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3. La Poetica e la questione della lingua

3.1. La Poetica e il De vulgari eloquentia

Nel suo progetto di scrivere un trattato di poetica volgare, Trissino è ispirato soprattutto dal suo lavoro sul De vulgari eloquentia. Prima che la questione della lingua facesse il suo esordio sulla carta stampata – dunque prima della pubblicazione della decisiva Epistola de le lettere – Trissino era venuto in possesso di un manoscritto contenente il trattato dantesco, l’attuale Trivulziano 1088, risalente alla fine del XIV secolo5. Non ci è dato conoscere i dettagli dell’acquisizione6: sappiamo che essa risale ai primi anni del pontificato di Leone X (1513-14), e che Trissino divulgò in forma orale il contenuto del codice a Roma, a partire dal suo soggiorno presso la corte di Clemente VII nel 1524 (non già dieci anni prima, come supponeva Rajna)7.

Le discussioni sorte intorno al trattato appena riesumato dovettero essere sin da subito molto accese: le polemiche degli intellettuali a cui il Trissino si rivolgeva erano dirette contro le idee dantesche intorno al volgare (fra queste si colloca il Dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli, peraltro di incerta collocazione cronologica), quando non drasticamente contro la

1 Si veda, nella prima divisione della Poetica, il capitolo De la generale elezione de le parole (cfr. infra).

2 Cfr. Epistola 22. Sul concetto di uso nel sistema teorico trissiniano cfr. MAZZACURATI 1966, pp. 153-156; Amedeo

Quondam in TRISSINO 1981, pp. 17 sg.; PFISTER 1991, p. 340; LIEBER 2000, p. 144.

3 Cfr. Castellano 60: «Tutte le lingue hannω il principiω, lω augumentω, il statω, la declinaziωne ε la rωvina lωrω da

l’uʃω di chi parla, ε nωn ὲ pωssibile che i scrittωri possanω scrivere in una lingua sanza haverla tratta da l’uʃω di chi parla» (TRISSINO 1986, pp. 33 sg.).

4 POZZI 1978, p. 95.

5 Cfr. Pio Rajna in DANTE 1896, pp. XXXI-XLIII; Mirko Tavoni in DANTE 2011, p. 1117; Enrico Fenzi in DANTE

2012, pp. XCV sg.

6 Cfr. Pio Rajna in DANTE 1896, p. XLIII.

7 Cfr. DIONISOTTI 1980, pp. 288-303; MARAZZINI 1993, p. 252; GENSINI 2004b, p. 78; Francesco Montuori in DANTE

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paternità stessa dello scritto1 (fra i più fieri oppositori di essa Ludovico Martelli, che si espresse in

proposito, in seguito alla pubblicazione dell’Epistola, con la ben nota Risposta cui Trissino indirizzò la propria controffensiva nel Castellano). Trissino ebbe con il De vulgari eloquentia un rapporto molto più intimo rispetto ai suoi contemporanei che si accingevano ad entrare in confidenza con esso (fra questi lo stesso Bembo, il quale ricevette una copia del T 1088 approntata su autorizzazione dello stesso Trissino, e che mostra di averne fatto largo studio nelle Prose)2, e ciò è legato da un doppio rapporto di causa-effetto al progressivo rafforzamento delle sue tesi ‘italianiste’ sul volgare, che trovarono poi, soprattutto in seguito alle esperienze del vicentino alla corte pontificia in qualità di legato apostolico, ulteriore fondamento e giustificazione su base politica3.

È ormai opinione condivisa che quel ‘fantasma’ linguistico, come ebbe a definirlo Rajna, sotteso alla teoria cortigiana e italianista, abbia invece fondamenti concreti ed empirici. La chiave di volta per comprendere il pensiero e la sensibilità linguistica di Trissino è costituita dall’esperienza diretta di una lingua dai caratteri fortemente ibridi, sovralocali, quale quella in via di formazione che doveva essere utilizzata come necessario strumento di comunicazione fra diplomatici di varia provenienza. A questo si aggiunge la mediazione, cruciale, del rapporto con il De vulgari eloquentia, che nelle sue fasi iniziali precede cronologicamente l’esperienza della corte e ne costituisce un fondamento teorico a priori. D’altra parte, all’altezza della pubblicazione del volgarizzamento Trissino aveva già avuto modo di entrare a diretto contatto con gli esponenti illustri della corte pontificia grazie agli incarichi diplomatici assegnatigli, per cui è da pensare che tali esperienze facessero sentire il proprio peso anche sul complesso lavoro ermeneutico richiesto dall’atto traduttivo, tanto a livello di contenuti (la lingua come oggetto dell’opera) quanto a livello di forma (la lingua come codice dell’opera).

Proprio ai contatti con un contesto linguistico naturalmente ibrido come quello della corte va addebitata l’interpretazione da parte di Trissino della discretio dantesca come di ‘mescolanza’, ‘mescidazione’4: l’italiano si forma, secondo la sensibilità del vicentino, per addizione di elementi

1 Cfr. Francesco Montuori in DANTE 2012, p. 445. 2 Cfr. Francesco Montuori in DANTE 2012, pp. 446 e 450.

3 Secondo Mario Pozzi, «Il modello ‘italiano’ propugnato» da Trissino «prescinde dalle concrete culture regionali,

conformemente alle aspirazioni di un gentiluomo vicentino insofferente della Dominante e incline ad appoggiarsi ai poteri universalistici dell’Impero e del Papato […]. Quella del Trissino era innanzi tutto (in senso lato, s’intende) una proposta politica, e ben lo sapevano i suoi avversari (primo fra tutti, il Machiavelli), donde l’ampiezza apparentemente ingiustificata della disputa» (POZZI 1988, p. 16). Ma prima ancora delle sue esperienze istituzionali, avrà giocato un ruolo non secondario la sua natura squisitamente aristocratica: Giancarlo Mazzacurati parla di «programma politico, cioè quell’assetto di tipo ghibellino (pronto, come avviene, a divenire neo-guelfo) che sedimentava dietro le proposte del Trissino. Si trattava di un ghibellinismo per lui quasi costituzionale, derivazione ereditaria di una tradizione locale e familiare tipica di buona parte della nobiltà veneta di terraferma, specie nella fascia prealpina» (MAZZACURATI 1967, p. 266. Cfr. anche p. 275).

4 Cfr. MAZZACURATI 1966, p. 173: «mentre la discretio dantesca risultava una tendenza alla estrema selezione ed alla

eliminazione delle scorie dialettali o gergali, la discretio trissiniana finisce per identificarsi meglio con questo invito alla mescolanza delle forme, alla koiné, che non è tanto fusione delle forme più pure quanto delle più comuni e più ampiamente divulgabili».

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comuni piuttosto che per sottrazione di elementi idiomatici. Un processo di costruzione a tavolino, non di raffinamento a partire da un insieme eterogeneo.

Dopo aver dichiarato che lo scopo precipuo della sua Poetica è quello di integrare ed emendare i trattati di Dante e Antonio da Tempo sull’arte di scrivere versi in volgare, Trissino porta subito l’opera di Dante in primo piano nel capitolo De la elezione de la lingua, che si apre con la definizione dell’oggetto della dissertazione:

[…] lingua ὲ una cωnfωrmità di parole che si uʃanω ne i medeʃimi sεnsi; ché, cωnciò sia che tutti lj’homini habbianω i medeʃimi sεnsi, cioὲ affirmare, negare, allegrarsi, dωlersi, deʃiderare, schivare ε simili, quelli però cωn divεrse parole fannω manifεsti; cωme lj’Italiani, vωlεndω affirmare una coʃa, dicωnω sì ε negare no; εt i Grεci, vωlεndω manifestare questω medeʃimω sεnsω, cioὲ affirmare, dicωnω nὲ ε negare u; εt i Franceʃi dicωnω ωì vωlεndω affirmare ε vωlεndω negare nanì; ε cωsì lj’altri fannω di questi ε de lj’altri lωrω sεnsi. Laωnde tutti quelli che dimωstranω i medeʃimi sεnsi cωn le medeʃime parole si dicωnω εssere di una lingua (Poetica, pp. IIv sg.).

Una lingua è tale se un gruppo di parlanti assegna a un determinato significato (senso) lo stesso segno (parola). Qui senso non ha nulla a che fare con il sensuale di Dante, che in DVE I III 2 codificava il carattere sensibile della lingua in quanto suono fisico: senso è piuttosto il contenuto razionale, la significazione intenzionale che muove l’atto del comunicare, quello che in Dante è rappresentato dalla componente rationale del signum. A Trissino non interessa sviluppare, sulle orme di Dante, un discorso filosofico intorno all’entità ‘lingua’, ma il suo scopo è quello di dimostrare l’esistenza dell’oggetto ‘lingua’ a livello, per così dire, nazionale sulla base della conformità di parole, ovvero di una supposta comunanza lessicale significativa all’interno di un dominio che trascende quello dei volgari universalmente riconosciuti1. L’esistenza di un volgare panitaliano, come si è visto, non è supposta da Trissino a partire da un’astratta applicazione della reductio ad unum dantesca (né tantomeno dalla banale constatazione della distribuzione delle particelle affermative e negative, che adombra DVE I VIII 3-5), ma da una considerazione di una concretezza illuminante:

Ma εssεndω poche naziωni ε pochi paeʃi che ne i lωrω medeʃimi sεnsi uʃinω tutte le medeʃime parole, cωnciò sia che ne le istesse città si veggia alcuna volta εssere qualche differεnzia ne ’l

1 Cfr. GENSINI 2004b, p. 84: «L’idea centrale è che gli uomini universalmente condividono determinati sensi,

variamente espressi e comunicati da lingue diverse: siamo dunque, pari pari, alla pagina iniziale del De interpretatione di Aristotele da cui dipende, con gli enormi problemi filologici e interpretativi sollevati dalla tradizionale lettura di Boezio, la forma standard del convenzionalismo linguistico. Corollari di questa concezione, la riduzione del significante delle lingue a un sistema di etichette, mutevole secondo l’uso o il caso, e quindi la percezione che un idioma sia in buona sostanza una collezione di vocaboli».

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parlare, però quelli paeʃi che nωn hannω ne le lωrω parole tanta ε cωsì nωtabile differεnzia che nωn si intendanω fra lωrω, si kiamanω di una lingua; cωme sωnω Italiani, Grεci, Spagnuoli, Franzeʃi ε simili, da li quali sωnω le lωrω lingue nωminate; cioὲ lingua italiana, lingua grεca, lingua spagnuola, lingua franzeʃe ε simili (Poetica, p. IIIr).

Trissino ammette apertamente che non tutte le nazioni sono dotate di un patrimonio linguistico omogeneo sull’asse diatopico, e pone come criterio per affermare l’esistenza di una lingua la comprensibilità reciproca all’interno di un determinato dominio linguistico1. Qui entra chiaramente

in gioco l’esperienza diretta del teorico, che di tale comprensibilità si sarebbe potuto giovare nel contesto dei rapporti diplomatici di corte, in cui doveva darsi la necessità di ‘venirsi incontro’ adottando un codice il più possibile depurato e normalizzato a livello fonetico, morfologico e lessicale, verosimilmente su base toscana. Ma l’argomento logico non è accantonato, anzi interviene a corroborare (finendo tuttavia per indebolirlo) l’argomento empirico: Trissino torna sui sillogismi del Castellano intorno alle idee di genere e specie per ribadire la legittimità del concetto di lingua italiana2, e infine porta un ulteriore argomento di nuovo attinto dal De vulgari:

Ωltre di questω Dante, il quale fu tωscanω, danna la lingua pura tωscana ε dice che alcuni volsenω scrivere in essa, cωme fu Guittωne d’Arrezω, Brunettω Fiωrentinω, Bωnagiunta da Luca εt altri, i quali hεbbenω per quella cauʃa cattivω stile; il che pare che volja parimente accennare ne ’l Purgatoriω, quandω fa dire a Bωnagiunta:

Issa veggiω il nodω

Che ’l nωtaiω, Guittωne ε mε ritenne Di qua da ’l dωlce stil nuovω ch’i’ odω.

E sωggiunge che, quantunque i Tωscani quaʃi tutti sianω ne ’l lωr bruttω parlare ωttuʃi, nωn di menω alcuni di essi, cωme fu Guidω da Fiωrεnza, Cinω da Pistωja εt essω Dante, hannω cωnωʃciuta la lingua εxcellεnte ε sωnω partiti da la lωrω propria tωscana εt hannω scrittω in questa altra (Poetica, p. IIIv).

La strumentalizzazione della celebre terzina di Purgatorio XXIV in senso linguistico è funzionale a ribadire la cifra della distanza fra Dante, rappresentante di un idioma superiore in quanto locutio

1 Dunque una lingua è tale anche se la coincidenza fra ‘sensi’ e ‘parole’ non è totale, ma sufficiente a garantire

l’efficacia della comunicazione, che è proprio quanto emerge dalla definizione di lingua che si legge nel Castellano, in tutto simile a quella della Poetica tranne che per un piccolo ma significativo particolare: «Iω dicω che lingua ὲ un parlare humanω che uʃa le medeʃime parole ne ’l manifestare i medeʃimi sεnsi […]. Ε però quelle gεnti che ne ’l manifestare i medeʃimi sεnsi uʃanω quaʃi tutte le medeʃime parole si dimandanω di una lingua, cωme ὲ ‘lingua grεca’, ‘lingua hεbrεa’, ‘lingua italiana’ ε simili» (TRISSINO 1986, pp. 44 sg.).

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selecta, dunque sovralocale, e i puristi toscani come Guittone1, «ne ’l lωr bruttω parlare ωttuʃi», che

traduce il «turpiloquio […] obtusi» di DVE I XIII 42. Subito dopo, Trissino riassume gli ultimi tre

capitoli del primo libro del De vulgari, riprendendo l’argomento della reductio da I XIX 1, per poi concludere:

Questa cωtale discussiωne di lingue mi pare εssere stata fatta da Dante cωn grandissimω giudiciω; percioché, sì cωme i Grεci da le lωrω quattrω lingue, cioὲ da la attica, da la ionica, da la dorica ε da la eolica, fωrmorωnω un’altra lingua, che si dimanda lingua cωmune, cωsì anchωra nωi da la lingua tωscana, da la rωmana, da la siciliana, da la veneziana ε da l’altre d’Italia ne fωrmiamω una cωmune, la quale si dimanda lingua italiana. Adunque le sωpradette ragiωni basterannω a la sωluziωne de ’l dubbiω mossω disωpra; cioὲ che la lingua, ne la quale hannω scrittω Dante ε ’l Petrarca ε Cinω ε Guidω, si dεe nωminare italiana ε nωn tωscana; ε questa dicω εssere quella lingua la quale nωi parimente dωvemω εlεgere a li nostri pωεmi (Poetica, p. IVr).

Anche in questo caso il parallelo fra la situazione linguistica italoromanza e il processo che portò alla formazione della κοινὴ greca in età ellenistica3 è puramente strumentale, e insieme all’analogia fra la mescolanza dialettale omerica e la nobile mescidanza del volgare di Dante e Petrarca, che troviamo nel Castellano4, rappresenta un argomento ampiamente sfruttato sin dalla metà del Quattrocento5. Qui esso presta il fianco a una concezione artificiale dell’entità linguistica la cui

1 Cfr. Francesco Montuori in DANTE 2012, p. 452: «è necessario […] approfondire la percezione e la valutazione che

egli [scil. Trissino] ebbe di Guittone, al di là delle notizie già disponibili, che mostrano una notevole attenzione per il poeta aretino, studiato a Ferrara nel 1512 e poi di nuovo nel 1520». Cfr. anche CANNATA SALAMONE 2005, pp. 921 sg.

2 Dante utilizza una forma particolare di composti per esprimere giudizi – di norma negativi – sopra una determinata

lingua, aventi per testa la parola eloquium (che peraltro non è mai utilizzato in forma sciolta nel De vulgari). Si tratta di

tristiloquium (I XI 2) e, appunto, turpiloquium (I XIII 4. Ad altra sfera appartiene il primiloquium di I IV 1), riferiti rispettivamente al volgare romano e toscano (di livello medio e basso, s’intende). L’uso della forma del composto aggettivo-nome si inquadra perfettamente nell’atteggiamento sprezzante che Dante mostra nei confronti di questi volgari indegni di tal nome (I XI 2 «non vulgare, sed potius tristiloquium»), e contribuisce a rimarcare efficacemente il carattere informe di queste parlate, quasi risultassero all’orecchio come una sorta di sgradevole accozzaglia di suoni mal composti, piuttosto che una vera e propria parlata, per quanto connotata in senso negativo. Non una ‘brutta lingua’, dunque, ma un ‘turpiloquio’, appunto. Trissino sembra non cogliere la portata espressiva delle neoformazioni dantesche, in quanto preferisce sciogliere il composto, traducendone i membri separati in maniera neutra, letterale: tristo parlare e brutto

parlare rappresentano soluzioni certamente legittime, e tuttavia carenti nel rendere la vis sarcastica e pungente che

caratterizza senza dubbio l’atteggiamento di Dante nei confronti di quei parlanti che si arrogano presuntuosamente – e a torto – la primazia estetica del proprio volgare.

3 Cfr. POZZI 1978, p. 93 n. 1: «L’illusoria affinità fra la situazione greca e quella italiana fece sì che assai spesso i

sostenitori della tesi cortigiana comparassero la lingua italiana o comune alla κοινὴ διάλεκτος, il greco comune, che in età ellenistica si sostituì ai dialetti. Tale argomento, esposto in forma discreta dal Castiglione nel Cortegiano (I, 35), è fondamentale nel Trissino, che con l’esempio greco interpretava l’analisi dantesca dei dialetti e il concetto di volgare illustre […]. Ma ai sostenitori della koinè italiana sfuggiva – ma non sfuggiva al Bembo – che ciascun dialetto greco era legato con una forma letteraria da una tradizione tenacissima, così che gli scrittori usavano il dialetto proprio del genere, non quello natio […]. Fu da una lenta trasformazione dell’attico, che accolse elementi dialettali diversi, che si giunse alla

koinè».

4 Cfr. TRISSINO 1986, pp. 66 sg.

5 Cfr. GENSINI 2004b, pp. 88-91, in part. p. 89: «Ciò non stupisce: come ha spiegato benissimo Dionisotti, il fatto che

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esistenza Trissino si sta sforzando di dimostrare: la lingua italiana è veramente quel codice veicolare d’occasione, «che si uʃa ne le Cωrti di Italia» e di cui «ragiωnanω cωmunemente lj’homini illustri εt i buoni cωrtigiani»1. Se ai tempi di Dante, in cui la curialitas era solo virtuale a causa della mancanza di una curia italiana, il vulgare latium poteva allignare unicamente nello spazio tutto letterario della composizione poetica, l’esperienza della corte dischiude al Trissino diplomatico un nuovo orizzonte di fruizione in cui vengono a crearsi le condizioni per la realizzazione degli auspici danteschi, una fucina linguistica che può finalmente fornire una base concreta alla scelta del miglior codice possibile per la poesia.

Trissino muove una riserva a Dante nella scelta del termine vulgare2, «per εssere la lingua ne la quale essi [scil. i buoni autori] hannω scrittω alquantω differεnte da quella de ’l vulgω»3. L’aristocraticità del vicentino non risparmia nemmeno la convenzionalità del nome: non basta l’opposizione genetica al latino per giustificare un’etichetta che non si addice alla natura di un’utenza indiscutibilmente elitaria.

Al termine del capitolo sulla ‘generale elezione delle parole’, prima di passare alla ‘particolare’ Trissino inserisce una digressione sul «modω che uʃa Dante ne ’l librω De la vωlgare εlωquεnzia ad εlεgere le parole che si dennω uʃare ne le canzωni»4, ovvero su DVE II VII.

La traduzione del trattato di Dante entra dunque nel mosaico testuale della Poetica, offrendo un saggio della pratica traduttiva trissiniana al cimento con il latino, lingua assai meno congeniale al letterato vicentino rispetto al greco, su cui la sua competenza è di gran lunga maggiore. Trissino sceglie di presentare un passaggio, lievemente adattato, del suo volgarizzamento, la cui peculiarità principale, a livello linguistico, è proprio il bassissimo tasso di licenza traduttiva, che si risolve in sostanza in un’estrema fedeltà lessicale all’originale, in altre parole nell’esibizione di una lunga galleria di trasposizioni letterali, dunque di latinismi, spesso inopportuni5. Questa tendenza testimonia

cultura del mondo classico, creava una sorta di sponda per argomentare e difendere l’autonomia della recente tradizione volgare italiana nei rispetti del latino».

1 Poetica, p. IIIv.

2 Trissino scrive che «ne ’l suω librω De la vωlgare εlωquεnzia» Dante nomina sempre la lingua usata dagli optimi

auctores «vulgare latinum, cioὲ vωlgare italianω». Questa variante morfologica del determinativo di vulgare è presente

nel Trivulziano 1088 in proporzione uguale a latium (quattro occorrenze a testa, comprendendo il composto semilatium). Non è vero, dunque, che «Trissino […] leggeva sempre vulgare latinum» (DANIELE 1994, p. 118).

3 Poetica, p. IIIr. 4 Poetica, p. Vr.

5 Qualche esempio (le traduzioni fra parentesi sono di Mirko Tavoni): I I 1 lucidare la discrezione per discretionem

lucidare (illuminare il discernimento); I I 2 aprire il suggetto per aperire subiectum (spiegare [scil. il soggetto]); I I 2

distinguere le voci per distinguere voces (articolare le parole); I I 3 e II IV 10 habito per habitum (risp. padroneggiare e

studio); I IV 4, VIII 5, XVII 5 in pronto (o impronto) per in promptu (evidente); I IX 1 porre a pericolo per periclitari (mettere alla prova); I XII 2 examiniamo lo ingegno per examinemus ingenium (interroghiamoci); I XII 5 altriplici […],

settatori di avarizia per altriplices […], avaritie sectatores (ingannatori […], seguaci della cupidigia); I XIII 4 ottusi per

obtusi (arrochiti); I XV 3 prefati per prefati (suddetta); I XVIII 5 grazioso per gratiosus (divino); II VI 6 (e passim) contexto per contextus (intessuto, intrecciato ecc.); II VI 8 extolleno per extollentes (esaltano); II IX 4 (e passim) habitudine per

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da una parte la cautela del traduttore di fronte a un lessico quasi sempre tecnico, fortemente specializzato, o comunque semanticamente pieno, dunque da esporre il meno possibile al rischio di fraintendimenti e decentramenti interpretativi; dall’altra dimostra il rispetto del teorico della lingua nei confronti di un modello linguistico tanto autorevole e pregiato come il latino: si ricordi che il cuore della disputa fra teorizzatori della lingua cortigiana (o italiana) e partigiani del fiorentino (o toscano) era di natura essenzialmente lessicale, e se «i primi consigliavano di attenersi alle forme latineggianti, i secondi difendevano le forme della tradizione popolare toscana»1. Trissino stesso scrive in proposito nei Dubbî grammaticali: «quandω le parole sωnω in dui o più divεrsi uʃi secωndω le divεrse lingue di Italia, quellω uʃω a mε pare che sia da εlεgere ε da stimare più illustre ε cωrtigianω il quale più al latinω s’accosta»2.

Eppure, nella Poetica, appena prima di illustrare la discretio verborum dantesca, aveva avvertito che usare i latinismi in poesia «si dεe fare scarsamente ε cωn gran rispεttω»3. La contraddizione è evidente, e si spiega, come spesso in casi di questo tipo, con la difficoltà da parte di Trissino di allontanarsi in maniera critica dalla sua fonte: qui, infatti, egli non fa altro che citare Orazio, che nell’Ars poetica, parlando dei neologismi («nova fictaque […] verba»)4 aveva consigliato di coniarli

dal greco, purché questo avvenga parce5, ‘con moderazione’.

Seguiamo la digressione trissiniana, a confronto con il passo del De vulgari:

Hor questω basterà quantω a la generale εleziωne de le parole. Quantω poi a la particulare, dirò qualche altra coʃa; ma prima distenderò il modω che uʃa Dante ne ’l librω De la vωlgare

εlωquεnzia ad εlεgere le parole che si dennω uʃare ne le canzωni, ωve dice che de le parole alcune

sωnω puerili, altre fεminili εt altre virili; ε che le puerili, cωme ὲ mamma, babbω ε simili, ε le fεminili, cωme ὲ dωlciada, placevωle ε simili, nωn si dennω uʃare; le virili poi divide in silvεstre ε cittadinesche, de le quali le silvεstre nωn vuole che si uʃinω, cωme ὲ grεggia ε simili. Rεstanω adunque le cittadinesche, de le quali alcune dice εssere pettinate, altre lubriche, altre irsute εt altre