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Echi interni: il Castellano, la Grammatichetta, i Dubbî, l’Epistola

3. La Poetica e la questione della lingua

3.2. Echi interni: il Castellano, la Grammatichetta, i Dubbî, l’Epistola

Le prime due divisioni della Poetica rappresentano un contenitore eterogeneo in cui trovano spazio tutti gli spunti teorici di argomento linguistico elaborati da Trissino negli altri scritti coevi e anteriori. In questo senso l’opera è interpretabile come un punto di confluenza e di sintesi di istanze linguistiche rifunzionalizzate nell’ambito di un progetto normativo di stampo compiutamente letterario: siamo di fronte a quello che potremmo chiamare un caso di intertestualità interna monodirezionale.

Il capitolo De la elezione de la lingua è di fatto un compendio delle riflessioni salienti del Castellano, anche qui condotte in forma di glossa e commento al De vulgari eloquentia. Come si è già visto, già in apertura la definizione di lingua ricalca molto da vicino quella del dialogo1, così come tutto il successivo svolgimento dell’argomentazione, volto a dimostrare la legittimità della denominazione ‘lingua italiana’, si sviluppa a partire dalla medesima fonte. L’insistenza sul valore logico della reductio ad unum e sulla mescolanza delle specie in fatto di lingua letteraria, che obbliga ad utilizzare la denominazione generale, è il centro nevralgico della teoria trissiniana in fatto di lingua, ed è significativamente collocata in posizione strategica in apertura della prima divisione del trattato, così come la questione alfabetica, strettamente correlata ai postulati di cui sopra, occupa uno spazio del tutto analogo nella seconda divisione.

La maggiore debolezza della tesi linguistica di Trissino sta nell’aver utilizzato due argomentazioni che, sebbene tendano entrambe alla dimostrazione dell’assunto di partenza – ovvero che sia legittimo parlare di lingua italiana – sono fra loro conflittuali, in quanto dimostrano in realtà due cose nettamente diverse: se l’argomento empirico afferma l’esistenza di una lingua mescidata, l’argomento logico non fa altro che porre l’accento sull’unità puramente nominale di un gruppo eterogeneo di lingue individuato su base geografica2. Si tratta dunque di due accezioni nettamente distinte di lingua

1 Cfr. Castellano 101.

2 La fallacia della reductio così come è strumentalizzata da Trissino è messa a nudo da Dolce nelle sue Osservationi

(cfr. DOLCE 2004, pp. 245-258, in part. pp. 247 sg.: «Ma dove essi [scil. i partigiani della corrente italianista] dicono, che posto che i sovradetti scrittori [scil. Petrarca e Boccaccio] havessero usata la lingua pura Thoscana, essendo la Thoscana parte d’Italia, si doverebbe nomarla dal tutto, et non dalle parti: perché il genere contien le spetie, e non le specie il genere; e che con verità ogni specie si può col suo genere nominare, ma non ogni genere col nome della sua specie; seguendo, che ogni lingua Thoscana è Italiana, et non ogni Italiana Thoscana; rispondo, che così fatto argomento si torce tutto contra di loro. Percioche, se uno mi dirà haver dettato un poema in lingua Italiana; comprendendosi nella Italia molte città, che hanno lingue fra sé diverse; non intenderò, se egli l’habbia composto nella Thoscana, nella Bresciana, o nella

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italiana, che determinano una scissione nel significato dell’affermazione che Trissino si sforza di dimostrare. Dal Castellano in particolare si evince da una parte che parlare di ‘lingua italiana’ è una possibilità (nominare il genere per la specie è lecito1), dall’altra che è una necessità (si deve nominare il genere perché nella lingua la specie è per natura contaminata con altre specie2). È piuttosto evidente che nella prima sezione Trissino pensa al volgare italiano inteso come astratta sommatoria di tutti i volgari di sì, mentre i paragrafi successivi si riferiscono all’oggetto lingua in tutta la sua concretezza. Nel Castellano sono molti i passaggi carenti dal punto di vista della coerenza logica: ai paragrafi 25-31 Trissino, celato dietro il personaggio di Giovanni Rucellai, cerca di dimostrare al suo interlocutore – Filippo Strozzi, sotto il quale è adombrata la figura di Ludovico Martelli, il più accanito avversario delle sue idee linguistiche – di non aver affatto sottratto, nell’Epistola, il nome alla lingua toscana, sostituendolo con lingua italiana3. La dimostrazione si articola in due momenti, che si susseguono senza soluzione di continuità, e la cui sostanza è la seguente: “È vero, ho tolto il nome alla lingua toscana, ma ciò non è sufficiente a far sì che la lingua sia deprivata del proprio nome, in quanto non lo fanno tutti” (25-30); “Non è vero, non ho tolto il nome alla lingua toscana, ho solo nominato il genere per la specie” (31). Ora, se la seconda affermazione si accorda con l’idea di lingua italiana quale è propugnata nel resto del dialogo, e che Trissino adotta sin dall’Epistola, la prima appare sorprendente, oltre che non necessaria, a meno di non motivarla con l’emergenza di un’idea nuova, qui ancora embrionale, che va plasmandosi e assumendo fattezze sempre più definite con il procedere del dialogo, come si vedrà più avanti4.

Stessa incoerenza argomentativa si riscontra fra i paragrafi 117-122 e 123-134, dove, per dimostrare la validità dell’utilizzo del nome di genere per designare una lingua, si teorizza dapprima il principio di rimozione dei tratti locali, e successivamente quello di mescidazione5: se il primo pare un mero logicismo argomentativo fondato su un assunto teoricamente possibile, ma di fatto irreale (se si rimuovessero tutti i tratti non in comune fra i volgari d’Italia si otterrebbe la lingua italiana), il secondo è un fenomeno effettivamente riscontrabile nella realtà linguistica, tanto per quel che concerne l’uso vivo (ogni lingua è un miscuglio di tratti comuni, locali e forestieri, come nota Trissino

Bergamasca»). Non diversamente Varchi nell’Ercolano: cfr. VARCHI 1846, pp. 455-465, e la relativa discussione da parte di Muzio nella Varchina (cfr. MUZIO 1582, pp. 107v-110r).

1 Cfr. Castellano 31-38, in part. 37: «ogniunω sa che la lingua tωscana ὲ spεcie de la italiana, ε se ’l gεnere de la spεcie

cωn verità si può dire, adunque la lingua tωscana si può cωn verità nωminare italiana» (TRISSINO 1986, p. 28). Su questa linea Trissino si difende dalle accuse dei toscanisti in merito all’Epistola (cfr. Castellano 53).

2 Cfr. Castellano 146-174, in part. 149: «quandω una spεcie ὲ cωn un’altra spεcie o cωn parte di essa mescωlata, a

vωlerle tutte insiεme cωn verità nωminare nωn si può fare per il nωme de la spεcie che v’ha maggiωr parte, ma sì biʃogna per il nωme del gεnere farlω» (TRISSINO 1986, p. 62).

3 Cfr. Alberto Castelvecchi in TRISSINO 1986, p. XLI.

4 Al paragrafo 204 Trissino adduce una terza giustificazione, che risolve la questione a monte prendendo in causa le

auctoritates: «Adunque, nωn havεndω vωi alcuna ragiωne nε autωrità che la lingua de i pωεmi italiani sia mai stata

chiamata tωscana, nωn vi pωssete lamentare nε de ’l Trissinω nε d’altri che ve la toglia, ché quellω che mai nωn si ha havutω nωn si può pεrdere» (TRISSINO 1986, p. 76).

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poco più avanti1) quanto, e soprattutto, a livello letterario, se il vicentino passa subito dopo a

dimostrare che la lingua dei grandi trecentisti è intesa in tutta Italia, anzi in alcune regioni meglio che nella stessa Toscana2.

Trissino allude esplicitamente al concetto di ‘superlingua letteraria comune’ quando parla di «lingua εlεtta, illustre ε cωrtigiana»3 a proposito di quegli autori cinquecenteschi, fra cui il Sannazaro, che afferivano, per il letterato vicentino, ad un «canone largo e illustre d’italianità»4. Si legge in questo passo: «tra i nostri, quelli che sωnω più da la patria lingua partiti εt a quella di Dante ε de ’l Petrarca accωstati hannω havutω migliωr stilω»5. È da notare come l’adozione del volgare illustre sia da Trissino configurata come una transizione da un punto di partenza (distacco dal volgare materno) a un punto di arrivo (approdo alla lingua eletta), laddove in Dante divertere a materno vulgare e intendere ad curiale vulgare6 non costituiscono due momenti distinti, ma il primo implica già di per sé il secondo, sono due facce di una stessa medaglia, in quanto tendere verso il vulgare latium significa sottrarre, per quanto è possibile, i tratti locali, vernacolari. Per Trissino allontanarsi dal volgare materno non è sufficiente: la sua idea di superlingua letteraria scaturisce da quell’operazione di mescidazione, che significa innanzitutto scelta di vocaboli non necessariamente comuni, purché aulici, ‘cortigiani’7.

Ai paragrafi 183-186 Trissino si adopera a spiegare che Dante utilizza, nel Convivio, il sintagma lingua italica non in senso antonomastico rispetto a ‘lingua toscana’, come vorrebbe Martelli8, ma

per designare la totalità delle lingue d’Italia; tuttavia, anche all’interno di queste argomentazioni c’è confusione fra le due accezioni di lingua italiana, che vengono utilizzate indistintamente per dimostrare un’unica tesi9.

1 Cfr. Castellano 146. 2 Cfr. Castellano 137-140. 3 Castellano 138.

4 Alberto Castelvecchi in TRISSINO 1986, p. XLVI. 5 TRISSINO 1986, p. 56.

6 Cfr. DVE I XIV 7.

7 Cfr. VITALE 1978, p. 64: «si fondava, quella teoria […], sulla identificazione, appoggiata a una considerazione

linguistica puramente lessicale e a una testimonianza critica, quella del trattato dantesco, inteso quale teorizzazione di un volgare risultante dalla sintesi delle forme migliori dei dialetti d’ogni parte d’Italia, del volgare letterario della tradizione con la lingua comune, pensata in concreto esistente e preesistente ai dialetti, che ne sono le manifestazioni particolari; e, in conseguenza, sul concetto della lingua comune italiana attingibile, come per il passato, dai dotti mediante l’assunzione di elementi dialettali eterogenei, liberati e dirozzati dalle loro caratteristiche provinciali e crudamente idiomatiche». Cfr. anche MIGLIORINI 1960, p. 348 e Alberto Castelvecchi in TRISSINO 1986, p. XXVI.

8 Cfr. Castellano 75.

9 Trissino si riferisce indubitabilmente al significato di ‘volgare di sì’ dove afferma che «quandω [scil. Dante] poi vole

la sua lωquεla cωme particular vωlgare εt a differεnzia de gli altri vωlgari nωminare, la chiama italiana» (Castellano 183), nonché dove cita Purg. XIII 91-97 (185), mentre intende ‘lingua comune’ ai paragrafi 184 («’l Petrarca […] dimωstra scrivere in lingua da tutta Italia inteʃa, cioὲ italiana») e 186 («vωlgare italianω, ne ’l quale [scil. Boccaccio] par che si glorie εsser statω il primω che habbia scrittω battaglie […]. Le autωrità che havete allegate de ’l Bωccacciω sωnω da essω medeʃimω debilitate dicεndω di haver scrittω ancω in vωlgare italianω»).

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I passi problematici di cui si è dato conto sarebbero difficili da giustificare, se non venissero letti alla luce degli ultimi paragrafi del dialogo e della traduzione trissiniana del De vulgari a cui essi fanno riferimento. Il lavoro di esegesi e traduzione del De vulgari eloquentia da parte di Trissino è inficiato pesantemente da problemi di mera filologia testuale1: egli estrapola la sua teoria della mescidazione2 dal passo di ricapitolazione sulla ricerca del vulgare latium (DVE I XVI 1). L’erronea interpretazione di un’abbreviazione presente in T1088 lo portava a leggere «pantheram […] redolentem ubique et ubique apparentem» (anziché «necubi»), il che cambia di molto le carte in tavola, in quanto «richiama non la discontinuità fra volgari municipali e il volgare illustre […], ma la documentata continuità nello spazio e nel tempo di una lingua letteraria che vive nei doctores illustres del volgare di sì»3. Di analoga natura è il fraintendimento di I XII 6, in cui Trissino leggeva in sostanza che il volgare siciliano dei terrigeni mediocres era una lingua del tutto distinta da quella dei primi Siculorum, mentre Dante in realtà parlava di due varietà diastratiche (o, se vogliamo, diafasiche) di uno stesso volgare.

Tutto questo porta Trissino ad isolare idealmente quel concetto di ‘lingua comune’, concretamente esistente e di natura completamente diversa dai singoli volgari locali, che aveva creduto di individuare nel trattato dantesco: egli concepisce l’idea che i grandi trecentisti avessero adottato, a differenza dei poeti di età umanistica come Pulci e Lorenzo (aderenti al fiorentino vivo), una lingua mista, comune, ‘italiana’4. È facile allora comprendere come l’equazione vulgare latium = ‘lingua italiana’ venisse a

configurarsi quasi spontaneamente nel pensiero del letterato vicentino, ma con un decisivo slittamento di significato dell’aggettivo rispetto all’originaria elaborazione teorica sottesa all’Epistola. Infatti, sebbene Trissino traduca sempre vulgare latium con volgare italiano, nel Castellano egli si sente in dovere di giustificare il suo uso del sintagma lingua italiana appellandosi all’autorevole esempio dantesco, autorizzando di fatto la sovrapposizione di senso fra le due etichette: egli afferma che per Dante «quel vωlgare che in Italia ὲ bellissimω5 […] ὲ un parlare εlεttω da tutte le lingue d’Italia […]. Ε dice, anchωra, che questω tale parlare si chiama ‘vωlgare italianω illustre ε cωrtigianω’»6. Di

seguito, dopo aver riportato letteralmente la sua traduzione di DVE I XIX 1, così si esprime:

Vωi vedete che nωn sεnza ragiωne questa lingua εlεtta ε cωrtigiana Dante nomina vωlgare

italianω ε dice che in essa hannω scrittω gli illustri pωεti tωscani ε gli altri. Però se ’l Trissinω,

trattω da l’autωrità di tant’homω, havesse, anchωra cωntra la verità, dettω lingua italiana, di questω si devrεbbe Dante sì cωme primω autωre riprεndere εt il Trissinω sì cωme crεdulω scuʃare.

1 Cfr. Francesco Montuori in DANTE 2012, pp. 448 sg.

2 La formulazione di tale principio potrebbe essere stata incoraggiata anche dal concetto di commixtio a cui Dante fa

riferimento a proposito del volgare bolognese (cfr. DVE I XV 5).

3 Francesco Montuori in DANTE 2012, p. 448.

4 Cfr. VITALE 1978, pp. 64 sg.; TROVATO 1994, p. 109.

5 Superlativo elativo alla latina, secondo l’uso dantesco della gradatio (pulcerrimum, cfr. DVE I XV 7). 6 Castellano 210.

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Ma havεndωla egli cωn la verità cωsì nωminata, per εssere l’autωrità di Dante da le sue proprie ragiωni ε da quelle che pocω fa havemω dettω ottimamente apprωvata ε cωnfirmata, nωn sωlamente il Trissinω si deve scuʃare, ma ὲ degnω di laude ε mεrita εssere seguitatω da tutti1.

Dunque, è solo a questo punto che Trissino esce allo scoperto e ammette che dietro al suo utilizzo del sintagma lingua italiana si cela quel concetto di ‘superlingua letteraria comune’ che aveva elaborato a partire dal trattato dantesco, rendendo esplicita un’idea che per tutto il corso del dialogo era rimasta latente per via delle ovvie difficoltà che si sarebbero palesate nella già delicata dimostrazione in cui Trissino era impegnato: quella di aver utilizzato, nell’Epistola, il glottonimo nell’accezione geolinguistica di ‘volgare di sì’.

Se in Dante l’espressione vulgare latium sottende senza dubbio un'unica accezione (o meglio, le due accezioni, geolinguistica e linguistico-letteraria, sarebbero in realtà due aspetti complementari di uno stesso significato, e non due significati per uno stesso significante)2, in Trissino non è possibile riscontrare un’integrazione altrettanto felice fra i due poli concettuali di cui si è detto, i quali dovevano apparire inconciliabili al vicentino: la questione della lingua mostrava ormai di incanalarsi sui binari di una disputa fra partigiani della letterarietà della lingua (italianisti da una parte, e trecentisti dall’altra) e sostenitori dell’uso vivo (soprattutto toscanisti)3, e il panorama linguistico italiano era

profondamente mutato nel giro dei due secoli che separano Trissino da Dante, in direzione di una scissione ormai insanabile fra dimensione estetico-letteraria d’élite, ‘di corte’, e dimensione dell’umile parlare quotidiano4. Tutto ciò non poteva che pregiudicare gravemente la possibilità di

comprendere appieno un concetto già di per sé complesso e polimorfo come quello codificato da Dante nel sintagma vulgare latium, e allora non stupisce che Trissino ne abbia scisso le due principali componenti semantiche, senza però portare a completa maturazione il processo di ‘mitosi’ linguistica,

1 Castellano 213 (cfr. TRISSINO 1986, p. 79).

2 Per la problematica relativa al significato di vulgare latium nel De vulgari si veda TESI 2016, pp. 136-139, in part.

p. 138: «Ritengo […] che Dante abbia consapevolmente mantenuto la stessa espressione nel passaggio dal particolare (i

vulgaria municipalia raggruppati in 14 varietà maggiori) al più generale (il vulgare semilatium di destra, suddiviso in 7

varietà maggiori, e il vulgare semilatium di sinistra, suddiviso a sua volta nelle restanti 7 varietà) e al generalissimo (il

vulgare latium = ‘lingua dei doctores illustres’ ma anche volgare di sì) nel tentativo da una parte di rinsaldare un legame

tra la superlingua (che non è propria di nessuna città, ma comune a tutte, secondo un’affermazione che potrebbe risultare paradossale per un lettore moderno: cfr. I XVI 4) e le realizzazioni linguistiche concrete; dall’altra di attutire il carattere astratto, more geometrico demonstrata, della sua teoria linguistica».

3 Cfr. VITALE 1978, p. 43: «alle posizioni estremamente auliche e letterarie del Bembo o strettamente culturali degli

italianisti si possono contrapporre le posizioni più democratiche inclini all’uso popolare di molti fiorentinisti o le posizioni, entro le quali coesistono senza compiuta conciliazione istanze culturali e istanze dell’uso vivo, dei più aperti disputanti toscanisti (Gelli, Tolomei, Varchi)».

4 Cfr. TESI 2016, p. 200: «La distinzione molto attenuata, se non neutralizzata in Dante (ma l’osservazione concerne

complessivamente la competenza retorico-linguistica di un letterato del Medioevo), tra una locutio vulgaris che è lingua naturale delle popolazioni d’Italia e un volgare di tipo letterario, che è anch’esso nella sostanza una lingua naturale […], trova una spiegazione storico-linguistica obiettiva nel fatto che le lingue letterarie antecedenti alla codificazione di primo Cinquecento aderivano completamente, o quasi, all’uso linguistico delle varie locutiones vulgares a cui erano legati i singoli autori, lingua poetica inclusa».

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saltando la fase lessicale: l’aver mantenuto la stessa etichetta per i due concetti (lingua italiana) testimonia inequivocabilmente come la metamorfosi sia avvenuta in modo del tutto inconsapevole nella mente del letterato, come dimostrano anche le numerose interferenze fra livello geolinguistico e linguistico-letterario riscontrate nel Castellano.

L’idea di superlingua che risulta da questa operazione di scempiamento viene inevitabilmente a perdere gran parte del valore socio-politico che in Dante costituiva la cifra ideologica portante del suo discorso teorico, in quanto il suo corpo semantico viene ridotto alla sola componente linguistico- culturale. Ciò è evidente se si considera la traduzione trissiniana degli aggettivi qualificativi che Dante attribuisce al vulgare latium alla fine del primo libro del suo trattato1, ovvero illustre, cardinale, aulicum e curiale: Trissino vi aderisce pienamente a livello lessicale, ad eccezione di curiale che rende con cortigiano. In Dante, curiale codifica l’aspetto politico, universalistico del vulgare latium2, come dimostra la puntualizzazione sull’assenza della curia in Italia in I XVIII 5. Per Trissino, come del resto per tutti i suoi contemporanei, cortigiano è ciò che è nobile, elitario, culturalmente elevato, e fa riferimento alla corte intesa come conversatio, ovvero luogo appartato, deputato allo stare insieme (conversari), alla conversazione elegante, pur nelle contingenze pratiche della mediazione diplomatica. È un concetto squisitamente culturale, che proprio in quegli anni veniva mirabilmente illustrato dall’opera di Castiglione. Infatti, se Dante definisce la curialitas una «librata regula eorum que peragenda sunt»3, ovvero «un valore immateriale, la norma generale del fare al più alto livello di

universalità-razionalità dell’organismo-Regno»4, Trissino traduce, di nuovo tratto in inganno da

un’errata interpretazione del testo5, «la cortigiania niente altro è che una pesatura de le cose che si

hanno a fare»6, perdendo così gran parte del valore normativo di curialitas, intesa come legislazione imposta dall’alto.

L’analisi terminologica condotta sui testi linguistici trissiniani ha mostrato che il concetto di ‘superlingua letteraria comune’ quale affiora dagli stessi scritti – al di là delle specifiche etichette lessicali di volta in volta assegnate al medesimo significato – deve coincidere, a livello teorico, con una «lingua eclettica, composita, miscidata»7 e, per quanto riguarda la sua realizzazione storica, con un canone cronologicamente ampio, dotato di continuità8, comprendente gli optimi auctores già

1 Cfr. DVE I XVI 6-XIX 1.

2 Come mette in luce Tavoni, nel De Vulgari «curia […] è un insieme organico di persone unite da un sistema di

funzioni: vuoi il “consesso feudale di baroni e prelati”, ecc. e/o la “corte, la famiglia di ufficiali e consiglieri a seguito del principe” e/o il “tribunale giudiziario” (nel senso di organo, non di sede fisica) di cui parla Marigo, vuoi la cancelleria, il pur premoderno apparato amministrativo del Regno» (DANTE 2011, p. 1350).

3 DVE I XVIII 4.

4 Mirko Tavoni in DANTE 2011, p. 1351.

5 Trissino legge «libratura» invece di «librata regula» (cfr. Francesco Montuori in DANTE 2012, p. 580). 6 DANTE 2012, p. 512.

7 VITALE 1978, p. 65.

8 Cfr. TESI 2001, p. 200: «l’italianismo del Trissino presenta quella che potremmo definire un’ipotesi di lingua

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individuati da Dante, i grandi trecentisti e gli esponenti della più recente tradizione letteraria in lingua di koinè1.

La Grammatichetta si affaccia nella Poetica con la segmentazione interna rispettivamente dell’atto linguistico in sé e del verso, che si sovrappongono relativamente agli elementi primi, da Trissino individuati nelle lettere, nelle sillabe e negli accenti2. Se nella grammatica la partizione successiva è rappresentata dalla parola, nella poetica essa cede il posto al piede. La coscienza, o perlomeno la codificazione della distanza netta che separa l’articolazione strutturale dei due sistemi, linguistico e poetico, non ha, a quanto mi è dato sapere, un precedente altrettanto significativo a quest’altezza temporale.

Nei due capitoli De le lettere, fra loro del tutto analoghi, Trissino espone la sua personale interpretazione dell’alfabeto ‘italiano’, senza tuttavia entrare nel merito della riforma ortografica e delle motivazioni che l’hanno spinta, argomenti affidati a opere più marcatamente apologetiche come