• Non ci sono risultati.

Parole proprie, parole trasportate: semantica della metafora

4. L’aldina dei Rhetores Graeci: Aristotele, Ermogene, Dionigi, Demetrio

4.3. Parole proprie, parole trasportate: semantica della metafora

Un indizio del fatto che le ultime due divisioni della Poetica costituiscono un’appendice pienamente integrabile alle prime quattro può essere visto nelle modalità con cui Trissino affronta il tema dei tropi o traslati, ai quali viene concesso spazio in entrambe le pubblicazioni. In particolare, nella prima divisione Trissino si occupa di linguaggio figurato contestualmente alla sua traduzione del Περὶ ἱδεῶν di Ermogene. La σεμνότης (‘solennità’), da Trissino resa con venerazione, è una delle articolazioni della μέγεθος (‘grandiosità’)2. Uno degli strumenti attraverso cui questo tipo di stile può essere generato è l’uso dei τροπικαὶ λέξεις, ovvero tutte quelle figure di significato che comportano uno slittamento semantico di una base lessicale o sintagmatica3. Trissino traduce τροπικαὶ λέξεις con

trasportazioni, che può essere considerato un calco di μεταφορὰ – o, se si vuole, di translatio – in quanto implica l’idea di trasferimento, trasporto di valore semantico da una base a un’altra.

Verso la fine della rassegna ermogenica, Trissino parafrasa un passaggio della sua fonte in cui si affronta la δεινότης, l’abilità di saper utilizzare appropriatamente tutte le altre forme di stile. Lì il retore greco parla di τετραμμένος λόγος. La differenza rispetto a τροπικὴ λέξις è minima, e non coinvolge il senso generale: se nel caso di τροπικὴ λέξις si parla di ‘linguaggio metaforico’ in senso

1 Cfr. Poetica 1562, p. 23r: «[…] li eccellentissimi poeti di ogni lingua tutti sono stati metaforicissimi, come si vede

essere Omero fra i Greci, Virgilio fra i Latini e Dante fra gli Italiani».

2 Cfr. Hermog. Id. I VI 18-20; Poetica, p. VIv.

75

lato, ovvero l’insieme dei dispositivi che lo determinano, τετραμμένος λόγος è semplicemente il prodotto di tale linguaggio, un discorso ‘traslato’1. Tuttavia, Trissino in questo caso traduce parole

converse, avvicinandosi al concetto generico di mutazione (che peraltro rappresenta il valore originario della radice greca) piuttosto che di trasferimento. Ritengo che la distinzione lessicale adottata da Trissino non sia casuale, ma che adombri una vera e propria differenziazione semantica: egli doveva avere in mente due oggetti almeno in parte differenti, come si può dedurre da un’analisi accurata delle divisioni postume, in cui il linguaggio metaforico assume un peso decisivo nell’economia dell’esposizione.

Nella Poetica 1562 la fonte primaria non è più Ermogene, ma Aristotele. La definizione di metafora fornita nella quinta divisione è presa di peso dalla Poetica dello Stagirita, con qualche riserva:

Ogni parola poi è o propria, o lingua, o metafora, o ornamento […]. La metafora poi è un trasportare di parole di uno significato nell’altro, con una certa similitudine di ragione (Poetica 1562, p. 21v).

Ἅπαν δὲ ὄνομά ἐστιν ἢ κύριον ἢ γλῶττα ἢ μεταφορὰ ἢ κόσμος […]. Μεταφορὰ δέ ἐστιν ὀνόματος ἀλλοτρίου ἐπιφορὰ ἢ ἀπὸ τοῦ γένους ἐπὶ εἶδος ἢ ἀπὸ τοῦ εἴδους ἐπὶ τὸ γένος ἢ ἀπὸ τοῦ εἴδους ἐπὶ εἶδος ἢ κατὰ τὸ ἀνάλογον2.

Rispetto alla fonte, Trissino non riporta gli slittamenti semantici fra specie e genere, che per Aristotele vanno compresi sotto la μεταφορὰ tanto quanto le ἐπιφοραὶ definite κατὰ τὸ ἀνάλογον, ovvero per analogia. L’omissione è spiegata poco più avanti:

Ma perché Aristotele non separò la sinecdoche dalla metafora, anzi di quella come metafora tratta e così fa dello abuso, noi però serberemo queste alla Sesta Divisione, ove di queste insieme con le altre conversioni e figure, come a suo luoco, si tratterà (Poetica 1562, p. 22r).

Trissino non si rende conto che per Aristotele il termine μεταφορὰ sta a significare, in generale, tutte le tipologie di mutazione del valore semantico di una base significante, fra cui la metafora in senso stretto, ma anche sineddoche, catacresi, metonimia, ipallage e così via3. In particolare, alla sineddoche Aristotele si riferisce, ovviamente, quando parla di passaggi fra γένος e εἴδος. Ciò che

1 Si noti che la base etimologica dei due determinativi, aggettivo denominale il primo e participio perfetto il secondo,

è la medesima (radice *τρπ di τρέπω e τρόπος).

2 Arist. Poet. 1457b 1-2, 6-9.

76

Trissino definisce abuso è la figura di significato nota con il nome di catacresi, ovvero una metafora utilizzata per colmare una lacuna lessicale e che, di conseguenza, diventa di uso comune (es. la ‘gamba’ del tavolo)1.

Da Aristotele in poi il termine μεταφορὰ si specializza progressivamente e, a partire dagli stoici, il significato originario viene assorbito da τρόπος. Questa evoluzione viene infine assorbita dalla retorica latina2, come è testimoniato da Cicerone:

Translata dico […] quae per similitudinem ab alia re aut suavitatis aut inopiae causa transferuntur; immutata, in quibus pro verbo proprio subicitur aliud quod idem significet sumptum ex re aliqua consequenti […]. Hanc […] μετωνυμίαν grammatici vocant, quod nomina transferuntur; Aristoteles autem translationi et haec ipsa subiungit et abusionem, quam κατάχρησιν vocat3.

Il passo ciceroniano ha senza dubbio orientato l’affermazione trissiniana sulla condotta di Aristotele nei confronti della metafora. Qui Cicerone definisce la catacresi abusio, anche in questo seguito da Trissino, e parla di immutatio o μετωνυμία (metonimia), comprendendo sotto di essa la sineddoche, come risulta dagli esempi forniti, tolti da Ennio4.

Per Trissino, il significato di metonimia è alquanto specifico, dal momento che è limitato alla sostituzione dell’oggetto con il nome del suo inventore:

La metonimia è quando in vece del proprio nome se ne pone un altro, alla invenzione e tutela del quale esso proprio nome si riferisce, come è Cerere per lo pane, del quale essa fu inventrice, e

Bacco per lo vino, e Vulcano per lo fuoco, e Nettuno per lo mare, e simili (Poetica 1562, p. 41v).

Fra gli autori di trattati di poetica composti sulla scia dell’opera trissiniana alcuni rimangono fedeli all’impostazione teorica di matrice aristotelica. È il caso di Antonio Minturno, il quale riproduce fedelmente lo schema quadripartito dei tropi, chiamati trasportamenti:

1 Il fatto che sotto la categoria aristotelica di metafora siano comprese anche sineddoche e catacresi è rilevato anche

da Robortello nel suo commento alla Poetica: cfr. ROBORTELLO 1548, p. 247.

2 Per i dettagli sull’evoluzione del concetto di metafora da Aristotele alla latinità cfr. CALBOLI 2005.

3 Cic. Orat. 92-94. «Chiamo metafore quelle parole che […] per somiglianza sono trasportate da una cosa a un’altra

o a scopo di ornamento o per mancanza di una propria denominazione; chiamo metonimie quelle in cui per una cosa al posto di un vocabolo proprio se ne sostituisce un altro che abbia il medesimo significato desunto da una cosa che abbia rapporto con quella […]. I grammatici la chiamano μετωνυμία, perché si mutano i nomi; Aristotele alla metafora unisce anche queste e l’abusio che chiama κατάχρησις» (trad. Giannicola Barone). Cfr. MORPURGO-TAGLIABUE 1967, pp. 169 sg.

4 Cfr. Cic. Orat. 93: «[…] alio modo transtulit cum dixit Ennius “arce et urbe orba sum”, alio modo, si pro patria

arcem dixisset; et “horridam Africam terrribili tremere tumultu” cum dicit pro Afris immutare Africam» («[…] in un modo lo attuò Ennio quando con una metafora disse: “sono priva della rocca e della città”, in un altro modo lo avrebbe attuato se avesse detto rocca nel senso di patria e lo attua in un altro modo nel verso: “l’orrida Africa tremò al terribile tumulto” quando dice Africa per Afri con nome mutato». Trad. Giannicola Barone).

77

Il trasportamento, che da’ Latini traslatio, da’ Greci metaphora si chiama […], non è altro, che una somiglianza, per cui la parola posta nell’altrui luogo, come s’egli fusse suo, essendo conosciuta molto diletta […]. Trasportasi la voce, o dal genere alla spetie […], o dalla spetie al genere […], o d’una spetie in un’altra […], o con certa proportione1.

Stesso discorso va fatto per Tasso, che nei Discorsi del poema eroico traduce fedelmente Aristotele, a partire dalla classificazione lessicale:

Ogni nome è o proprio, o straniero, o trasportato, o usato per ornamento, o fatto, o allungato, o accorciato, o mutato […]. Traslazione è trasportamento di nome proprio o da genere a spezie, o da spezie a genere, o da spezie a spezie, o secondo la proporzione2.

Tuttavia, Tasso si dimostra più lucido di Trissino nel delineare in senso diacronico la situazione relativa alle etichette di volta in volta assegnate alle figure retoriche in questione da Aristotele in avanti:

Ma benché questo nome di metafora paia tanto ristretto d’Aristotele quanto abbiam veduto, nondimeno alcune volte l’usò in larghissimo significato, perch’egli suole chiamar metafora ogni nome che non è proprio. Laonde Cicerone estima ch’Aristotele comprendesse sotto il nome di metafora tutto quel che da’ grammatici e da’ maestri del dire (i quali dividono e spezzano le cose) vien chiamato con vari nomi; e senza fallo i nomi d’ipallage, di metonimia e d’allegoria furono dopo Aristotele di nuovo ritrovati […]. Laonde non è meraviglia se di poche figure ritroviamo appresso Aristotele alcuna menzione […]. Ma le figure peraventura si possono multiplicare in infinito […]. Non errò dunque Aristotele in tralasciarle; o più tosto, non le tralasciò, perché tutte le raccolse sotto la metafora, e le distinse dalle parole proprie; né si può imaginare altra più perfetta divisione o altra più certa partizione di quella ch’egli fece nella Poetica3.

Nello sviluppo del concetto di metafora dall’antichità al Rinascimento un ruolo cardine è giocato dalla retorica latina. Come si è già avuto modo di vedere, sebbene le ultime due divisioni della Poetica siano inconfondibilmente aristoteliche, e nonostante la decisa predilezione di Trissino per la cultura greca, spesso il vicentino si affida alle autorità latine là dove possano fornirgli un sostegno teorico più affidabile e completo, e questo accade sistematicamente quando si tratta di retorica.

1 MINTURNO 1563, p. 308. 2 TASSO 1964, p. 179. 3 Ibid., pp. 188 sg.

78

Oltre a Cicerone, la voce più autorevole in materia è senza dubbio Quintiliano. Nell’Institutio oratoria il retore romano denuncia la problematicità dello statuto teorico del linguaggio metaforico, cagionata dall’effettiva divergenza di prospettive fra grammatici e filosofi1. La sua teoria dei tropi

rappresenta un vero e proprio punto di riferimento dopo Aristotele, tanto da influenzare profondamente il pensiero umanistico in questo settore. Verso la fine della sesta divisione della Poetica Trissino recupera il discorso sulle figure di significato che aveva introdotto nella divisione precedente, sviluppandolo secondo modalità più sistematiche. Sebbene non dichiari apertamente la fonte a cui si rivolge, un confronto serrato con l’Institutio oratoria non lascia spazio a dubbi in proposito2. Si confrontino i seguenti passaggi:

Le conversioni adunque, che i Greci dimandano tropi, sono un mutare le parole dalla propria e consueta significazione e ponerle con virtù in un’altra che faccia più manifesto o più alto o più dilettevole il sermone (Poetica 1562, p. 40r).

Tropos est verbi vel sermonis a propria significatione in aliam cum virtute mutatio3.

E ancora:

Le metafore sono parole che significano propriamente una cosa e sono trasportate in un’altra con similitudine di ragione nell’una e nell’altra (Poetica 1562, p. 40v).

Transfertur ergo nomen aut verbum ex eo loco in quo proprium est in eum in quo […] tralatum proprio melius est4.

E tali metafore o vero transportazioni si fanno di quattro maniere, la prima delle quali si fa da animato ad animato […]. La seconda maniera di metafora è da animato ad inanimato […]. La terza è da inanimato ad animato […]. La quarta maniera di metafora è da inanimato ad inanimato (Poetica 1562, pp. 21v sg.).

1 Cfr. Quint. Inst. VIII VI 1. 2 Cfr. PROTO 1905, p. 77. 3 Quint. Inst. VIII VI 1. 4 Quint. Inst. VIII VI 5.

79

Huius vis omnis quadruplex maxime videtur: cum in rebus animalibus aliud pro alio ponitur […] aut […] inanima pro aliis generis eiusdem sumuntur […], aut pro rebus animalibus inanima […] aut contra1.

Gli elementi più significativi che Trissino eredita da Quintiliano sono la distinzione fra il concetto generale di tropo e quello specifico di metafora, nonché la definizione di metafora come relazione fra un oggetto animato e uno inanimato. Per quanto riguarda il primo elemento, se si confrontano i passi citati ci si rende immediatamente conto che Trissino accoglie da Quintiliano l’idea secondo cui alla base dei tropi ci sia una mutazione (mutatio > un mutare) delle parole coinvolte sul versante del loro valore semantico, laddove le metafore implicano una relazione più specifica fra le parole stesse, una relazione di trasferimento (transfertur > sono trasportate). Si tratta della medesima differenza che è già stata riscontrata, nella prima divisione, fra parola conversa e trasportazione, che rispondevano rispettivamente a τετραμμένος λόγος e τροπικὴ λέξις nel Περὶ ἱδεῶν di Ermogene. Non è difficile pensare che Quintiliano, già sfruttato da Trissino nella Poetica 1529, lo abbia spinto a vedere nella variatio ermogenica un’effettiva differenziazione semantica, orientando di conseguenza queste soluzioni traduttive.

Il secondo elemento è la sostituzione delle categorie aristoteliche di genere e specie con un secondo schema logico, anch’esso quadripartito, fondato su tutte le possibili combinazioni di relazione fra oggetti animati e inanimati2. Questa interpretazione del concetto di metafora ha avuto un notevole successo nel Rinascimento: lo si ritrova, ad esempio, nell’Arte poetica di Minturno3 e nel trattato retorico La topica di Giulio Camillo Delminio4. La relazione fra genere e specie sembra in un primo momento classificata da Quintiliano come caso particolare di metafora (con il riferimento al rapporto fra totus e partibus)5, ma subito dopo viene ricondotta sotto il dominio della sineddoche6.

Uno dei casi in cui l’eccessiva aderenza alla fonte porta Trissino a contraddizioni interne al suo stesso sistema teorico si palesa in questo settore del trattato. Sebbene Quintiliano circoscriva piuttosto puntualmente il concetto di catacresi nei paragrafi seguenti7, la sua definizione di metafora

1 Quint. Inst. VIII VI 9-10. 2 Cfr. FRANKE 2000, p. 144. 3 Cfr. MINTURNO 1563, p. 309.

4 Cfr. WEINBERG 1970-74, I, p. 364. Sul trattato di Camillo si veda BOLZONI 1987, in part. pp. 85-93. 5 Cfr. Quint. Inst. VIII VI 13.

6 Cfr. Quint. Inst. VIII VI 19: «Haec [scil. synecdoche] variare sermonem potest, ut ex uno pluris intellegamus, parte

totum, specie genus, praecedentibus sequentia, vel omnia haec contra» («La sineddoche può dare varietà allo stile e farci comprendere più concetti con uno solo: il tutto dalla parte, il genere dalla specie, ciò che segue da ciò che precede, o viceversa». Trad. Stefano Corsi e Cesare Marco Calcante).

7 Cfr. Quint. Inst. VIII VI 34-36. Cfr. anche VIII II 4-5: «[…] multa sunt et Graece et Latine non denominata […].

Unde abusio, quae κατάχρησιν dicitur, necessaria» («[…] sia in Greco che in Latino vi sono molti concetti che non possiedono una denominazione […]. Ne consegue la necessità dell’abusio, detta katáchresis in Greco». Trad. Stefano Corsi e Cesare Marco Calcante).

80

comprende l’idea di necessità, che rappresenta in realtà la condizione di esistenza della catacresi stessa. Trissino sembra non rendersene conto, dal momento che opera una traduzione integrale del passo quintilianeo:

E queste tali metafore si fanno nei nomi e nei verbi, o per necessità, o per maggior significazione, o per ornamento (Poetica 1562, pp. 40v sg.).

Id facimus aut quia necesse est aut quia significantius est aut […] quia decentius1.

Come si è detto, Quintiliano circoscrive successivamente la necessitas ponendola sotto il dominio della catacresi, lasciando intendere che si tratta di un caso particolare di metafora. Ma Trissino, appena prima di riportare la traduzione di cui sopra, aveva istituito una distinzione netta fra metafora e catacresi, dicendo che le metafore non «in altro sono differenti dalla abusione se non che ivi si pongono a cose che non abbiano nome e qui a cose che l’abbiano»2. Di qui il cortocircuito: quella

che in Quintiliano poteva ancora essere giudicata una sistemazione poco chiara e sistematica della materia, in Trissino diventa patente contraddizione.

Iacopo Mazzoni, nel suo monumentale trattato Della difesa della Comedia di Dante, addita l’apparente incoerenza di cui può essere tacciato il capitolo quintilianeo sui tropi, dimostrando di averlo letto con maggior attenzione di quanto non abbia fatto Trissino:

Si sforza […] Quintiliano di separare la catachrisi dalla traslatione, dicendo che […] la catachrisi è quando una parola si ripone in un significato, che non ha propria voce. Questa distinzione di Quintiliano è ripugnante a’ suoi principii, havendo egli detto nel medesimo luogo, che la metaphora si prende molte volte per necessità, mancando la parola propria al significato, nel qual vien trasferita la metaphora3.

Questa confusione intorno al concetto di catacresi è dovuta al fatto che la definizione di questa figura era ben lontana dall’essere stabilita una volta per tutte già dall’antichità: secondo Cicerone e l’autore della Rhetorica ad Herennium l’abusio non ha a che vedere con l’assenza di un termine proprio, ma piuttosto con l’uso improprio di una metafora, anzi viene a coincidere di fatto con la

1 Quint. Inst. VIII VI 6.

2 Poetica 1562, p. 40v. Secondo Minturno per abuso si intende qualsiasi trasferimento arbitrario di significato per

analogia, e non è chiaro cosa lo differenzi dalla metafora. Cfr. MINTURNO 1563, p. 317: «Abusiamo anchora spesso i vocaboli quando il simile e propinquo per lo certo e proprio poniamo […]. E ciò facciamo così nelle cose alle quali mancano i proprii nomi, come in quelle che gli hanno: il che è prossimo al trasportamento». La prima frase fa eco a Cic.

Orat. 94 («et abutimur verbis propinquis […]»).

81

metafora stessa1. Nell’Orator, come si è visto2, uno dei possibili scenari di utilizzo della metafora

(translatio) è rappresentato dall’inopia, che deve essere interpretata come mancanza di un termine specifico. La concorrenza fra le due accezioni potrebbe essere dovuta all’ambiguità del significato letterale del termine greco κατάχρησις e del suo calco latino abusio, ovvero ‘utilizzo improprio’, oltre i limiti imposti. Oltre a questi fattori, possono essere addotte ragioni di natura storica, in particolare il movimento di reazione alla natura sempre più tecnicistica del sapere retorico dopo Aristotele3.

Giraldi Cinzio, sulla scorta di Cicerone4, vede nella necessità e nell’arbitrio a scopo estetico due fasi cronologicamente distinte che caratterizzano la nascita e lo sviluppo della metafora. Essa è una diretta conseguenza dell’inopia da cui sono affette le lingue nei loro primi stadi evolutivi, venuta meno la quale si trasforma in strumento di potenziamento espressivo:

Le voci traslate furono quelle che ne’ principj delle lingue si trovarono per la loro povertà, perché mancando le proprie voci, usavano le tradotte; cioè quelle che avevano qualche simiglianza colla cosa, della quale si devea ragionare. Poscia dopo l’essersi arricchite le lingue, veduto quanto di forza, di splendore e di lume portassero con esso loro nella maggiore abbondanza delle voci, sono state accettate per lumi dell’orazione così poetica, come oratoria5.

Oltre alla necessitas conseguente all’inopia, la retorica considera anche la consuetudo quale origine della catacresi. Demetrio, che non adotta una categoria specifica per questa figura ma, come Aristotele, la considera sotto il dominio della μεταφορὰ, parla di συνήθεια (consuetudine), a sua volta responsabile dell’ἀσφαλῶς μεταφέρειν, la produzione di metafore consolidate, invalse nell’uso, secondo un processo involontario e inavvertito (μεταφέρουσα λανθάνει)6.

Un ulteriore elemento di distanza fra la posizione di Aristotele e quella di Trissino sui tropi è il fatto che quest’ultimo concepisce la metafora come una similitudine abbreviata7. Questa idea è

1 Cfr. Cic. Orat. 94: «abusionem […], ut cum minutum dicimus animum pro parvo; et abutimur verbis propinquis, si

opus est vel quod delectat vel quod decet» («l’abusio […], come quando diciamo animo piccolo nel senso di gretto e abusiamo di parole affini se è necessario o perché ci piace o perché ci conviene». Trad. Giannicola Barone); Rhet. ad Her. IV 45: «Abusio est, quae verbo simili et propinquo pro certo et proprio abutitur» (‘l’abusio è quella figura per cui al posto della parola propria e opportuna ci si serve impropriamente di una parola simile e semanticamente vicina’). Cfr. Gualtiero Calboli in CORNIFICIO 1969, pp. 51 sg., 390.

2 Cfr. Cic. Orat. 92, riportato supra. 3 Cfr. CALBOLI 2005, p. 98.

4 Cfr. De orat. III 155: «Tertius ille modus transferendi verbi late patet, quem necessitas genuit inopia coacta et

angustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit» («Il terzo modo, l’uso della metafora, è di vasta applicazione: nato per necessità dalla povertà e dai limiti del lessico, ha poi acquistato popolarità per il suo carattere dilettevole e piacevole». Trad. Mario Martina et al.).

5 GIRALDI CINZIO 1973, p. 145.

6 Cfr. Demetr. Eloc. 86: «Πάντων δὲ καὶ τῶν ἄλλων ἡ συνήθεια καὶ μάλιστα μεταφορῶν διδάσκαλος· μικροῦ γὰρ

σχεδὸν πάντα μεταφέρουσα λανθάνει διὰ τὸ ἀσφαλῶς μεταφέρειν» («La consuetudine è maestra in ogni campo e soprattutto nelle metafore. Essa fa di quasi ogni cosa una metafora e non ce ne accorgiamo tanto si tratta di metafore consolidate». Trad. Nicoletta Marini).

82

assente nella Poetica e nella Retorica di Aristotele1, ma la si ritrova in Cicerone e in Quintiliano,

nonché nel Περὶ ἑρμηνείας di Demetrio in cui la similitudine è definita, all’inverso, una metafora aumentata2.

La metafora è per Trissino uno strumento fondamentale nella composizione poetica in quanto, come tutte le figure retoriche, incrementa l’espressività del linguaggio favorendo quella qualità dell’elocuzione poetica che consiste soprattutto nel «dire diligentemente ogni particularità de le azioni, e non vi lasciar nulla»3, ovvero l’ἐνάργεια. Non bisogna lasciarsi ingannare da ciò che Trissino afferma a proposito dell’abuso della metafora nella quinta divisione4: lì egli sta traducendo alla lettera

il capitolo XXII della Poetica di Aristotele5 e, come spesso accade nell’opera, l’aderenza incondizionata alla fonte finisce per soffocare quella che dovrebbe essere la voce autonoma del teorico6, la quale emerge solo a sprazzi, squarciando a fatica la spessa coltre testuale del