• Non ci sono risultati.

Fra parola e metro: rimozione, collisione, pronunzia congiunta, cesura

5. Il problema metrico

5.2. Anatomia del verso: piedi, sillabe, lettere

5.2.3. Fra parola e metro: rimozione, collisione, pronunzia congiunta, cesura

Si è visto come Trissino accordi un’importanza non trascurabile ai fenomeni di interazione fra materiale fonematico e computo sillabico come la sinalefe, ai fini di un miglioramento prosodico del verso4, dimostrazione del fatto che la rassegna descrittiva dell’unità versale per celle dipodiche proposta nella Poetica è di fatto meno rigida e astratta di quanto sia stato spesso rilevato.

Ai dispositivi del troncamento, della sinalefe e dell’elisione è dedicato ampio spazio dai grammatici antichi5, e significativamente vi si sofferma piuttosto a lungo anche Antonio da Tempo a proposito della scansio sillabarum dei versi, che rappresenta una digressione all’interno della sezione dedicata al sonetto6, nonché l’unica vera concessione all’analisi della struttura interna del rithimus.

Il troncamento era già stato introdotto da Trissino nella prima divisione, a proposito delle passioni de le parole, ovvero le modificazioni fonomorfologiche a scopo ornamentale. In effetti, la grammatica antica individuava per questi fenomeni un’unica macrocategoria, sotto la denominazione di metaplasmi. Donato ne elenca quattordici: prostesi, epentesi, paragoge, aferesi, sincope, apocope,

l’asprezza del suono greco, detto rivolto» (DOLCE 2004, p. 435). L’asprezza del suono greco fa verosimilmente riferimento al termine che nella grammatica greca designa l’accento circonflesso, περισπωμένη (προσῳδία).

1 TRISSINO 1986, p. 131. Per l’elisione in Trissino si veda il cap. 5.2.3.

2 Cfr. Poetica, pp. XIIIv sg.: «nωi […] anche ne la syllaba che ὲ avanti la antεpenultima alcune volte pωniamω l’acutω

[…]. In scrivaselω, truovinselω ε simili, l’acutω ὲ ne ʼl scri ε ne ʼl truo, syllabe quarte da la ultima, cioὲ inanzi la antεpenultima, ε le altre poi hannω il grave».

3 Cfr. POZZI 1978, pp. 148 sg.: «Allora disse lo Strozza: – Deh, se egli non v’è grave, messer Federigo, prima che a

dire d’altro valichiate, fatemi chiaro come ciò sia che detto avete, che comunemente non istanno sott’uno accento più che tre sillabe. Non istanno elleno sott’un solo accento quattro sillabe in queste voci àlitano, gèrminano, tèrminano,

consìderano e in simili? – Stanno – rispose messer Federigo – ma non comunemente […]. Né solamente quattro sillabe,

ma cinque ancora pare alle volte che state siano paghe d’un solo accento; sì come in questa voce sìamivene e in quest’altra,

portàndosenela, che disse il Boccaccio […]. Ma ciò aviene di rado».

4 Su questo si veda KELLOG 1953, pp. 269 sg., 278-280.

5 Cfr. Probo, De ultimis syllabis XVII-XVIII (KEIL 1961, IV, pp. 263 sg.); Donato, Ars Grammatica III 4 (KEIL 1961,

IV, pp. 395 sg.). Cfr. KELLOG 1953, p. 280.

161

ectasi, sistole, dieresi, episinalefe, sinalefe, ectlipsi, antitesi e metatesi1. Rimozione, collisione e

pronunzia congiunta (rispettivamente troncamento o apocope, elisione e sinalefe/sineresi) sono accorgimenti atti a far combaciare, per ‘sottrazione’, i livelli verbale e metrico dal punto di vista del computo sillabico. La grammatica antica non contempla l’elisione, o meglio non la distingue dalla sinalefe; quest’ultima è invece distinta dalla sineresi, dove per sinalefe si intende unione di vocale finale di una parola e di quella iniziale della successiva, mentre per sineresi unione di due vocali all’interno di una stessa parola (in Donato sono chiamate rispettivamente synaliphe e episynaliphe, mentre il troncamento è denominato apocope).

La rimozione, secondo le parole di Trissino, «ὲ quandω ad una parola che tεrmini in vωcale si rimuove quella ultima vωcale ε fassi terminare in cωnsωnante, cωme ὲ amωre, amωr»2. Questo accorgimento, prosegue il vicentino, può essere applicato solo a vocali che seguano liquida o nasale, sia scempia che doppia, e solo per nome (all’interno del quale Trissino comprende anche l’aggettivo), verbo, pronome, avverbio e congiunzione.

Per quanto riguarda i nomi, il troncamento può avvenire limitatamente ai singolari terminanti in o e e, e ai plurali in -ri e -ni. Un’eccezione a questa regola è, per il singolare, sola > sol, forma che coincide, osserva Trissino, con l’avverbio apocopato, mentre per il plurale il vicentino registra il boccaccesco parol per parole, mostrando di considerarlo una mera licenza d’autore. Inoltre, le parole che terminano in -eli/-elli e -ali/-alli non subiscono troncamento, bensì avviene la rimozione della liquida intervocalica e, occasionalmente, anche della i finale (quali > quai > qua’, tali > tai > ta’, belli > bei > be’).

Nei verbi, il fenomeno interessa la prima e la terza persona plurale del presente indicativo, congiuntivo e imperativo, nonché tutte le terze persone plurali in -no e -nno, gli infiniti e alcune terze persone singolari in -le e -ne, come vuole > vuol, cale > cal, prepone > prepon, mentre pronomi, avverbi e congiunzioni si comportano allo stesso modo dei nomi, salvo permettere il troncamento di a finale.

Alla casistica relativa all’applicazione del troncamento segue una considerazione intorno all’uso, riscontrato da Trissino nella poesia toscana e in particolare fiorentina, di fare «pωchissime rimωziωni in vωce εt in scrittura, ma sωlamente ne ʼl miʃurare i vεrsi»3. Come rappresentanti di questa pratica vengono menzionati Guittone, Bonagiunta, Boccaccio e, «forse», Petrarca, del quale vengono citati due versi, rispettivamente dalla sestina A la dolce ombra de le belle frondi e dalla canzone-frottola Mai non vo’ più cantar com’io soleva4, nella forma seguente: «Altrω salire a ʼl ciεlω per altri poggi»

1 Cfr. KEIL 1961, IV, p. 395. 2 Poetica, p. XVIIIr. 3 Poetica, p. XVIIIv. 4 RVF CXLII e CV.

162

(v. 38) e «Mai nωn vo’ più cantare cωme sωleva» (v. 1). Nel primo caso, la supposta assenza di troncamento in cielo è addebitata da Trissino alla necessità di preservare, a livello grafico, l’integrità della parola-rima, mentre per quanto riguarda il secondo esempio, in cui cantare è in rimalmezzo con sospirare del v. 4, secondo una pratica tipica della frottola1, Trissino sostiene che «chi facesse in esse la rimωziωne farεbbe che le rime terminerεbbenω in cωnsωnante, coʃa che nωn si fa ne le rime italiane, se bεne ne le spagnuole ε prωvenzali ὲ frequentissimω»2. È questa un’altra prova della tendenza da parte di Trissino a individuare il verso nel verso, a vedere cioè, scolpiti nei due endecasillabi, due settenari dotati di statuto autonomo, dunque sottoposti alle leggi consuete del verso fra cui, come in questo caso, il divieto di terminare in consonante. Ma, soprattutto, la circostanza è utile per determinare su quali codici Trissino leggesse i versi che citava. A questo proposito, è interessante notare come la forma non apocopata delle parole di entrambi i versi in questione e l’incertezza palesata da Trissino nei confronti di essa trovi un riscontro nel (parziale) autografo, il Vaticano latino 3195: per la sestina, sebbene nel manoscritto si legga ciel, Giuseppe Savoca annota che «dopo ciel, c’è traccia di rasura di una lettera (con allungamento eccessivo del tratto finale della l), probabilmente una o»3; per la frottola si ha una situazione più complessa ma in buona parte analoga4, ed entrambe possono spiegare l’inserimento con riserva, da parte di Trissino, di questi due versi all’interno dei casi di rimozione. In ogni caso, la concessione a questa supposta pratica antica è solo apparente, o meglio è soverchiata dal rifiuto dell’ipermetria che produce inevitabilmente «mala risonanzia»5.

Trissino passa poi alla collisione, ovvero l’elisione6, la quale «si fa quandω una parola finiʃce in

vωcale ε l’altra cωmincia da vωcale», portando come esempio l’incipit del Canzoniere di Petrarca,

1 Cfr. BELTRAMI 2011, pp. 123 sg.

2 Poetica, p. XIXr. Per i codici di poeti spagnoli e provenzali a cui poteva avere avuto accesso Trissino cfr. LIEBER

2000, p. 140.

3 PETRARCA 2008, p. 243.

4 Si vedano le considerazioni di Giuseppe Savoca in PETRARCA 2008, p. 177: «Questione delicata è quella posta dal

cantare che rende il v. 1 ipermetro, e viene apocopato dagli editori contro la lettera del codice […]. La tradizione propende

per cantar […] ed è paleograficamente molto probabile che questa fosse la forma originaria attestata anche nel 3195 […]. Mestica annotava che in V “su la e è accennata una linea d’alto in basso come per cancellarla”. In maniera analoga, Salvo Cozzo giudicava la “e tagliata da una lineetta appena visibile”, mentre Storey […] afferma che “alla luce ultravioletta si scorge ancora un punto di espunzione sotto la e di cantare”. Probabilmente sbagliano tutti e tre perché la e non è tagliata da una linea, né mostra sottoscritto il punto di espunzione. Non va in merito dimenticato che in quel luogo cade la prima rima interna la quale, come tutte le altre di questa e delle altre strofe, è delimitata dal segnale costituito da una sorta di grossa virgola e da un punto in basso, che qui è più spostato a sinistra (rispetto agli altri simili) sul limite della e aggiunta a cantar […]. È alquanto probabile che la e sia stata aggiunta a cantar dopo l’apposizione del segno metrico, e che la parte puntiforme del segno sia stata inglobata nella curva bassa della e: da qui la necessità di riscrivere sulla destra della nuova e il punto, pur lasciando ferma la parte superiore (quella a forma di virgola) del precedente segno».

5 «[…] ma sia cωme si volja, iω rεputω che la rimωziωne si dεbbia fare ε che tali εxεmpi nωn sianω da imitare per la

mala risωnanzia che da essi risulta» (Poetica, p. XIXr). Weinberg evidentemente non afferra il senso generale del passo, in quanto integra un non fra rimωziωne e si, cambiando di segno l’enunciazione trissiniana.

6 I retori greci chiamano l’elisione σύγκρουσις φωνηέντων, letteralmente ‘collisione’ fra vocali (cfr. Hermog. Id.

163

come farà anche Minturno1. Per Trissino «in questa cωlliʃiωne sεmpre si rimuove la vωcale prima in

cui tεrmina la parola, ε nωn la secωnda in cui l’altra cωmincia», laddove Minturno contempla invece anche l’aferesi, pur senza designarla con un’etichetta specifica, ed esemplificandola con là ’ve per là ove2. Trissino concede all’aferesi parziale legittimità solo nel caso in cui la prima parola implicata nel concursus vocalium sia formata da una sola lettera, come la terza persona plurale del presente del verbo essere,

quantunque […] altri voljanω in tali luoghi nωn rimuoversi nulla; ma fare una adunaziωne di due vωcali in una syllaba, rimωvεndω la vωcale ultima de la precedεnte parola ε facεndω di ε εt il, ε

il in una syllaba, la qual coʃa sarà prωnunzia cωngiunta (Poetica, pp. XIXr sg.).

In casi di questo tipo, dunque, è frequente che si adotti, al posto dell’aferesi, la sinalefe (pronunzia congiunta), ovvero l’unione delle due vocali sotto una singola unità sillabica senza ricorso ad alcun artificio grafico. Il fatto che per Trissino «tal prωnunzia cωngiunta apprεssω de i Latini ε de i Grεci nωn si uʃi senωn in una parola sωla», che cioè nella poesia classica si facesse ricorso unicamente alla sineresi, potrebbe dipendere dal fatto che la sinalefe classica veniva considerata un’elisione operante a livello performativo, sebbene a livello grafico fosse preservata l’integrità delle vocali in gioco3. Per

pronunzia congiunta Trissino intenderebbe dunque una pronuncia integrale dei due fonemi vocalici a contatto, accelerata in modo da essere compresi sotto un unico tempo sillabico, non diversamente da quanto accade nella sineresi, ben attestata nella poesia classica sotto forma di sinizesi, ovvero unione di due vocali contigue appartenenti a due sillabe distinte in un’unica sillaba lunga.

La sineresi, prosegue Trissino, «si fa in mεçω il vεrsω ε nωn in fine»4, e solo quando la vocale tonica è la prima delle due a contatto o quella appartenente alla sillaba precedente, come in havea e continua; viceversa, quando l’accento cade sulla seconda vocale implicata o sulla sillaba successiva, si ha dieresi (pronunzia divisa), come in reale, continuando, beatissima. La pronunzia congiunta, conclude, è collocata specialmente in coincidenza con le cesure e «generalmente ωve nωn si ωffεndenω le ωreckie»5.

Trissino è il primo a produrre una trattazione sistematica di questi dispositivi metrici6, e rimane di fatto il principale punto di riferimento per tutto il XVI secolo. A parte poche eccezioni (fra cui il già

1 Cfr. MINTURNO 1563, p. 323. 2 Ibid.

3 La poesia latina non fa uso della sinalefe a livello grafico, come rileva, fra gli altri, Camillo Pellegrino, per cui cfr.

infra (cfr. WEINBERG 1970-74, III, p. 340).

4 Poetica, p. XIXv.

5 Cfr. D. H. Comp. XI 6-14, su cui si veda GENTILI 1990, pp. 7 sg.

6 Cfr. KELLOG 1953, p. 278. Bembo si limita a osservare, a proposito di due versi del primo sonetto di Petrarca (RVF

164

segnalato caso di Minturno e Lodovico Dolce, il quale si sofferma a lungo sui contesti di applicazione dell’accento rivolto, ovvero l’apostrofo1), saranno infatti sporadiche e perlopiù cursorie le riprese del

tema in questione presso i trattati di poetica comparsi in seguito: ad esempio Bernardino Daniello nella Poetica2 parla di sdrucciolose spezzate, alludendo alle parole sdrucciole sottoposte a troncamento (anche qui è Petrarca ad essere citato a supporto, col verso Crudele, acerba, inexorabil Morte3).

La rassegna delle Regolette di Claudio Tolomei per la nuova poesia barbara comprende anche la casistica degli incontri vocalici all’interno del verso, ma non è operata una distinzione sistematica fra le diverse tipologie, in quanto non si fa distinzione terminologica fra elisione, sineresi e sinalefe, per le quali è usato indifferentemente il termine collisione o, in alternativa, l’equivalente verbale collidere (quando non si fa riferimento ai suddetti fenomeni unicamente per via allusiva)4.

Camillo Pellegrino, nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia (1584), accenna in via molto indiretta al troncamento, non diversamente da Daniello:

E dove si diceva che le nostre voci, terminando tutte in vocali lettere, riescono languide, si risponde che non si toglie a noi la facoltà di farle terminar secondo il bisogno come ne piace, o in vocale lasciandole intere, o in consonante accorciandole5.

All’elisione, anche da Pellegrino denominata collisione, non è concesso molto più spazio:

Ma perché noi abbiamo et usiamo l’apostrofo, sì come ha et usa la lingua greca, e facciamo la collisione, non sempre nella pronunzia delle voci ove tra l’una e l’altra sia questo concorso di vocali s’ode la durezza dello iato, poiché per virtù della collisione si perde una delle vocali come chiaramente si vede in quel verso:

Fior, frond’ erb’ ombr’ antr’ onde aure soavi,

nel quale, non facendosi la collisione, tanto concorso di vocali generarebbe veramente fastidio6.

e popolo le intere voci, dalle quali egli levò la vocale loro ultima; la quale se egli levata non avesse, elle sarebbono state voci alquanto languide e cascanti, che ora sono leggiadrette e gentili» (POZZI 1978, p. 128).

1 Cfr. DOLCE 2004, pp. 435-441. Analogamente Alberto Acarisio parla di accento collisivo in riferimento all’apostrofo

(cfr. supra, cap. 5.2.2). L’elisione viene individuata da Dolce sulla base della sua denominazione tecnica solo più avanti (p. 481): «Il gettar della vocale è detto collisione; la quale non usavano gli antichi rimatori, ma in vece dell’accento rivolto, ove ella far si doveva, ponevano di sotto la vocale un punto».

2 Cfr. WEINBERG 1970-74, I, p. 308. 3 RVF CCCXXXII 7.

4 Cfr. TOLOMEI 1539, pp. Xv-XIIv, XIVv. Per la sineresi e la sinalefe nelle Regolette di Tolomei si veda MANCINI

2000, pp. 92 sg.

5 WEINBERG 1970-74, III, p. 339. 6 Ibid., p. 340.

165

Il verso di Petrarca1 caratterizzato dall’accavallamento delle elisioni (o delle sinalefe, a seconda

della soluzione testuale adottata) è in genere giudicato negativamente dai teorici di poetica del Cinquecento, e Trissino non fa eccezione: esso infatti lo cita alla fine del capitolo sulla cesura, come esempio di abuso dell’elisione, che fa sì che il verso stesso sembri «quaʃi in lingua tedesca»2, a causa

dell’eccessiva durezza generata dalla successione dei gruppi consonantici in fine di parola. La medesima considerazione porta Dolce a stigmatizzare il verso del sonetto petrarchesco, in cui «le spesse collisioni» generano inevitabilmente «l’asprezza»3. Bembo, per il quale questi nessi

consonantici determinano la ‘spessezza’ sillabica, individua quale massima condizione per la realizzazione della gravità la concomitanza fra corposità fonematica e accento acuto nella stessa sillaba4 (fra lunghezza per posizione e per natura, in termini di metrica classica): come esempio di utilizzo esasperato di questa possibilità viene addotto di nuovo il verso in questione. L’attenzione è spostata integralmente sul piano dell’accento da Benedetto Varchi, per il quale la sonorità conferita ai versi dalla quantità di accenti acuti si converte qui in strepito, in virtù della sovrabbondanza degli stessi5.

L’ultimo fenomeno trasversale ai livelli verbale e ritmico del verso preso in esame da Trissino è la cesura, che viene riferita, coerentemente con i presupposti teorici della seconda divisione, ai metri giambici, in particolare al trimetro, ovvero l’endecasillabo. Nella poesia greca, spiega Trissino, le cesure più comuni sono la pentimemere (pentemimere) e eptimemere (eftemimere), «percioché l’una divide per mεçω cinque piεdi ε l’altra sεtte»6, intendendo che la prima cade dopo il primo elemento

del terzo piede (il quinto in assoluto) e la seconda dopo il primo elemento del quarto (il settimo in assoluto). Infatti, prosegue Trissino, «la prima […] verrà ad havere dui piεdi ε mεçω, ε l’altra tre ε mεçω». Nell’endecasillabo italiano queste cesure, denominate quinta e settima, richiedono rispettivamente l’accento di quarta e di sesta, che in virtù della cesura acquisiscono un peso prosodico particolarmente rilevante, tanto che «se per aventura tεrmina in esse la parola sεnza altra syllaba che siεgua, le ceʃura sta bεne εt il vεrsω nωn ὲ turbatω, cωme ὲ, “Ma bεn veggi’ hor, sì cωme a ʼl popωl tuttω”»7. In questo caso, a rigore sarebbe più corretto parlare di dieresi, in quanto la pausa cadrebbe

1 RVF CCCIII 5.

2 Poetica, p. XXv. Mario Pazzaglia ascrive il giudizio alla rigidità normativa del sistema teorico trissiniano in fatto di

metrica: il verso di Petrarca sarebbe visto sotto questa luce «non tanto per una mera ragione di gusto soggettivo, ma perché isolato dal suo contesto e assunto nella definizione normativa di collisioni e rimozioni e “pronuncia congiunta” che caratterizzano la scansione in concomitanza con gli accenti» (PAZZAGLIA 1989, p. 34).

3 DOLCE 2004, p. 488.

4 Cfr. POZZI 1978, p. 151. Cfr. anche pp. 155 sg. 5 Cfr. VARCHI 1590, p. 639.

6 Poetica, p. XIXv.

7 Poetica, p. XXr. Analoghe considerazioni, con ogni probabilità mutuate dallo stesso Trissino, in QUADRIO 1739, p.

684, a proposito del verso dantesco «Dolce color d’orïental zaffiro» (Purg. I 13): «Perché dove la sillaba accentuata non termina la parola, benché alcuna poserella nel pronunziarla, voglia essa che si faccia sopra sé, tuttavolta accorciano quel riposamento, e sollecitano il pronunziante le sillabe, che rimangono a finir la parola stessa, le quali vogliono esser unite al loro corpo. Ma dove la sillaba accentuata termina altresì la parola, la pausa che vogliono gli accenti non venendo da

166

fra due piedi piuttosto che all’interno di uno di essi, in virtù del troncamento di hora. Lo stesso vale per il verso citato successivamente, «Ε de ʼl miω vaneggiar, vergogna ὲ ’l fruttω»: in quanto trimetro giambico, esso verrebbe ad avere una dieresi mediana, che nella poesia greca è piuttosto rara e di solito coincide significativamente con un’elisione1. Ma per Trissino la presenza o meno di una sillaba

atona dopo la tonica di riferimento non influisce sulla posizione della cesura, per cui ad esempio il già citato verso del sonetto proemiale di Petrarca avrebbe la cesura pentemimere pur essendo il confine di parola attestato dopo la quarta sillaba hor. Lo stesso vale anche in presenza di parola naturalmente tronca, come emerge più avanti, quando Trissino sostiene che un verso come «I’ mi vivea di mia virtù contento», rifatto su RVF XXCCCI 1, ha la cesura dopo la nona sillaba2. Questo conferma una volta di più quanto peso sia concesso da Trissino all’accento quale perno immobile attorno cui è costruita l’analisi della struttura del verso, che è lo stesso motivo legittimante dell’interpretazione dell’endecasillabo quale trimetro giambico, ovvero della sovrapposizione virtuale fra i computi sillabici dei due modelli.

È fondamentale che in un verso sia presente almeno la quinta o la settima cesura, come Trissino aveva lasciato intendere nel capitolo sul secondo metron del trimetro giambico, in cui sostiene che, «εssεndω il secωndω piεde pyrrichiω, nωn pωtrà εssere il tεrzω nε trωchεω nε pyrrichiω, cωme havemω dettω; ε questω adviεn perché la quinta ε la sεttima ceʃura parimente si sturba»3. In altre

parole, è necessario che nelle posizioni 4-5 e 6-7 dell’endecasillabo sia presente almeno una successione tonica-atona in fine di parola.

La nona cesura, dopo la prima sillaba del quinto piede, da sola rende il verso pesante e «troppω suspeʃω ad arrivar fin lì sεnza diviʃiωne», ma se usata insieme alla quinta «fa il vεrsω bεllω, risωnante εt altω»4, specie se le vocali della quarta e dell’ottava sillaba saranno a o o seguite da liquida o nasale

più occlusiva. Altre combinazioni fra cesure contemplate sono settima più nona e terza più settima. Il fatto più interessante, per quanto non sorprendente, a proposito della cesura è che Trissino si