Nel 1562 vengono pubblicate postume, presso l’editore Andrea Arrivabene di Venezia, le ultime due divisioni della Poetica di Trissino, a distanza di trentatre anni dall’apparizione della prima parte dell’opera. Nonostante il lungo lasso di tempo intercorso fra la stampa dei due volumi, l’unitarietà e compattezza delle sei divisioni della Poetica non può in alcun modo essere messa in dubbio: come si è visto, esse sono il frutto di un piano dotato di una propria organicità e coerenza interna che trova nella decostruzione analitica della ποίησις il suo criterio ordinatore. Il disegno complessivo che soggiace al complesso dell’opera è peraltro illustrato da Trissino stesso nella prefazione alla seconda parte, dedicata al vescovo di Arras Antoine Perrenot di Granvela:
Molto tempo è, Reverendissimo et Illustrissimo Signor mio, ch’io composi l’arte Poetica in lingua italiana, la quale distinsi in sei divisioni; e nella prima di esse trattai della elettione della lingua e delle parole; nella seconda del formare i piedi et i versi, con altre cose che a quelli s’appartengono; nella terza investigai i modi dell’accordare le rime, cioè le ultime desinenze; nella quarta poi narrai le sorti dei poemi che con quelle si erano fatti; e ritenni appo me la quinta e la sesta divisione, le quali trattano della inventione della poesia e della sua imitatione, e dei modi con li quali si fa la detta imitatione, cioè della tragedia, dello heroico, della comedia, della ecloga, delle canzoni e sonetti, e d’altre cose simili. Et a queste due ultime divisioni non posi la estrema mano, per essere io in quel tempo nella mia Italia liberata da’ Gotthi grandemente occupato. Hora, poi che con l’aiuto dell’onnipotente Dio sono espedito da quel poema […], ho voluto anchora porre la estrema mano alle predette due ultime divisioni della mia Poetica (Poetica 1562, pp. 2r sg.).
Oltre a ciò, nelle prime divisioni Trissino rinvia più di una volta alle ultime due, per annunciare la futura trattazione di contenuti dei quali viene fatto solo un rapido cenno1, mostrando di avere già ben
chiaro il piano dell’opera nelle sue essenziali linee costitutive.
Nonostante la quinta e la sesta divisione, come si desume dalle parole di Trissino, fossero già in stato avanzato di composizione al tempo dell’uscita delle prime quattro2, non si può ragionevolmente
negare che fra le due parti vi sia una certa disomogeneità, non tanto sul piano dell’approccio metodologico3, bensì su quello dei contenuti e della loro distribuzione argomentativa: da una parte, il
1 Cfr. Poetica, p. IVv: «le traspωrtaziωni […] de le quali ne l’ultima diviʃiωne, cωme a suω propriω locω, si tratterà»;
p. VIIIv: «a dui modi questω tale cωstume si cωnsidera, l’unω di essi ὲ il dare a tutte le persωne se intrωducωnω ne i pωεmi le cωnsuεte proprie ε cωnvenevωli lωrω parole […]; de la qual coʃa, piacεndω a Diω, ne la quinta diviʃiωne di questa Pωεtica diffuʃamente si tratterà».
2 Cfr. WEINBERG 1961, p. 750.
3 Come vorrebbe Maria Lieber, secondo la quale «l’impianto dell’opera subisce variazioni nel corso della stesura: da
una poetica strumentale nei primi quattro libri, si passa negli ultimi due libri ad una poetica normativa» (LIEBER 2000, p. 139).
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passaggio dagli strumenti ai modi e agli oggetti dell’imitazione impone necessariamente uno scarto nell’elaborazione dei moduli espositivi adeguati alla materia trattata; dall’altra, il perentorio affacciarsi, a partire dalla quinta divisione, della Poetica di Aristotele non più soltanto in qualità di modello per la scansione dei referenti teorici ma quale fonte primaria oggetto di vero e proprio volgarizzamento letterale determina una frattura sensibile specialmente nei confronti delle divisioni immediatamente precedenti, nella forma di un’apparente regressione a una poetica di stampo marcatamente classicheggiante, tagliata sulle misure della letteratura greca.
Oltretutto, l’«estrema mano» apposta da Trissino alle ultime due divisioni prima della loro pubblicazione potrebbe essere andata oltre la semplice revisione formale o integrazione occasionale di materiale già in stato avanzato di elaborazione1. Questa ipotesi è confortata dal profondo mutamento occorso alle contingenze storico-culturali relative alla ricezione di Aristotele nel lasso di tempo che separa la comparsa dei due volumi del trattato: le prime quattro divisioni dell’opera trissiniana sono interamente concepite in seno a una temperie culturale in cui la Poetica aristotelica, nonostante abbia già iniziato a sortire qualche interesse presso la comunità dei letterati italiani, non ha ancora avuto modo di imporsi quale punto di riferimento assoluto ed esclusivo nel campo della teoria della letteratura. Un caso emblematico in questo senso è rappresentato dal De poetica di Giorgio Valla2: nell’opera dell’umanista piacentino, che pure è l’autore della prima edizione a stampa,
in traduzione latina, del trattato di Aristotele, le teorie dello Stagirita non rivestono una posizione particolarmente preminente rispetto a quelle di Orazio, Cicerone, Platone e di altre fonti secondarie. Tuttavia, è indubbio che Trissino ricorra precocemente all’autorità dello stagirita, già a partire dalla prefatoria della Sophonisba3. Le ultime due divisioni si inseriscono invece a pieno titolo in quella che Eugène Tigerstedt chiama la ‘terza fase’ della ricezione della Poetica4, inaugurata dalla traduzione latina del Pazzi (1536) e dal commento di Robortello (1548)5. Esse sono in larga misura definibili come una traduzione di Aristotele condotta secondo i medesimi criteri che avevano orientato l’incorporamento del testo di Ermogene nella prima divisione, ovvero un assemblaggio parzialmente originale dei paragrafi della fonte e la sostituzione (o, più spesso, l’affiancamento) degli esempi greci con altrettanti volgari. A questo si aggiunge l’inserzione occasionale di corollari, riferimenti alle divisioni anteriori, excursus normativi e illustrativi, appelli ad altre auctoritates teoriche6.
1 Cfr. WEINBERG 1970-74, II, p. 653: «[…] se non è una poetica nuova quella che [scil. Trissino] lascia alla sua morte
[…], è certo una poetica interamente e di recente rifatta». Cfr. anche WEINBERG 1961, p. 750.
2 Cfr. cap. 1.1.
3 Cfr. MUSACCHIO 2003, p. 337; COSENTINO 2008, p. 218.
4 Cfr. TIGERSTEDT 1968, p. 21. La prima fase consisterebbe nei commenti di Averroè a partire dall’arabo e nella
traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke, mentre la seconda riguarda la fortuna del trattato nella seconda metà del Quattrocento, dovuta a figure quali Poliziano, Ermolao Barbaro e lo stesso Giorgio Valla (cfr. TIGERSTEDT 1968, pp. 7- 21).
5 Cfr. cap. 1.
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Sarebbe improprio considerare questi libri un commento o una parafrasi della Poetica aristotelica1:
il testo di Aristotele non è l’oggetto sul quale è focalizzata l’opera, sottoposto a traduzione diretta e corredato da annotazioni originali con funzione di completamento, glossa o rettificazione, ma è uno strumento trapiantato in massa nel corpo del trattato che lo riceve, è il risultato dello sfruttamento di una fonte portato al massimo grado, non diversamente da quanto avviene con Ermogene2. Per Trissino il volgarizzamento non si identifica mai pienamente con il testo oggetto di traduzione, ma è sempre parte di un discorso originale rispetto al quale il testo rappresenta un mero veicolo di contenuti preesistenti a esso, già determinati dalle intenzioni e dal progetto teorico del volgarizzatore.
Questo vale, in fondo, anche per il trattato dantesco: piuttosto che di ‘traduzione del De vulgari eloquentia di Dante’ si dovrebbe parlare di ‘De la volgare eloquenzia di Trissino’, dove il testo-fonte e il contenitore che lo riceve sono di fatto perfettamente sovrapponibili, con la sola eccezione del codice linguistico. L’eredità culturale del passato assume così una precisa funzionalità, tutto è destinato a supportare l’idea di colui che attinge a essa secondo un disegno strategicamente programmato nei minimi dettagli3. È precisamente qui che risiede il motivo profondo del costituzionale isolamento intellettuale di Trissino, nel suo porsi, rispetto all’altro da sé, in un rapporto di sfruttamento, di deformazione, di abuso, piuttosto che di dialogo e di confronto paritario.
La traduzione trissiniana della Poetica di Aristotele è senza dubbio condotta sul testo greco originale reso per la prima volta disponibile in stampa dall’edizione aldina dei Rhetores Graeci (1508)4, mentre non sussistono evidenze sufficienti per poter affermare che Trissino si sia servito
anche delle traduzioni latine prodotte fino a quel momento (Valla, ma soprattutto Pazzi)5, e del resto
non sarebbe ragionevole postularlo, dal momento che il vicentino si trova molto più a suo agio con il greco che con il latino. È tuttavia verosimile che si sia servito, dopo la lunga parentesi rappresentata
1 Cfr. SPINGARN 1905, p. 134: «Le due ultime parti della Poetica del Trissino […] sono poco più che una parafrasi ed
un riordinamento del trattato di Aristotile»; WEINBERG 1970-74, II, p. 653: «Dopo aver fatto, nei primi quattro libri della sua Poetica, una specie di arte metrica medievale, il Trissino diventa un uomo del suo secolo quando, nella Quinta e la
Sesta Divisione, fa una parafrasi piena della Poetica di Aristotile». Ma cfr. WEINBERG 1961, p. 750: «Indeed, much of the Quinta e sesta divisione is little more than a running translation of the Poetics – translation, not commentary, and hence one of the two earliest versions in Italian, roughly contemporary with Segni’s». Cfr. anche PROTO 1905, p. 47; MUSACCHIO 2003, p. 345 n. 6; Isabel Paraíso in TRISSINO 2014, pp. 25 sg.
2 Cfr. Isabel Paraíso in TRISSINO 2014, p. 27: «[…] creemos que, fundamentalmente, la quinta y la sexta divisiones
son una utilización personal de materiales aristotélicos – especialmente de la Poética –, que le resultan admirables, y que le permiten completar el examen y exposición de todo el fenómeno literario en sus manifestaciones contemporáneas».
3 In questo senso lo scopo primario dei volgarizzamenti trissiniani non è quello di rendere maggiormente accessibile
la fonte, come suggerito da JAVITCH 1988, p. 200 (a proposito di Aristotele nelle ultime divisioni della Poetica).
4 Cfr. HERRICK 1963, p. 16; MUSACCHIO 2003, p. 344 n. 4.
5 Troppo debole l’osservazione di Enrico Musacchio secondo cui μῦθος sarebbe reso da Trissino con favola sulla
scorta del fabula di Pazzi (cfr. MUSACCHIO 2003, p. 344 n. 4): in entrambi i casi si tratta dei calchi automatici del lessema greco, per cui non c’è alcun bisogno di ipotizzare una dipendenza diretta dell’italiano dal latino. Anche Isabel Paraíso è convinta che Trissino avesse di fronte una versione latina, ma anche in questo caso le argomentazioni non mi sembrano convincenti (cfr. TRISSINO 2014, pp. 47, 49). Per i traducenti più significativi utilizzati da Valla nella sua traduzione cfr. WEINBERG 1961, pp. 361-366. Per la versione di Pazzi cfr. WEINBERG 1961, pp. 371-373 e LOWRY 1994, pp. 417-421, 423-425.
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dal lavoro sull’Italia liberata, dell’edizione commentata di Robortello apparsa nel 1548, per la revisione finale del testo1. La stampa veneziana offriva un testo piuttosto problematico dal punto di
vista filologico (sebbene più affidabile di quello che affiora in filigrana dalla precedente traduzione di Valla)2, ma Trissino mostra di saper superare efficacemente gli scogli più insidiosi individuando e sanando nella traduzione diversi luoghi affetti da evidente corruttela.
Un’analisi puntuale delle soluzioni traduttive ed esegetiche operate da Trissino sul testo di Aristotele sarebbe utile per una visione più ampia della ricezione della Poetica in età umanistica, ma non è questa la sede per uno studio di questo tipo, che mi auguro di poter condurre in occasione di un’edizione delle ultime due divisioni del trattato trissiniano. È degna di nota l’intelligenza con cui il letterato vicentino si accosta alle problematiche sollevate da quella che a partire dalla metà del secolo diventa l’incontrastata autorità nel campo della teoria poetica, ma soprattutto va rimarcata la profonda acutezza con la quale tali questioni vengono adeguate al contesto letterario contemporaneo, diversamente da quanto avviene nella maggior parte dei commenti coevi.
Un esempio particolarmente interessante è rappresentato dalle modalità attraverso cui Trissino si confronta con la suddivisione aristotelica della tragedia in sei partizioni costitutive, ovvero μῦθος (intreccio), ἤθη (caratteri), λέξις (linguaggio), διάνοια (pensiero), ὄψις (messa in scena) e μελοποιία (canto e musica)3. Un primo approccio al problema si trova nella prefazione alla Sophonisba, dove
Trissino si preoccupa di giustificare l’uso del volgare nella sua tragedia4:
Percioché la cagiωne la quale m’ha indωttω a farla in questa lingua si ὲ che, havεndω la tragεdia sεi parti necessarie, cioὲ la favωla, i cωstumi, le parole, il discωrsω, la rappreʃentaziωne εt il cantω, manifεsta coʃa ὲ che, havεndωsi a rappreʃentare in Italia, nωn pωtrεbbe εssere inteʃa da tuttω il popωlω s’ella fωsse in altra lingua chε italiana cωmposta […]. Sì che, per nωn le torre la rappreʃentaziωne, la quale (cωme dice Aristotele) ὲ la più dilettevωle parte de la tragεdia […], εlεssi di scriverla in questω idioma5.
Trissino si rende conto di doversi misurare con i problemi compositivi che si impongono a ogni tragediografo, e in primo luogo avverte la necessità di garantire l’efficacia del proprio lavoro, in termini di riscontro da parte del pubblico. Di qui l’importanza accordata alla rappresentazione (ὄψις),
1 Cfr. PROTO 1905, p. 48 e passim. La stessa ipotesi è avanzata da Marvin Herrick, che nota come nell’inventario dei
beni di casa Trissino stilato subito dopo la sua morte (cfr. MORSOLIN 1894, p. 444) figuri un «Volumeni [sic] Robertelli» (cfr. HERRICK 1963, p. 16).
2 Cfr. WEINBERG 1961, p. 367. 3 Cfr. Arist. Poet. 1450a 9-10. 4 Cfr. LIEBER 2000, pp. 141 sg.
5 CREMANTE 1988, p. 31. Questa edizione riproduce la prefazione nella forma stabilita da Trissino per la stampa
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che Trissino dice essere per Aristotele la più dilettevole delle sei parti della tragedia. Questa apparente preminenza della ὄψις individuata da Trissino nella sua fonte ha indotto Weinberg a postulare un errore interpretativo da parte del vicentino1, che avrebbe confuso la ὄψις con il μῦθος (poiché è a quest’ultimo che Aristotele assegna di fatto il primato di ψυχαγωγία)2 o, più probabilmente, sarebbe
stato tratto in inganno dalla lettura difettosa di un passo precedente in cui, stando alla forma del testo quale si ritrova anche nell’aldina, si afferma che la ὄψις prevale su tutte le altre parti3. Evidentemente
Weinberg non era convinto di questa lezione, preferendo la soluzione secondo cui andrebbe corretto ὄψις in ὄψεις o ὄψιν4, ma il passo rimane tuttora filologicamente irrisolto e, in ogni caso, Trissino
aveva di fronte a sé questa forma testuale, non sufficientemente implausibile da indurlo a dubitarne. Della genuinità del passo era certamente confortato anche da un altro luogo in cui Aristotele sostiene che, siccome l’imitazione drammatica si realizza attraverso l’azione della recita (πράττοντες), la prima delle sei parti a risultare evidente è necessariamente la disposizione visiva della messa in scena (ὁ τῆς ὄψεως κόσμος)5. Questo enunciato affiora, infatti, nella quinta divisione del trattato, dove Trissino torna sul problema delle parti della tragedia:
Le parti poi che constituiscono la qualità della tragedia sono sei, cioè la favola, il costume, il discorso, le parole, la melodia, e la rappresentazione […]. Di queste sei parti adunque tre sono quelle le quali si hanno ad imitare, cioè la favola, i costumi et i discorsi; e due quelle con le quali si fa la imitazione, cioè le parole e la melodia; e la sesta è il modo col quale si fa essa imitazione, cioè la rappresentazione. La quale rappresentazione, per essere quella che primamente s’appresenta agli occhi dei spettatori, pare essere la prima e principale parte della tragedia, e dopo quella i versi e la melodia, perciò che con essi versi e con essa melodia si fa la imitazione (Poetica 1562, pp. 8r sg.).
1 Cfr. WEINBERG 1961, p. 370. Cfr. anche FERRONI 1980a, p. 115; FERRONI 1980b, p. 169 n. 15; CREMANTE 1988, p.
31 n. 2; MUSACCHIO 2003, p. 347 n. 20.
2 Cfr. Arist. Poet. 1450a 33-35: «πρὸς δὲ τούτοις τὰ μέγιστα οἷς ψυχαγωγεῖ ἡ τραγῳδία τοῦ μύθου μέρη ἐστίν, αἵ τε
περιπέτειαι καὶ ἀναγνωρίσεις» («Oltre a ciò, quello con cui la tragedia seduce maggiormente sono parti del racconto: i rovesciamenti e i riconoscimenti». Trad. Diego Lanza). Anche la ὄψις viene definita ψυχαγωγικὴ (cfr. 1450b 16-17), ma senza connotazioni superlative.
3 Cfr. Arist. Poet. 1450a 13-14: «καὶ γὰρ †ὄψις ἔχει πᾶν† καὶ ἦθος καὶ μῦθον καὶ λέξιν καὶ μέλος καὶ διάνοιαν
ὡσαύτως» («[…] la vista infatti domina su ogni cosa: sul personaggio, sul racconto, sul linguaggio, sul canto e sul pensiero allo stesso modo». Trad. Diego Lanza).
4 In questo caso πᾶν assumerebbe valore di nominativo e andrebbe riferito a un sottinteso ‘dramma’, mentre ἔχει
varrebbe ‘contiene’: ‘ogni dramma infatti contiene allo stesso modo la messa in scena, i caratteri ecc.’. Cfr. Diego Lanza in ARISTOTELE 2011, p. 137 n. 10.
5 Cfr. Arist. Poet. 1449b 31-33: «Ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον
τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος». Trissino fa concordare evidentemente πρῶτον con μόριον (cfr. FERRONI 1980b, p. 169 n. 15). In ogni caso, anche qualora si assegnasse a πρῶτον, con maggior verosimiglianza, valore avverbiale, il senso complessivo dell’enunciato non subirebbe alterazioni significative.
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Sulla base dei due passi aristotelici, Trissino si sente legittimato a concludere che la ὄψις «pare essere la prima e principale parte della tragedia». A questa formulazione era già pervenuto nella prima versione dell’epistola prefatoria alla Sophonisba (1524), in cui al posto di «la più dilettevωle» si leggeva proprio «la prima parte»1. Evidentemente Trissino doveva avvertire, tutto sommato, un certo disagio di fronte a un testo non del tutto limpido, soprattutto dal momento che altrove viene chiaramente assegnata la priorità al μῦθος piuttosto che alla ὄψις2. Ad ogni modo, qui importa rilevare un significativo mutamento di prospettiva rispetto alla dedica a Leone X. Così prosegue Trissino:
Ma noi devemo considerare che quelle parti che sono prime nei spettatori sono le ultime poste in opera dai poeti, i quali prima cercano la azione e poi i costumi et i discorsi che vogliono imitare, et ultimamente legano le parole in versi da imitarle; lasciando la cura della melodia e della rappresentazione al corago (Poetica 1562, p. 8v).
Anche qui Trissino non fa altro che riportare materiale aristotelico3, ma è notevole il fatto che lo utilizzi solo in questo specifico contesto: se la precisazione di Aristotele non sarebbe stata pertinente là dove Trissino si era occupato dei problemi legati particolarmente alla poesia drammatica, dunque alla messa in scena e alla ricezione da parte del pubblico, non si può dire lo stesso del trattato di poetica, il cui oggetto precipuo è il momento compositivo, del dramma come degli altri generi
1 Cfr. FERRONI 1980b, p. 169 n. 15. Sempre nella Poetica, poco più avanti Trissino recupera anche la soluzione adottata
nella seconda redazione della Sophonisba: «L’ultima [scil. parte] è la rappresentazione, la quale se ben è (come avemo detto) la prima parte che venga agli occhi dei spettatori e la principale di delettazione, pur è senza artificio del poeta» (Poetica 1562, p. 9r).
2 Cfr. Arist. Poet. 1450a 38-39: «Ἀρχὴ μὲν οὖν καὶ οἷον ψυχὴ ὁ μῦθος τῆς τραγῳδίας» («Principio dunque e quasi
anima della tragedia è il racconto». Trad. Diego Lanza).
3 Cfr. Arist. Poet. 1450b 15-20: «Τῶν δὲ λοιπῶν ἡ μελοποιία μέγιστον τῶν ἡδυσμάτων, ἡ δὲ ὄψις ψυχαγωγικὸν μέν,
ἀτεχνότατον δὲ καὶ ἥκιστα οἰκεῖον τῆς ποιητικῆς· ἡ γὰρ τῆς τραγῳδίας δύναμις καὶ ἄνευ ἀγῶνος καὶ ὑποκριτῶν ἔστιν, ἔτι δὲ κυριωτέρα περὶ τὴν ἀπεργασίαν τῶν ὄψεων ἡ τοῦ σκευοποιοῦ τέχνη τῆς τῶν ποιητῶν ἐστιν» («Dei rimanenti la musica è l’ornamento maggiore, la vista è sì di grande seduzione, ma la più estranea all’arte e la meno propria della poetica; l’efficacia della tragedia sussiste infatti anche senza rappresentazione e senza attori; inoltre per la realizzazione degli elementi visivi è più importante l’arte dell’arredatore scenico che dei poeti». Trad. Diego Lanza). La posizione di Aristotele nei confronti della rappresentazione, quale emerge dalle pagine della Poetica, è quantomai problematica. Cfr. Diego Lanza in ARISTOTELE 2011, pp. 33-35, in part. p. 35: «Lo spettacolo, la vista, possiede […] in Aristotele questo ambiguo statuto marginale: è uno dei sei elementi della tragedia e insieme pare sfuggire al dominio proprio dell’arte poetica, necessario e insidioso complemento di cui la tragedia pare a tratti poter fare a meno».
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poetici1. Così, μελοποιία e ὄψις passano in secondo piano rispetto alle altre parti della tragedia, come
nella seconda divisione era accaduto alla ἁρμονία, uno dei tre strumenti dell’imitazione poetica2.
Il materiale offerto dalla fonte di riferimento viene dunque sottoposto a un’accurata selezione orientata dalle necessità argomentative imposte dal contesto atto ad accogliere tale materiale, sebbene la modalità di fruizione privilegiata dei singoli luoghi della fonte resti quella della traduzione letterale e integrale, con pochi ritocchi originali. Si tratta della già rilevata difficoltà da parte di Trissino di affrancarsi da una fruizione non mediata dei testi di supporto alla costruzione del proprio discorso teorico, discorso che rimane comunque, almeno nelle intenzioni, del tutto originale e personale. In questa prospettiva andrebbe ridimensionato il giudizio secondo cui le ultime due divisioni della Poetica sarebbero il frutto di un aristotelismo integrale e incondizionato3, così come non si può parlare di ‘ermogenismo’ per la prima divisione: a seconda dell’argomento che si accinge di volta in volta ad affrontare, Trissino si affida a determinate fonti alle quali si attiene rigorosamente sotto la spinta del suo temperamento filologico ed erudito, da esegeta e traduttore. Una volta verificata la relativa superiorità di Aristotele sugli altri ‘antiqui’ nel campo della teoria dei modi e degli oggetti dell’imitazione4, è naturalmente spianata la strada alla riproduzione fedele e automatica del modello,
senza che si possa per questo parlare di aderenza totale alle dottrine in esso contenute. Infatti, ogni volta che le circostanze testuali glielo consentono, Trissino mostra di distanziarsi dalla fonte a cui si sta dedicando: così come nei confronti della teoria linguistica di Dante, che pure traduce, divulga con appassionato fervore e riporta pedissequamente nella Poetica e nel Castellano, egli arriva a formulare