetto alla linea mediana del corpo. La vista rappresenta un senso fondamentale nella rela-zione con l'ambiente che ci circonda, si pensi che è stato il senso dominante nei primati e attualmente è stato stimato che ben il 33% della corteccia cerebrale elabora informa-zioni visive31.
(OMS), è promossa in Italia soprattutto dall'Agenzia Internazionale per la prevenzione della cecità IAPB Italia Onlus e dall'Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. In questa occasione vengono spesso effettuati controlli oculistici gratuiti col fine di sensibilizzare la popolazione sull'importanza della prevenzione dei disturbi oculari.
29 Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità Sezione Italiana, Sito web http://www.iapb.it/,
ultima consultazione Ottobre 2017.
30 IAPB Italia, http://www.iapb.it/, ultima consultazione Novembre 2017.
31 Saraux H., Lenasson C., Offret H., Manuale di anatomia e istologia dell'occhio, Masson Editore,
24 L’evento della visione
inizia quando nell’occhio entra la luce attraversando il film lacrimale, la cornea e il cristallino per giun-gere poi alla retina che trasforma la luce in un se-gnale elettro-chimico che viene trasmesso al cer-vello attraverso il nervo ottico: a questo punto, il
segnale inviato, dà vita alla percezione della visione. L’occhio inoltre è composto da: film lacrimale, cornea, cristallino, iride, pupilla, sclera, coroide e retina. Il film lacri-male è un sottile strato liquido che ricopre tutta la parte esterna dell’occhio e la cornea è la prima lente dell’occhio, in condizioni normali è liscia, trasparente e priva di vasi sanguigni per permettere alla luce di iniziare il suo cammino verso il fondo dell’occhio. Il cristallino è una lente biconvessa che si trova nell’occhio dopo l’iride e il suo com-pito è quello di mettere a fuoco la luce sulla retina; invece, l’iride, è una membrana a forma di anello, diversamente colorata e la sua funzione è quella di regolare la quantità di luce che deve entrare nell’occhio attraverso una piccola apertura chiamata pupilla. La parte posteriore dell’occhio è formata da: sclera, coroide e retina. La sclera è la parte bianca dell’occhio, è resistente ed elastica ed è composta da fibre connettive che proteggono il bulbo oculare; la coroide, posta tra la sclera e la retina, porta nutrimento ai tessuti ed assorbe il calore luminoso che giunge sul fondo dell’occhio. La retina infine è il tessuto più sensibile dell’occhio ed è composta da cellule nervose in preciso ordine che raccolgono il segnale luminoso e lo inviano al cervello tramite il nervo ottico; questa inoltre è costituita da pigmenti visivi e cellule particolari, i coni e i ba-stoncelli, che sono responsabili della visione a colori o in bianco e nero.
II.3.2 La miopia degenerativa
Detta anche miopia progressiva o maligna, la miopia degenerativa nasce da un comune difetto refrattivo, ossia un disturbo visivo causato dall'incapacità dell'occhio di mettere a fuoco l'immagine sul piano retinico. Generalmente queste difficoltà traggono origine
25
da un'imperfezione anatomica del bulbo oculare, si pensi che il diametro antero-poste-riore del bulbo di un occhio normale presenta un asse antero-posteantero-poste-riore compreso tra i 22 e i 24 mm e che, al contrario, l'occhio affetto da miopia grave tende ad un allunga-mento continuo nel corso della vita fino al superaallunga-mento dei 30 mm.
Tale allungamento produce delle degenerazioni retiniche periferiche in quanto la retina viene stirata fino a produrre degli assottigliamenti nella retina periferica; queste dege-nerazioni retiniche sono molto pericolose poiché rappresentano dei punti di fragilità che possono dare origine a piccole rotture retiniche. Proprio per questo la miopia grave aumenta il rischio di sviluppo di glaucoma cronico semplice, di emorragie retiniche (soprattutto maculari), di degenerazioni retiniche periferiche, con conseguente rischio di rotture retiniche e distacco della retina. Infatti ciò che avviene a livello fisiologico sono le rotture retiniche causate dalle degenerazioni periferiche che potrebbero per-mettere al vitreo di instaurarsi sotto la retina e scollarla dal fondo oculare determinando il distacco di retina. Detto in altri termini, se il bulbo è molto allungato la retina non aderisce perfettamente al fondo oculare e quindi vi è maggiore probabilità di distacco di retina quando (generalmente intorno ai 45-50 anni) si ha il fisiologico distacco po-steriore del vitreo.
II.3.3 Retinopatia diabetica
La retinopatia diabetica è la complicanza microvascolare più comune del diabete mel-lito ed è la prima causa di cecità non traumatica in età lavorativa negli adulti compresi tra i 24 e i 74 anni, oltre ad essere la quinta causa di cecità prevedibile e di deficit visivo moderato-grave32.
Il diabete mellito è un disturbo metabolico caratterizzato da un aumento non transitorio dei valori glicemici ematici (cioè la percentuale di glucosio nel sangue), dovuto alla mancanza (o alla ridotta efficacia) di un ormone, chiamato insulina. Il diabete mellito può essere insulino dipendente (IDDM) o non insulino dipendente (NIDDM), definiti rispettivamente diabete mellito tipo 1 e diabete mellito tipo 2.
In Italia i diabetici sono circa 3 milioni, ed il 25% di tutti i diabetici è affetta da reti-nopatia diabetica (750.000). Il diabete infatti causa un’alterazione dei vasi sanguigni di tutto il corpo, in particolare delle arteriole precapillari, dei capillari e delle venule post capillari, cioè i vasi più piccoli del nostro sistema arterioso, tale alterazione è detta
32 I dati sono stati ripresi da IAPB Italia e sono consultabili nel “White papier, “Retinopatia Diabetica,
26
microangiopatia, e può colpire anche i vasi di calibro più grande. La retinopatia dia-betica è perciò una manifestazione localizzata, oculare, della malattia diadia-betica. Nelle fasi iniziali della retinopatia diabetica, a livello della parete dei capillari si formano delle zone di indebolimento e di sfiancamento della parete vasale, dette microaneuri-smi. All'interno dei microaneurismi si può verificare la trasudazione della parte liquida del sangue che causa l’ispessimento della retina chiamato edema retinico oppure pos-sono trasudare i componenti plasmatici che si formano a livello della retina generando dei piccoli accumuli giallastri, contenenti lipidi e colesterolo, noti come essudati duri. Tali formazioni possono rompere i capillari causando emorragie nella retina o nel corpo vitreo, all’interno del globo oculare. Quando la parete dei capillari diventa troppo spessa può causare occlusione, interrompendo il flusso ematico, necessario per portare nei vari distretti retinici l’ossigeno e le varie sostanze necessarie al metaboli-smo cellulare. In questa circostanza si osservano zone di sofferenza retinica biancastre con l’aspetto di fiocchi di cotone, dette “essudati cotonosi” o “aree ischemiche”. Come conseguenza della chiusura di alcuni capillari, le zone contigue cercano di compensare la mancanza di sostanze nutritizie producendo nuovi capillari ma questi, essendo pro-dotti in modo anormale (veloce e disordinato) possono facilmente rompersi e causare ulteriori emorragie. La retinopatia diabetica viene classicamente suddivisa in tre tipi principali:
- Retinopatia diabetica non proliferativa: si verifica quando sono presenti perdite di sostanze dai capillari sufficienti a causare edema maculare, piccole emorragie e zone di capillari occlusi.
- Retinopatia diabetica preproliferante: quando sono presenti segni di imminente ma-lattia proliferante, caratterizzata da progressiva ischemia retinica.
- Retinopatia diabetica proliferativa: caratterizzata nello stadio iniziale da occlusione dei capillari con macchie retiniche a fiocco di cotone. Nella fase proliferativa vera e propria i capillari anormali si sviluppano stimolati dalla occlusione dei piccoli vasi retinici.
La retinopatia diabetica può avere due complicanze gravi: le emorragie vitreali e pre-retiniche e il distacco di retina di tipo trazionale. Le prime sono dovute alla rottura dei neovasi e che provocano una brusca riduzione della capacità visiva; tali emorragie tendono a riassorbirsi col tempo ma, soprattutto nei giovani, recidivano con facilità. Per quanto riguarda invece il distacco della retina di tipo trazionale, questo è dovuto
27
alla trazione esercitata sulla retina dalle membrane neovascolari della retinopatia dia-betica. La riparazione di questo distacco di retina necessita di un’operazione chiamata “vitrectomia”.
II.3.4 Il Glaucoma
Il glaucoma è una malattia degli occhi molto frequente. Secondo le stime di IAPB Italia, nel mondo ci sono circa 55 milioni di persone affette da tale patologia di cui mezzo milione (soprattutto di ultracinquantenni) solo in Italia33; attualmente il glau-coma rappresenta una delle cause più frequenti di cecità e ipovisione sia nei Paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo. Inoltre è una malattia che colpisce il nervo ottico, causando danni permanenti alla vista che, nella maggior parte dei casi, sono dovuti ad un aumento della pressione interna dell’occhio i cui danni rilevabili sono la riduzione del campo visivo e le alterazioni della papilla ottica ossia l’origine del nervo ottico, visibile osservando il “fondo oculare”. Esistono numerose forme di glaucoma. Le più frequenti e importanti sono tre:
- Il glaucoma cronico semplice detto ad angolo aperto che rappresenta la forma più frequente. Questo è dovuto a una difficoltà dell’umor acqueo a defluire dall’interno verso l’esterno dell’occhio; ciò causa un aumento della pressione oculare, ma rara-mente in modo troppo elevato. Colpisce l’adulto dopo i 40-50 anni e ha un’evoluzione molto lenta inoltre è asintomatico e il paziente si rende conto della malattia solo in fase terminale, quando il danno al nervo ottico è ormai irreparabile.
- Il glaucoma acuto detto ad angolo chiuso si manifesta in maniera improvvisa e im-prevedibile. È dovuto a un’ostruzione totale delle vie di deflusso e in questo caso in-sorge con un dolore violento, associato spesso a nausea e vomito l’occhio è molto infiammato e la vista fortemente ridotta.
- Il glaucoma congenito si può manifestare già alla nascita o nei primi anni di vita. È dovuto ad alterazioni o a malformazioni delle vie di deflusso dell’umor acqueo. La “plasticità” del bulbo oculare fa sì che l’occhio acquisti dimensioni molto grandi. Pur essendo in assoluto una forma rara, è una delle cause più frequenti di ipovisione e cecità infantile
33 I dati sono stati ripresi da IAPB Italia e sono consultabili nella home page e nell’opuscolo dedicati
alla Giornata mondiale del Glaucoma (12 e 18 marzo 2017) reperibili nel sito:
28
II.3.5 Le degenerazioni retiniche
Le degenerazioni retiniche periferiche sono un vasto gruppo di malattie, generalmente di origine genetica, caratterizzate da progressive alterazioni del visus che generano situazioni patologiche composte da alterazioni morfologiche e strutturali che interes-sano la porzione periferica della retina. Seppure l’eziologia è incerta si suppone che tali degenerazioni insorgano soprattutto nei pazienti miopi in cui si verifica un pro-gressivo assottigliamento degli strati retinici periferici34.
Le degenerazioni retiniche possono essere regmatogene e non regmatogene. Le prime sono così definite in quanto è frequente il rischio di rottura della retina con possibile distacco dovuto all’ infiltrazione del liquido vitreale e al progressivo scollamento degli strati retinici; mentre le seconde, quelle non regmatogene, sono benigne in quanto non portano a rottura retinica e nemmeno al distacco di retina. Le degenerazioni retiniche regmatogene, in cui è presente una trazione del vitreo sovrastante l’area di assottiglia-mento, comprendono: la degenerazione a lattice o a palizzata, la degenerazione a bava di lumaca, la retinoschisi degenerativa ed il bianco con o senza pressione.
L'intero gruppo delle patologie retiniche rappresenta un'importante causa di ipove-denza nella popolazione mondiale, data anche la scarsità, per non dire quasi l'assenza, di presidi terapeutici realmente efficaci finora a nostra disposizione. Si riconoscono otto diverse forme:
Amaurosi congenita di Leber Distrofia dei Coni
Distrofia Ialina della retina Distrofia Vitelliforme di Best Distrofia Vitreoretinica Malattia di Stargardt
Retinite Pigmentosa Retinite Puntata Albescens
II.3.6 Il distacco di retina e cecità dovuta a traumi
Il distacco della retina si verifica più frequentemente in soggetti di età media e con una miopia medio-elevata ossia superiore alle tre diotrie. Resta comunque un evento abba-stanza raro che coinvolge, secondo le stime di IAPB Italia35, all’incirca una persona su diecimila. Le cause più frequenti sono le degenerazioni retiniche periferiche, un trauma contusivo oculare o, ancora, una trazione vitreoretinica nei casi di retinopatia
34 Delfino E., Martinoli C., Manuale di riabilitazione visiva per ciechi e ipovedenti, FrancoAngeli,
Milano,2009.
35 Distacco di retina, IAPB Italia, http://www.iapb.it/distacco-di-retina, ultima consultazione:
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diabetica proliferante. A livello fisiologico ciò che avviene alla retina, normalmente aderente alla superficie interna dell’occhio, è una rottura che provoca distaccamento e spostamenti che la “scollano” dall’occhio. A seguito di questo evento la retina non è più in grado di offrire al cervello un’immagine adeguata e la visione diviene offuscata e ridotta.
Per quanto riguarda invece cecità e ipovisione di origine traumatica, tra le cause più frequenti troviamo le pallonate e le aggressioni (in modo particolare quelle causate da bottiglie di vetro e oggetti contundenti), a seguire possono causare traumi le cadute fortuite, e, con una certa frequenza, anche i traumi dovuti al contatto accidentale con rami o foglie d’albero, molle elastiche, frammenti metallici o utensili di vario genere utilizzati in ambito domestico. I traumi oculari colpiscono maggiormente i maschi tra i 20 e i 40 anni e quindi i soggetti in età da lavoro.
II.4 Diventare ciechi in età adulta
Generalmente le persone posseggono idee su cosa significhi trovarsi in una condizione acuta auto-limitante poiché tutti ne abbiamo avuto esperienza nel corso della nostra vita, anche attraverso un banale raffreddore; al contrario, pochi sono a conoscenza di che cosa implichi realmente avere una malattia cronica che li accompagna per il resto della vita. Spesso infatti vi è difficoltà ad accettare e comprendere una patologia proiet-tata nel lungo periodo e si coltiva l’idea di potersene liberare (o esserne liberati) in qualche momento futuro imprecisato. Chiaramente, questo processo coinvolge anche chi, nel corso della vita, parzialmente o totalmente, perde l’uso della vista. Tale evento produce effetti pervasivi sull’intera esistenza del soggetto adulto o anziano, poiché le ripercussioni sono a livello sociale, occupazionale, ricreativo e familiare. Secondo Adams e Pearlam36 ci sono tre tipi di risposte alla perdita della vista: l’accettazione, il rifiuto, l’ansia depressiva. Conoscere il processo di adattamento della persona è indi-spensabile in quanto aiuta il paziente ad avere un concreto sostegno nel progressivo cambiamento dell’immagine di sé e della sua identità: vivere con una limitazione fun-zionale come la mancanza della vista, comporta la necessità di attivare un precoce supporto che sarà cruciale nel processo di adattamento.
36 Adams L., Pearlman T., Emotional response and management of visually handicapped patients,
30
Infatti è proprio durante la fase di accettazione della diagnosi che gli autori37 registrano una forte differenza tra i soggetti totalmente ciechi e coloro che hanno subito una par-ziale perdita della vista: il quadro psicologico appare peggiore proprio per questi ultimi che mostrano una presenza più marcata di umore depresso, rabbia e ostilità. I non ve-denti completi, forse a causa del loro scontrarsi con un handicap irrefutabile, devono forzatamente accettare la loro nuova transizione di vita e quindi forzarsi ad accettare gli interventi di riabilitazione finalizzati a favorire un loro adattamento sociale; al con-trario, coloro che conservano una percezione di luce residua o fluttuazioni della vista (come nel caso dei pazienti affetti da glaucoma o retinopatia diabetica) hanno livelli di stress e non accettazione più elevati, probabilmente alimentati dalla frustrazione delle aspettative e della paura di perdere completamente la vista38. A dispetto di quanto si potrebbe immaginare invece, non risultano differenze nel processo di accettazione della cecità tra coloro che sono diventati ciechi in poco tempo e coloro la cui vista si è deteriorata nell’arco di alcuni anni; questo elemento ci aiuta a capire che se la reazione alla perdita della vista è la medesima non deve essere analizzato il fattore tempo quanto piuttosto l’approccio alla minorazione39.
Un ulteriore contributo sulle reazioni alla perdita della vista ci viene fornito da Fitzge-rald40 che in uno studio su un campione di pazienti con cecità acquisita registra l’umore depresso nel 90% dei casi, accompagnato dai tipici sintomi depressivi come l’insonnia, la perdita dell’appetito, il ritiro sociale, la perdita di autostima, il pianto, i pensieri di suicidio. Tali sintomi erano presenti nel insieme nel 50% dei soggetti, mentre l’ansia riguardava il 70% del campione. In poco meno della metà dei casi erano presenti allu-cinazioni, diffidenza, paranoia, abuso di alcool.
Insieme alla perdita della vista i 2/3 del campione mostrava una sintomatologia pree-sistente mentre nel 37% dei casi si assisteva all’insorgenza di nuovi sintomi e patolo-gie. A distanza di quattro anni il medesimo campione dimostrava un peggioramento dato dalla cronicizzazione della sintomatologia psicopatologica; ciò indicava chiara-mente che la crisi iniziale non era stata risolta.
37 Adams e Pearlman (1970).
38 Bernbaum M., Albert S.G., Duckro P.N., Psychological profiles in patients with visual impairment
due to diabetic retinopathy, “Diabetes Care”, n.11, 1988, pp. 551-557.
39 Tomassoni R., Diotaiuti P. & Esposito M. (2013).
40 Fitzgerald R. G., Ebert J. N., Chambers M., Reactions to blindness: A four-year follow-up study,
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L’esito finale è rappresentato dall’accettazione della patologia che diventa una solida base su cui acquisire nuovi modelli di comportamento e un buon equilibrio mentale, fisico e sociale.
Accanto alle risposte individuali, tra le reti sociali a supporto della persona affetta da deficit visivo, un ruolo importante viene svolto dalla famiglia che reagisce spesso con l’iperprotezione, atteggiamento che rinforza nel paziente la dipendenza fisica e mate-riale dagli altri. Lo studio di Fitzgerald41 conferma infatti la relazione tra perdita dell’autonomia, dipendenza e svalutazione, dimostrando così come gli atteggiamenti iperprotettivi della famiglia possano essere controproducenti: spesso i familiari che supportano persone affette da disabilità visiva, incontrano grosse difficoltà a lasciar compiere anche le attività più semplici, sottostimando le capacità del convivente e so-stituendosi ad esso. Tuttavia, specie nelle fasi di riabilitazione, l’iperprotezione inse-gna al cieco o all’ipovedente ad essere passivo ed impotente e questo mina seriamente l’abilità di compiere scelte e decisioni autonome soprattutto quando la pressione dei pari si fa più forte42. Ciò che emerge dagli studi di Fitzgerald infatti, è che i soggetti che facevano maggiore uso degli strumenti di riabilitazione, che vivevano soli e che conservavano la propria mobilità e occupazione erano quelli tendenzialmente meno depressi e con il più alto livello di integrazione e il più basso rischio di suicidio. Alla luce delle considerazioni svolte possiamo intuire come, vivere con una limita-zione funzionale importante come quella della vista, disponga la necessità di conser-vare le abilità residue; tale compito può essere immaginato come un percorso di adat-tamento composto da discese, ostacoli, salite che impongono costantemente dei riadat-tamenti alla luce dei limiti e delle opportunità offerte dall’ambiente circostante. Infatti questo percorso è formato da quattro fasi di cui la prima è quella di “riconoscimento” nella quale la persona prende consapevolezza del fatto che alcune delle sue funzioni vitali sono severamente compromesse e che tali compromissioni lo coinvolgeranno per l’intero corso della vita. I problemi non possono più essere evitati e occorre reagire; si acquisisce così una progressiva consapevolezza riguardo al fatto che non è possibile conservare ruoli e condizioni precedenti (ormai divenuti difficili da conservare) e si procede verso un cambiamento che, seppure difficile, diventa la motivazione princi-pale per un progressivo cambiamento di vita.
41 Fitzgerald et al. (1987)
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La seconda fase è composta da un processo paragonabile a quella che Piaget chiamava, per l’infante, fase senso-motoria, infatti è detto “processo di esplorazione” in quanto la persona affetta da deficit visivo inizia ad esplorare le possibilità offerte dalla nuova condizione che richiede nuove strategie di movimento e fronteggiamento degli osta-coli. Attraverso una accurata selezione delle strategie migliori, il soggetto recupera un senso di controllo che consente di iniziare il lavoro di riparazione dell’immagine del Sé compromessa dalle difficoltà precedenti. La terza e penultima fase è quella in cui si acquista lentamente un senso di familiarità con l’ambiente circostante, si crea un maggiore equilibrio tra il carico delle richieste quotidiane e le condizioni di minora-zione. Gradualmente riprendono le attività di pianificazione futura, si ristabiliscono le priorità e i progetti di vita passando così alla quarta e ultima fase, quella di “manteni-mento”: finalmente vengono recuperate fiducia in sé stessi e validità delle nuove com-petenze acquisite per fronteggiare le difficoltà della vita quotidiana.
II.4.1 Deficit visivo e senilità
La correlazione deficit visivo e senilità rappresenta oggi una realtà concreta; si pensi che in Italia il 22,3% della popolazione è anziana43 e che le malattie degli occhi corre-late all’età sono la prima causa di cecità in Italia e in Europa. Per questo, prendendo atto dell’incremento degli ultracentenari che secondo le ultime stime del CENSIS sono 17.630 rispetto ai 11.497 di un decennio fa44, possiamo affermare che il problema della perdita della vista legata all’età sta assumendo le dimensioni di un’emergenza vera e propria. Cecità e ipovisione sono strettamente collegate alla vecchiaia e in considera-zione dell'allungamento della vita, il numero delle persone con minorazioni visive è purtroppo destinato a crescere; la maggior parte dei non vedenti e degli ipovedenti, in Italia e in Europa, ha più di sessant’anni. Pertanto, le conseguenze che queste persone devono affrontare nella loro quotidianità sono numerose e gravi, considerando la fre-quente compresenza di ulteriori patologie aggiuntive, come la perdita dell'udito e pro-blemi di carattere motorio. In tali circostanze anche la semplice lettura di una prescri-zione medica può diventare un problema che genera confusione nell’assunprescri-zione e nei dosaggi dei farmaci e dunque disfunzioni nel controllo delle patologie presenti. Diversi
43 E quindi ultrasessantacinquenne.
44 Fonte dei dati Tuttitalia: http://www.tuttitalia.it/statistiche/popolazione-eta-sesso-stato-civile-2012/,