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Le forme della poesia: Antonio da Tempo

5. Il problema metrico

5.4. Le forme della poesia: Antonio da Tempo

La terza e la quarta divisione della Poetica sono dotate di uno statuto decisamente autonomo. Esaurito il discorso sulla struttura interna del verso, per il quale ha aperto la strada ai trattati di poetica volgare a venire, Trissino deve proseguire ed esaurire la trattazione del ῥυθμὸς dedicando il debito spazio ad un tema non nuovo, ma bisognoso di risistemazione: quello delle forme metriche. Nella poesia volgare, esse si distinguono prevalentemente sulla base degli schemi strofici individuati dalla rima, per cui può sembrare paradossale il fatto che il primo difensore del verso sciolto dedichi

il penetrante rapporto di causalità, che il Trissino istituisce fra rima ed uniformità delle figure), e dal suo proporsi come linguaggio temporale e terreno, intenzionalmente realistico. Nel momento in cui ormai non cogenti appaiono le ragioni che ne avevano fondato la struttura, la poesia strofica medievale si rivela finzione sottoposta a regole che la determinano e, annullandone la libertà, la salvano anche dal rischio inerente in ogni destrutturazione». Cfr. anche CIAMPOLINI 1896, p. 7.

1 Cfr. GRIFFITH 1986, p. 150; SORELLA 1993, pp. 765 sg., in part. p. 765: «Nei cori […] l’autore, seguendo gli esempi

greci, adotta uno stile lirico, mentre nelle parti recitate lo sciolto trissiniano si allontana decisamente dal fraseggiare petrarchesco […]. Si accorse di tale scarto stilistico, censurandolo, il Tasso, nelle note al testo della Sophonisba, sostenendo che “quasi da per tutto vuol rimproverarsi a l’autore difetto ne la locuzione, che manca spesso di gravità e nobiltà, quale si conviene a la tragedia”, mentre “sembra che i cori siano di diverso autore, tanto sono più eleganti e nobili”». Sorella osserva giustamente che tale distinzione operata da Trissino dipende dalla sua interpretazione della

Poetica di Aristotele, quale si legge nella quinta divisione del trattato: «La tragedia è una imitazione di una virtuosa e

notabile azione che sia compiuta e grande, la quale imitazione si fa con sermone fatto suave e dolce, separatamente in alcune parti di quella […]. Et il sermone fatto suave e dolce è quello dei cori, alli quali si richiede il canto e l’armonia; e dicendo “separatamente in alcune parti” si dinota che alcune parti si forniscono solamente coi versi et ad alcun’altre si ricerca l’armonia et il canto» (Poetica 1562, p. 8r). Sui concetti aristotelici di ῥυθμὸς, λόγος e ἁρμονία in Trissino cfr. cap. 2. Secondo Ermanno Ciampolini, la monotonia e la fiacchezza degli sciolti trissiniani sono da attribuire alla deliberata reiterazione di schemi ritmici foggiati sul trimetro giambico, in particolare con accenti su seconda, sesta e decima o seconda, quarta, ottava e decima sillaba (cfr. CIAMPOLINI 1896, pp. 8 sg.).

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addirittura un terzo del suo trattato alle disposizioni rimiche. A questo riguardo non bisogna sottovalutare il peso modellizzante che le artes medievali esercitavano ancora nel Cinquecento, in quanto uniche rappresentanti, fino ad allora, dei manuali di composizione poetica in volgare, per di più nobilitate, agli occhi di coloro che, come Trissino, non dubitavano della paternità dantesca, dall’opera che costituiva di fatto il culmine di quella tradizione teorica, il De vulgari eloquentia. Inoltre, la rima non è per Trissino deprecabile in sé: i generi che, come la lirica, sono caratterizzati da dolcezza e vaghezza (si veda l’incipit della quinta divisione) la richiedono naturalmente, pertanto una poetica che aspiri a coprire tutte le possibili declinazioni stilistiche (si pensi alla rassegna delle idee ermogeniche) e, di conseguenza, tutti i generi della poesia, non può esimersi dall’illustrare le forme tradizionali di quei generi che proprio dalla rima assumono il proprio preciso statuto.

In apertura della prima divisione Trissino nomina Dante e Antonio da Tempo quali unici estensori, fino ad allora, di artes poeticae per il volgare1. Il silenzio sopra il Trattato di Gidino da Sommacampagna, che costituisce di fatto il vero precedente in volgare di questo genere di opera, potrebbe essere dovuto al fatto che, agli occhi di Trissino, lo scritto di Gidino rappresentava niente di più che un volgarizzamento della Summa tempiana2, e l’ipotesi non è inverosimile se si pensa che l’opera di Antonio rappresenta, a differenza del De vulgari (che il giudice padovano peraltro non conosceva), il punto di riferimento nella teoria della versificazione dalla sua comparsa fino al primo quarto del XVI secolo3. Inoltre, il fatto che Gidino non menzioni mai Antonio potrebbe aver

contribuito a cementare in Trissino questa idea: se si fosse trattato di un’opera autonoma, sarebbe stato perlomeno curioso il fatto che Gidino avesse tralasciato di citare la massima autorità in materia (e la circostanza è, di fatto, piuttosto strana, «dal momento che l’opera del giudice padovano non solo era considerata un manuale d’uso corrente, ma la dedica ad Alberto della Scala fa pensare ad una sua diffusione in ambito scaligero»4). Sulla base di considerazioni di natura testuale, Gabriella Milan si è chiesta se il vicentino non avesse di fronte il presunto volgarizzamento di Gidino piuttosto che l’originale di Antonio.

1 Cfr. Poetica, p. IIv. Per l’assenza di contatti diretti fra l’opera di Antonio e il De vulgari eloquentia, si veda Richard

Andrews in ANTONIO DA TEMPO 1977, p. VII; CAPOVILLA 1986a, pp. 122 sg. La distanza fra Dante e Antonio si misura soprattutto con il diverso peso da essi accordato alla canzone: se per Dante essa rappresentava il genere privilegiato, naturale bacino di coltivazione del volgare illustre, nella Summa «la cantio extensa, che nella pratica trecentesca si era già copiosamente affermata come la forma più illustre e artificiosa della lirica volgare, da un punto di vista morfologico non fruisce di particolare menzione». Questo dimostra «l’inattualità didattica di una teoria della canzone, almeno ai fini, e per il pubblico, che Antonio da Tempo s’era prescelti. E mostra che, nonostante tutto, la Summa, testo prezioso per arcaicità e per precoce intento normativo in un settore di recente formazione, non si rivolge a quelli che Dante opportunamente definiva gli “illustres poetantes”, bensì a una rimeria più bassa e corriva, statisticamente prevalente» (GORNI 1984, pp. 440 sg.). Cfr. anche MARI 1899b, pp. 41 sg.

2 Questa l’ipotesi di Gabriella Milan. Cfr. cap. 5.

3 Cfr. Richard Andrews in ANTONIO DA TEMPO 1977, p. VII; Isabel Paraíso in TRISSINO 2014, p. 29. 4 Gabriella Milan in GIDINO DA SOMMACAMPAGNA 1993, p. 40.

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Tuttavia, a prescindere dalla verosimiglianza di una conoscenza diretta da parte sua dell’opera di Gidino, Trissino ebbe certamente sott’occhio il trattato latino e bisogna credere che su di esso modellò la terza e la quarta divisione della Poetica. La Summa Artis Rithimici Vulgaris Dictaminis, composta nel 1332, viene pubblicata a Venezia nel 1509 per i tipi di Simone da Lovere1. La tradizione del testo è complicata da un cospicuo numero di interpolazioni risalenti al XV secolo, in buona parte assorbite dall’edizione veneziana2. Il Trattato di Gidino, probabilmente steso negli anni Ottanta del XIV

secolo, è invece trasmesso da un codex unicus (il 444 della Biblioteca Capitolare di Verona) databile alla fine dello stesso secolo, le cui vicende rimangono oscure fino all’acquisizione da parte di Scipione Maffei a Bologna agli inizi del XVIII secolo3. Data la presenza dell’edizione a stampa per la Summa, uscita appena un anno dopo l’aldina dei Rhetores Graeci che costituisce una delle fonti chiave delle prime due divisioni, sarebbe difficile supporre che Trissino non si fosse preoccupato di consultarla. Ma soprattutto intervengono a dissipare ogni dubbio incontestabili argomenti di natura testuale: la citazione della definizione tempiana di ritmo all’inizio della seconda divisione4 è traduzione condotta direttamente sul testo originale, dal momento che Gidino, il cui trattato comincia ex abrupto dalla trattazione del sonetto, non ha nulla di simile.

Per quanto riguarda le analogie riscontrate dalla Milan fra luoghi del Trattato e della Poetica, esse non sembrano decisive nella dimostrazione di una dipendenza diretta della seconda dal primo: la denominazione ballate picciole, attribuita da Trissino ad Antonio il quale parla di ballatae minimae, di contro al ballata piçola di Gidino, può essere semplicemente la conferma della cristallizzazione di un’etichetta invalsa in volgare per designare quel tipo di composizione, mentre l’accostamento fra i due passi in cui si osserva un’analogia fra ballata e sonetto non è pertinente, in quanto i due trattatisti fanno riferimento a due cose diverse: se Gidino osserva che entrambe le forme metriche possono essere composte incroxate o dimidiate, ovvero con disposizione rimica incrociata o alternata rispettivamente nella ripresa e nei piedi5, Trissino da parte sua non fa che constatare che tanto la ballata quanto il sonetto si compongono di due diverse tipologie strofiche, ripresa (e volta) e mutazione per la prima e base e volta per il secondo6.

La sezione della Poetica dedicata alle forme metriche è in realtà più originale di quanto si possa credere, soprattutto la terza divisione, che Trissino dedica alle «deʃinεnzie» dei versi, «cioὲ […] la

1 Cfr. Richard Andrews in ANTONIO DA TEMPO 1977, p. VIII. Per una bibliografia su Antonio e la Summa si veda

CAPOVILLA 1986a, pp. 111 sg. n. 5.

2 Cfr. Richard Andrews in ANTONIO DA TEMPO 1977, pp. IX, LXIII, LXVIII sg., in part. p. LXIII: «L’editore Simon

De Luere […] sembra essersi rivolto a parecchie fonti per comporre la sua versione stampata della Summa, e ha lavorato, a quanto pare, secondo il principio di includere tutto quello che trovava e di non escludere niente»; CAPOVILLA 1986a, pp. 110, 112.

3 Cfr. Gabriella Milan in GIDINO DA SOMMACAMPAGNA 1993, p. 38; Gian Paolo Marchi ibid., pp. 9 sg. 4 Cfr. cap. 5.1.

5 Cfr. GIDINO DA SOMMACAMPAGNA 1993, p. 103. 6 Cfr. Poetica, p. XLIv.

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fωrmaziωne de i modi ε de le cωmbinaziωni di essi»1. Prima di affrontare l’analisi dei cinque generi

metrici «in uʃω apprεssω i buoni autωri», quindi, il teorico premette una lunga rassegna delle possibili combinazioni della rima, che non trova riscontro nei trattati medievali e che risponde al medesimo gusto logicizzante dell’elenco, esaustivo quanto ridondante, delle soluzioni combinatorie fra accento grave e acuto nella seconda divisione2. Questa parte riprende e sviluppa quanto era stato esposto da Dante in DVE II XIII a proposito della relatio rithimorum: l’introduzione che Trissino dedica alla rima in sé, in cui ne viene illustrata la realizzazione nelle parole tronche, piane e sdrucciole ed è fatto cenno all’utilizzo della rima equivoca (sulla quale si distendono anche Antonio e Gidino3), costituisce una deliberata integrazione alla lacuna lasciata dal De vulgari, che secondo le intenzioni di Dante avrebbe dovuto essere colmata contestualmente alla trattazione della poesia mediocre:

Rithimorum quoque relationi vacemus, nichil de rithimo secundum se modo tractantes: proprium enim eorum tractatum in posterum prorogamus, cum de mediocri poemate intendemus4.

Per prima cosa, Trissino si preoccupa di rendere ragione del suo sistema tassonomico:

Hora, percioché questi cωtali vεrsi che ne le ultime parole si hannω ad accωrdare, si dividenω quaʃi in skiεre, perché alcuni di lωrω hannω ragiωne da unω ad unω, altri da dui a dui, altri da tre a tre, altri da quattrω a quattrω, altri da cinque a cinque, εt altri da sεi a sεi; però quelli che hannω ragiωne da unω ad unω kiameransi unità, quelli da dui a dui coppie, quelli da tre terzetti, ε quelli da quattrω quaternarii, ε cωsì da cinque quinarii, ε da sεi senarii. Ε questi tali, cioὲ coppie, terzetti, quaternarii, quinarii ε senarii, per havere l’unω cωn l’altrω diversità, divideremω in sorti, le quali kiameremω modi; cioὲ modi di coppie, modi di terzetti, di quaternarii ε de lj’altri; poi quandω accωpieremω unω terzettω cωn un altrω di quel medeʃimω modω, ε cωsì quaternariω cωn quaternariω, ε lj’altri, queste cωtali copule kiameremω cωmbinaziωni (Poetica, pp. XXIv sg.).

I raggruppamenti da uno a sei versi rappresentano le unità sovrastichiche minime che possano essere replicate (combinate) all’interno dei generi metrici che saranno oggetto di descrizione nella divisione successiva. Dopo il senario, secondo Trissino, non si danno ulteriori combinazioni di raggruppamenti:

1 Poetica, p. XXXVIIr.

2 Cfr. PROTO 1905, pp. 28 sg. Amedeo Quondam parla di «attenzione costante, di tipo proprio statistico, nel rilevare

il grado di presenza delle forme poetiche, per quanto riguarda ‘elezione di parole’, ‘composizione dei versi’, ‘desinenzie loro’, e quindi le ‘cose che da queste si formano’ (che corrispondono ai temi trattati nelle prime quattro ‘divisioni’ della

Poetica), con la precisa, sempre, segnalazione del loro indice di frequenza nell’esperienza poetica della tradizione (‘la

più usitata’, ‘rara’, ‘rarissima’, ‘usitatissima’, eccetera)» (QUONDAM 1980, p. 77). Cfr. anche AFRIBO 2001, pp. 137 sg.

3 Cfr, Summa LXV-LXVI; Trattato IX. 4 DVE II XIII 1.

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bεn si truovanω sirime di canzωni di più numerω, tal chε ne ho vedute fina di diciottω vεrsi. Cωsì si truovanω stanzie cωntinue di più numerω; le quali se bεn l’una a l’altra rispωnde, questa nωn ὲ però propria cωmbinaziωne, cωme vederemω quandω tratteremω di esse (Poetica, p. XXVIv).

Sulla base di questa classificazione, vengono individuate le possibili combinazioni rimiche (modi) per ciascun raggruppamento: due per il distico o coppia (ab, aa), cinque per il terzetto (abc, aba, abb, aab, aaa), quindici per il quaternario (abba, abbc, abbb, abab, abac, abaa, abcd, abca, abcb, abcc, aabc, aaba, aabb, aaab, aaaa). A questo punto Trissino avverte che, data la rarità di molte combinazioni logiche del quaternario, «ὲ da credere che Dante εt il Petrarca li schivasserω ε nωn volesserω uʃare senωn il primω, il secωndω εt il quartω»1. Per il quinario, che consentirebbe ben cinquantadue possibili combinazioni, Trissino è costretto a rinunciare, per ovvie ragioni di spazio, a proporre l’elenco astratto dei vari casi e a illustrare solo «alcuni uʃitati εxεmpi di lωrω» (abbcd, abccd, aabbc, ababc, ababb). Stesso discorso per il senario, di cui Trissino fornisce solo due esempi del tipo aabbcd e abbccd.

Si passa poi alle combinazioni, ovvero la replica di raggruppamenti stichici secondo lo stesso modo, o schema rimico (la combinazione fra diversi modi di uno stesso raggruppamento è detta mistione), e secondo la medesima successione di tipologie sillabiche (ad esempio, in una combinazione fra due terzetti, se il primo è formato da un endecasillabo, un settenario e un altro endecasillabo a schema aba, il secondo deve replicare queste caratteristiche, anche con rime diverse purché nello stesso ordine, quindi cdc). Inoltre, in caso di rima interna le due parole rimanti devono occupare la stessa posizione all’interno dei due raggruppamenti. Le combinazioni vengono poi classificate in discordi, concordi e in parte discordi: le discordi sono formate da due raggruppamenti aventi rime diverse (ad esempio aa-bb; abc-def), laddove nelle concordi c’è identità di rima, che può essere dritta (es. ab-ab; abc-abc) o obliqua (es. ab-ba; abc-bca). Quelle in parte discordi ibridano le caratteristiche della prima e della seconda tipologia (es. aba-bcb).

La mistione, come si è già accennato, avviene

se si pone un terzettω di un modω εt unω di un altrω, ε cωsì quaternariω cωn quaternariω di divεrsω modω […]; la qual mistiωne Dante ne ’l librω De la vωlgare εlωquεnzia nωn vuole che si uʃi senωn per la cωncatenaziωne ε per la cωngiunziωne o, cωme elji dice, cωncrepaziωne de li ultimi vεrsi de la stanza; ε queste coʃe nωn sωnω senωn ne le secωnde parti (Poetica, p. XXXVv).

Il passo dantesco a cui fa riferimento Trissino è il seguente:

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In versibus quoque fere semper hac lege perfruimur: et ‘fere’ dicimus quia propter concatenationem prenotatam et combinationem desinentiarum ultimarum quandoque ordinem iam dictum perverti contingit1.

Concrepazione è latinismo che risponde a concrepantia di II XIII 6 (‘accordo fra le rime’. Più sotto il termine è chiosato con consonanzia, che ne costituisce anche il traducente nel volgarizzamento), mentre per seconde parti Trissino intende le volte, che nel De vulgari, e in genere nella terminologia metrica medievale, assumono il nome di versus. Dante usa volta in una sola occasione (II X 2, seguito da Trissino, che nel volgarizzamento si attiene come al solito fedelmente alla lettera del testo originale, traducendo versus con versi), indicandola come voce incolta e riferendosi quasi sicuramente alla diesis, ovvero la deductio, il passaggio da una melodia a un’altra, piuttosto che alla partizione strofica che solo successivamente ha assunto tale denominazione2. Una volta uscito dalla citazione, e per tutta la quarta divisione della Poetica Trissino si sgancia dall’ingerenza lessicale del De vulgari, in quanto il trattato dantesco non costituisce più la fonte diretta (non l’unica, almeno) dell’argomentazione, e si serve liberamente di volta come da terminologia corrente. Qui la consueta soggezione di Trissino alla lettera della fonte lo spinge ad adottare una forma perifrastica («le seconde parti») peraltro sfruttata anche da Dante (II XIII 7: «quidam […] desinentias anterioris stantie inter postera carmina referentes intexunt»), onde evitare ambiguità con versi (unità stichiche) nella stessa frase.

Esaurito il discorso sugli schemi rimici, Trissino passa ad affrontare l’ultimo argomento metrico, il più generale secondo l’argomentazione logica del trattato, impostato, come si è visto, lungo una direttrice che va dal più piccolo (la lettera) al più grande (le forme metriche) secondo la consueta formula della reductio ad unum di matrice tomistica presa a modello dal De vulgari eloquentia. I generi, o forme metriche sono dunque l’oggetto della quarta divisione, la più vicina alle artes versificatoriae di stampo retorico-grammaticale, in particolare ai trattati di Antonio da Tempo e Gidino da Sommacampagna.

I generi individuati da Trissino sono cinque: sonetto, ballata, canzone, madrigale (mandriale) e serventese. L’esclusione degli altri due generi tradizionalmente accorpati a questi, ovvero rondello e

1 DVE II XIII 11. Qui Dante «vuol dire che si può contravvenire alla regola per cui se un verso è senza rima nella prima

volta deve trovare un corrispondente di rima nella seconda ecc., dando invece priorità alla concatenazione di rima con i piedi e alla combinazione di rime (rima baciata) finale, che comportano delle conseguenze sulla disposizione delle altre rime» (Mirko Tavoni in DANTE 2011, p. 1537).

2 Anche diesis poteva talvolta indicare la partizione strofica in sé: cfr. MARI 1899b, pp. 48 sg.: «Diesis è un’altra

denominazione che Dante trovava nella musica e nella grammatica. Il volgo diceva volta tanto la sospensione del cantus e il riprenderlo poi cangiato, quanto la parte del cantus che succedeva al cangiamento […]. Anche diesis che in Dante e nelle sue fonti è la divisione astratta tra parte e parte, poteva significare le stesse parti divise, come si comprende da quel passo di Remigio d’Auxerre, “atque in hoc, id est in hac ratione, numeris toni similis invenitur, sub quo tonus in quatuor

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motto confetto, è dovuta alla loro assenza nella pratica poetica dei buoni autori, come Trissino si preoccupa di precisare, indirizzando coloro che volessero averne notizia ad Antonio da Tempo. Trissino adotta per mera convenzione la terminologia arcaica in uso presso la tradizione teorica medievale a cui si appoggia, salvo poi specificare che, ad esempio, per serventese intende in primo luogo il capitolo, ovvero la terzina dantesca1. Questo genere, per Trissino, si differenzia dagli altri per il fatto di presentare sempre un intreccio narrativo organico dotato di unità d’azione, come è dichiarato alla fine della sesta divisione:

[…] se ben questi tali [scil. i generi metrici della quarta divisione] sono cose picciole, pur sono diversi poemi perciò che imitano diverse azioni, sì di materia di amore come di laudi e d’altro. Vero è che alcuna volta si faranno dui o tre di questi poemi di una istessa azione, come sono le tre canzoni che fece il Petrarca in laude degli occhi di Laura le quali manifestamente sono di una azione sola, onde tutte tre sono un solo poema. Ma questo non avvien sempre, come si può vedere nelle canzoni e sonetti della morte di Laura le quali, avvegna che siano di una medesima cosa, cioè della morte di lei, nondimeno quasi tutte hanno diverse azioni o diversi concetti […]. Adunque ogni canzone, o sonetto, o ballata, o mandriale, piglieremo comunemente per un poema, salvo che i serventesi, cioè le terze rime dei Triomfi del Petrarca e dell’opera di Dante e di altri; ché per essere di una sola azione grande, la quale ha principio e mezzo e fine, sono un solo poema (Poetica 1562, pp. 45v sg.).

Secondo le categorie aristoteliche, il serventese dunque costituisce sempre un unico poema autonomo, a differenza degli altri generi, i quali possono rappresentare singolarmente solo frammenti di un’azione compiuta (o di un concetto), ricostruibile tramite l’assemblaggio di componimenti diversi.

Il primo genere trattato, il sonetto, è introdotto dalla spiegazione etimologica del termine2, non diversamente da quanto si trova in Antonio da Tempo, che però propone una diversa interpretazione: se per Trissino ‘sonetto’ «nωn vuol dir altrω che ‘cantω picciωlω’, percioché lj’antiqui dicevano